Tolkien, Sulle fiabe

Gnosticismo In Tolkien è fondamentale il concetto di subcreazione – cioè la sottocreazione che, in origine, viene fraudolentemente compiuta da un demiurgo, che, nel Silmarillion, segna l’origine della polifonia, perché il demiurgo si intromette nell’opera della creazione, si nasconde così come poi l’artista, secondo la teoria di Tolkien, crea un altro mondo – che comporta, secondo le regole della grammatica, chiamare *un’altro mondo, che è l’azione di chiamare la lingua in quanto presenza di ciò che è *l’alingua, che è ciò si pone in quanto Ecclesia di tutto un popolo che non c’è: l’apostrofo è allora ciò che si pone come differenza in tutti e due i casi, vale a dire ciò che fa la differenza, essendo, in entrambi i casi, pura differænza di ciò che non c’è, che mostra come il fantasy nasca da tale ambiguità d’ombra resa ombrosa nel tratto d’apostrofo. Chiamare la lingua in quanto ciò che è l’alingua comporta chiamare l’imbastardimento, cioè il meticciato, anche solo in quanto tratto grammaticale ricomposto attraverso lo spazio di un piccolo apostrofo. L’apostrofo è ciò che pone ciò che parla come ciò che non ha diritto alla parola in quanto essere umano, bensì in quanto cosa vivente, che è ciò che gli orchi esprimono nel loro dissonante clangore di suoni, che, comunque, secondo Tolkien è ciò che comporta la possibilità di una trasmissione di ordini, per quanto mai di una storiografia. È una parata di imbecilli.

Il piccolo fascino del male – In duale forma, sì frapposta, ravvisasi, penso, pure puer per paro-paro collegamento fra meticcio e delinquente, che Lombroso Cesare aveva di suo già prima posto tutto a suo comprendimento; posto che meticcio e delinquente siano, attualmente, forme le più interessanti tra tutte le – da qui la sfioritura ampia & fioritura di romanzi magri visti giallo su gialli (dico romanzi gialli, come pure romanzi neri, secondo quanto informa Sciascia su copertine, paro paro), visto che, se di delinquenza si può liberamente parlare e straparlare, di razza non si deve più ciarlar giammai in modo alcuno.

Il pericolo – Ma canto d’altro & punto di vista altro tutto apposto, l’incontro con il punto del mito è ciò che costituisce il pericolo, così come l’omicidio, come uccisione di uno o molti ancora più individui, in quanto trasgressione di uno individuo, è ciò che si oppone al genocidio, come impegno di ciò che lo Stato ha lasciato cadere, omicidio di una fascia intera di cose, perché l’umano è ciò che è chiamato ad incontrare, di suo da sempre, il pericolo – Grazie al dio della razza bianca, non al Dio del nemico, a cui meno che mai rispondiamo.

Le tre forme viventi – Tolkien considera tre tipologie di forme viventi, nella propria sua picciola sì tanto dispersa opera, che ricordano tre le forme possibili di esseri viventi secondo teoria nomata “gnosticismo”: forme passibili di spirituali, forme di psichici, forme di ilici: che in Tolkien comporta successione de le forme via via nomate come: forma di elfi, forma di umani, forma di orchi. Siamo allora sicuri di conoscere quello che Tolkien ha scritto e che poi ci è stato presentato?

Il cristianesimo dimenticato – Alessandro Dal Lago (Eroi e mostri. Il fantasy come macchina mitologica, Laterza 2017) richiama l’attenzione su di un punto del Beowulf in cui Grendel è l’essere della stirpe di Caino che non è stato accolto, ma che invece è stato rifiutato dalla comunità degli umani, quando Grendel era solo la deforme forma che solo chiedeva accoglienza, pari pari ne lo istesso modo in cui accoglienza chiedeva la creatura di Frankenstein – o qualunque migrante adesso in Europa.

Annientamento – Nel romanzetto di fantascienza di Charles Stross Annientamento (2015), una cosa parvi certa: quando ampiamente dal mito siamo passati al romanzo – vi siamo passati *ampliamente. Ma ciò che questo romanzetto di fantascienza esprime è l’inclusione verso tutte le forme che mito e romanzo avevano presentato come ciò che deve essere escluso: cioè il mostro. Nel romanzetto di Charles Stross queste forme di mostri (si tratti di vampiri o di sirene) sono solo le rappresentanti forme di minoranze che devono essere accolte all’interno delle comunità di normodotati e non si parla mai di “vita indegna di vivere”, che è invece ciò che muoveva ancora la narrativa di Tolkien, rendendola pure così viva e affascinante.

Fiabesco – Considerare il carattere fiabesco presente in Tolkien vuole dire confrontarsi con l’antirealismo presente in quel suo tipo di letteratura. Il fiabesco è l’impossibilità del nuovo pensiero, cioè il cristianesimo che ha invaso ogni settore del pensiero. L’impossibilità ha la sua espressione nelle tre forme viventi indicate. Tolkien ricorre al fiabesco per dire quello che, una letteratura di stampo realista, non avrebbe più potuto dire: le razze umane non sono tutte uguali e alcune razze “umane” hanno meno che mai diritto di vivere, essendo nient’altro che vita indegna di vivere – perché le razze non sono tutte uguali. Dumézil e Lévi-Strauss hanno parlato del passaggio dal mito al romanzo, cioè del romanzo come di ciò che segna la fine del mito; Tolkien vuole invece rinnovare il mito tramite il romanzo – questo è quello che Eroi e mostri ha indicato come elemento originario del fantasy. Tolkien ha cercato di rivivificare il mito attraverso il romanzo, ricorrendo a diversi generi (poesie, narrazioni), ma non ha considerato quello che doveva essere la cosa principale: la storia del linguaggio come storia autentica che doveva subentrare alla storia fasulla dei personaggi, rintracciata nella psicologia, che è la carta falsa del personaggio in quanto ciò che fa la carta falsa della narrativa. Tolkien si è invece accontentato di un incontro di stile alto con uno stile basso all’interno della forma-romanzo. Rimane però sempre la domanda implicitamente posta da Eroi e mostri: perché proprio il tempo del Medioevo? Quando si parla di Medioevo, si intende sempre il Medioevo latino, mai quello germanico; Medioevo romano vuole dire impero Europa, ovvero cristianità – senza salto di lingua; medioevo germanico vuole dire nordisk hedendom con salto di lingua. Tolkien è rimasto fra i due mondi stretto, infatti pensava al romanzo Il Signore degli Anelli come una incursione degli hobbit nel mondo eroico.

Dare forma al mondo – Acquisita che è stata la polifonia come forma novella possibile di espressione, si accetta la possibilità di “dare forma al mondo”, che, una volta acquisito il numero delle razze del mondo, pone la questione di porre in primo piano la possibilità del Gioco del mondo – che però niente altro è se non il gioco de le perle di vetro, cioè il GPS che stabilisce nient’altro che la posizione in una misurazione che è misurazione quantistica, in quanto ciò che chiama la decoerenza, come dimostra ampio nel suo modo già il Silmarillion: «Ma giunti che furono nel Vuoto, così Ilùvatar parlò: “Guardate la vostra Musica!”. Ed egli mostrò loro una visione, conferendo agli Ainur vista là dove prima era solo udito; ed essi scorsero un nuovo Mondo reso visibile al loro cospetto, e il Mondo era sferico in mezzo al Vuoto, e in esso sospeso, ma non ne era parte.» (J.R.R. Tolkien, Il Silmarillion, traduzione di Francesco Saba Sardi, Rusconi 1985, p. 14).

Eroi e mostri di Alessandro Dal Lago – Tolkien ripete nella sua opera una cosa che la sua morale cristiana non gli avrebbe mai permesso di formulare compiutamente: le forme viventi non sono tutte uguali, meno che mai davanti al Signore, alcune non meritano considerazione alcuna, né da vivi né da morti, come gli orchi. Queste considerazioni si trovano esposte nel libro di Alessandro Dal Lago, Eroi e mostri. Il fantasy come macchina mitologica, il Mulino 2017). «Allora gli elfi lo legarono [Thorin] con delle cinghie, lo chiusero in una delle caverne più profonde dietro una massiccia porta di legno e lo lasciarono lì. Gli diedero da mangiare e da bere, tutte e due le cose in abbondanza, anche se non di qualità sopraffina; perché gli Elfi dei Boschi non sono goblin, e si comportano in modo civile anche con i loro peggiori nemici, quando li fanno prigionieri. I ragni giganti sono le uniche creature per cui non hanno alcuna pietà.» (J.R.R. Tolkien, Lo hobbit, traduzione di Wu Ming 4, Giunti/Bompiani, Firenze-Milano 2024, p. 182). È importante il fatto che, per alcune creature viventi, in quel testo, non debba esserci pietà – cioè per le cose viventi, che non sono esseri viventi a pieno diritto; le cose per cui la vita è solo un peso che altri devono trascinare, cioè la vita indegna di vivere.

Mito e romanzo – La questione è che il romanzo svincola l’uomo delinquente, mentre il mito non svincolava mai il trickster in tutte le sue piccole varie forme in cui si è interrato. Il meticcio italiano Dante è stato il primo caso, in letteratura, di homo delinquente, essendo stato il primo caso di islamista lasciato libero di agire con i suoi turpi progetti criminali. Le parole usate dal meticcio italiano Dante non riguardavano né il mito né il romanzo. Il meticcio russo Dostoevskij è stato l’ultimo caso di homo delinquente, teorizzato in Delitto e castigo, la cui domanda, lasciata libera di agire, ha portato a la domanda pulsante da parte del filosofo di razza bianca Nietzsche. Alcune razze hanno inciso dalla nascita il marchio della propria eliminazione: guai a chi salva in sé il marchio del deserto.

La terra viva – Non c’è idea del Sacro senza disprezzo per il meticciato e senza disprezzo per il meticcio che la terra inquina con sua propria diretta presenza (cioè ciò che “quella terra”, vale a dire la Terra del Sacro, il meticcio porta alla fine). L’Idea della terra viva, Sacro, meticciato e terra sono tre cose saldamente collegate fra tutte loro, almeno per ora, e l’una deve richiamare sempre le due altre, tutte altre due.

La questione Tolkien – Tolkien ha cercato di portare a vita novella il mito attraverso il romanzo, destinando l’arte sua a tanti difformi generi diversi di poesie e narrazioni, ma non ha considerato quello che doveva essere la cosa che si poteva configurare nella narrazione come storia del linguaggio, adesso, al posto di ciò che costituiva la vecchia narrativa, relativa a intreccio & personaggi. Invece si è accontentato di un incontro di stili come incontro di stile alto e stile basso – di romanzo. Questo è appunto ciò che divide Tolkien e Joyce. Sempre rimane la domanda posta da Eroi e mostri: perché proprio e sempre il Medioevo? Si potrebbe avanzare questa ipotesi: quando si parla di Medioevo, si intende sempre il Medioevo romano, mai quello germanico; Medioevo romano vuole dire cristianesimo; medioevo germanico vuole dire nordisk hedendom. Tolkien è rimasto imperlagato fra li mondi due, infatti ha pensato il Signore come la incursione degli hobbit nel mondo degli eroi: ha creato il gioco delle perle di vetro sfuggendo ciò in cui si era trovato semplicemente ma prosaicamente impelagato.

Razza e disprezzo – La diversità de le razze, razze due (ciò che la lingua norvegese espone con la felice espressione “begge to”) chiama il disprezzo perché il modo in cui una razza parla di un’altra razza è la manifestazione di un disprezzo verso quel germoglio di diversità – il GPS è ciò che indica il posizionamento nel gioco del mondo, nel momento in cui il gioco del mondo è tutto il gioco de le perle di vetro cioè il GlasPerlenSpiel attuato di colpo in una volta come salto di vetta in vetta.

Anticristianesimo in Tolkien – Nella narrativa di Tolkien c’è una componente tanto autenticamente cristiana quanto fortemente anticristiana, che è ciò che può rendere Tolkien un grande scrittore, che si manifesta nella componente gnostica, che implica la creazione come ciò che è una cosa avvenuta in più fasi, comportante l’intervento di un Demiurgo; la presenza di varie forme viventi, fra cui una forma che è nient’altro è se non “cosa vivente”, cioè gli orchi, che devono comunque essere cancellati dall’opera della creazione. In Tolkien gli orchi sono solo il prodotto di un incrocio cristallizzatosi a malefici fini nascosti bene, per cui gli orchi sono sempre ciò che va cancellato in quanto forma la vivente, cioè in quanto quella anomalia che è la cosa vivente e ciò che deve essere annullato con il fuoco quando appunto se ne ha a che fare soltanto nella forma di un mucchio di carcasse accatastate al termine di una battaglia.

La Terra del Sacro – Come ciò che, nel testo, deve rimanere in quanto ciò che deve rimanere in quanto vuoto – senza alla fine esserci punto

J.R.R. Tolkien, Sulle fiabe, in Id., Albero e foglia, Rusconi, Milano 1984, pp. 7-100. Traduzione di Francesco Saba Sardi.

Taguieff, Il razzismo

Per qualsiasi considerazione del libro di Pierre-André Taguieff, Il razzismo. Pregiudizi, teorie, comportamenti (1999), è importante partire dal capitolo finale, che pone la domanda fondamentale, su cui questo post piglia le mosse: Perché essere antirazzisti?vale a dire: “perché l’antirazzismo – cioè la cosa a cui tutti, comunque, devono aderire?Vogliamo, prima di tutto, vedere che cosa dice Taguieff?

«Dobbiamo partire da un apparente paradosso, ben noto per quanto non ben sondato: mentre la parola “razza” è diventata “tabù”, ed è comunque ideologicamente sospetta e quindi viene evitata, dopo la sconfitta del regime nazista che l’aveva massicciamente sfruttata a fini propagandistici, la parola “razzismo”, al contrario, non solo è comunemente utilizzata, ma viene applicata a un numero indefinito di situazioni, ed assume quindi una funzione vaga, come approssimativo sinonimo di esclusione, di rigetto, di ostilità, di odio, di paura fobica o di disprezzo.» (p. 5).

Possiamo dire che la parola “razza” rischia adesso la stessa sorte toccata alla parola “religione” tanto tempo fa: considerata cosa inutile dalla ideologia dominante nei primi decenni del Novecento, è stata, da allora, posta al bando, finché il terrorismo islamico non l’ha più volte, in pluriforme spoglie, portata a spartire dai Settanta qual cosa da considerare, come cosa contro cui si sbatte si sbanda, per cui la razza è la cosa contro cui si sbatte e sbanda adesso: il mongolo, il terrorista islamico, l’italiano di merda in cui s’inciampa a forza, e che dice che il terriccio su cui quello sta non è più la terra degli europei.

La messa al bando, ombre, larve, de la parola “razza” è il pericolo che attualmente ha a che fare con la razza bianca, quando l’idea apre a ciò che è il parlare di razza, quando l’unico sistema politico, che abbia parlato di razza, è stato il nazismo, che adesso può essere considerato solo in quanto hitlerismo esoterico – quando è allora sempre la vicinanza la cosa che deve essere combattuta. La parola “razza” subirà la stessa sorte della parola “religione”.

«Sulle terre mobili del razzismo, o meglio, dei razzismi, tutto è in continua ridefinizione, tutti i dati subiscono delle metamorfosi, mentre gli elementi simbolici si rinnovano.» (p. 7).

«Il vacillamento dell’evidenza d’origine biblica dell’unità dell’uomo, nell’Europa erudita del XVIII e del XIX secolo, non ha potuto prodursi che, da una parte, a causa della radicale naturalizzazione dello statuto della specie umana all’interno dell’ordine del vivente (e più precisamente nel regno animale) attraverso l’iscrizione dell’umano nel sistema zoologico (Linné, Buffon), e, dall’altra, a causa del progresso dell’irreligiosità, dell’ateismo e dello spirito della libera ricerca.» (p. 16) – che è proprio ciò che riguarda Nietzsche in quanto pensatore della fine dell’epoca della metafisica. Ma in quanto fenomeno occidentale e moderno, il pensiero razzista presenta comunque una invariante: la messa in questione dell’unità del genere umano, vale a dire ciò che determina ciò che riguarda ciò che è dell’essere umano, quando, ormai, non tutte le forme viventi possono essere considerate più soltanto forme dello stesso essere umano.

«La radicalizzazione del pensiero razzista è stata, dunque, favorita dalla decristianizzazione degli spiriti, che ha trasformato in leggenda o in mito la tesi monogenista la quale dava un fondamento culturale alla visione della fraterna unità di tutti gli uomini.» (p. 16). Il razzismo è stato favorito dall’indebolimento delle teorie cristiane in quanto mito della creazione da parte di un’unica coppia umana, mito ritenuto ormai semplice leggenda – ma da qui punto in cui il razzismo si apre in quanto pensiero critico e pensiero diverso.

Il razzismo è un mito, e, in quanto tale, non fondato su base scientifica: il mito è ciò che deve essere caricato di significato perché scaricato del significato all’origine; gioco perché il gioco è assurdo, contrariamente alla scienza, perché di per sé vuoto, pura struttura, masse che si aprono in quanto pura ampiezza, come fa la musica – struttura assente, musica per sordi, come da sempre è stata la musica autentica: il razzismo è un modo di vedere il mondo in quanto modo che è mondo solo come modo di giocare il gioco del mondo, cioè modo di vedere il mondo in quanto mondo da giocare.

Scienza è ciò che va sottoposta al principio che, di volta in volta, ne verifica le ipotesi, oppure le invalida; il mito è ciò che è destinato a ritornare, non essendo soggetto alla prova di validità – per questo il mito è pericoloso in quanto incontro con ciò che determina il pericolo. Il razzismo, nella forma del nazismo, ha rappresentato l’incontro con l’estrema pericolosità del mito, determinando, nella forma della rovina architettonica, ciò che è destinato a ritornare – che non comporta più il rispetto di ciò che è vero in quanto adeguamento a dottrina scientifica in un momento, ma adeguamento a ciò che è destinato a ritornare più volte nel tempo, che, a partire dalla forma della rovina, è ciò che chiama alla nuova battaglia.

Qualunque manifestazione possa allora avere la possibilità di “pensare diversamente”, bisogna considerare che, in qualunque manifestazione umana, vale sempre la domanda impostata da Nietzsche: “Perché la verità?”.

Che cosa ha stabilito, questo libro, prima della domanda fondamentale che esso ha posto: «Come si diventa razzisti?» Una risposta può essere: “per caso, ma solo sempre quando si è alla ricerca di qualcosa che è tutt’altro da quello da cui si era partiti”, vediamo che la spiegazione è già tutta nell’avvio di Jacques di Diderot – che è il punto più giusto per impostare il tema riguardante l’Illuminismo, domanda posta come domanda prima da Taguieff, eppure tema che conduce al superamento del cristianesimo, che vale in quanto superamento della metafisica. Per cui l’Illuminismo è sempre il punto giusto per porre questa domanda da un grande angolo giro di occhio di Olanda: “Che cosa vuole, questo bastardo di italiano, in Europa?”

Bort från Europa!” deve allora essere la risposta contro questa cosa (che è il bastardo italiano) che spinge e spunta, spina fastidiosa, cosa ormai da tutte le parti – ricordare ancora che la risposta dal punto di vista illuministico era la prima risposta proposta nel libro di Taguieff.

Il razzismo non si dimostra e non si difende, perché è ciò che si sente come viva cosa che cosa si vede di colpo saltare come tutto in cui non tutto ciò che vive ha più diritto alla vita – perché si riconosce che esiste la vita che è vita in quanto vita che è vita indegna di vivere, che è la cosa che adesso deve essere vista in quanto cosa vivente che costituisce solo forma che deve essere cancellata.

Il tema del superamento del cristianesimo è ciò che porta al tema della terra in quanto terra viva, che è ciò che porta a dividere essere vivente da cosa vivente, in quanto ciò che divide pura immagine di ciò che è vivente, così come gli esseri ilici nient’altro erano che pura immagine della forma divina riferita dallo gnosticismo – che è ciò che Heidegger ha indicato in quanto accaduto nei campi di sterminio nazisti, dove solo forme erano state annullate, senza che nessuno, contrariamente a quanto si cominciava allora a dire, fosse mai morto. Poiché quelle cose non potevano morire, così come non può morire mai pietra, quando viene annullata, spiccata, spaccata, spacciata, dissolta entro sua di petra petrosa scontrosa natura. Questo rimanda alla duplicità dell’oggetto, che è la cosa con cui noi comunemente siamo chiamati ad avere a che fare, perché è ciò che deve sottrarre la Cosa, con cui abbiamo a che fare solo appena una volta, quando dalla cosa con cui abbiamo a che fare comunemente, passiamo a la Cosa come incontro che l’Incontro si ha con la Cosa, che allora incontriamo solo nella Terra del Sacro, quando la terra non è che terra dove andare, in quanto terra dove andare è solo terra in quanto Terra del Sacro, perché è il Nord che chiama.

Anziché essere la cosa volgare che oggi si pensa essere, il razzismo è la cosa che ha a che fare con il sacro.

Sia chiaro: alle Fosse Ardeatine ci cago sopra, dritto come chiaro è che chiaro è che, se Nelson Mandela mi fosse capitato fra le mani, gli avrei rifilato la polpetta avvelenata diritto – che chiaro si meritava e che lo avrebbe fatto fuori in 4 + 4 = 8. Se al terrorista negro Nelson Mandela fosse stata data la polpetta avvelenata, del terrorista Nelson Mandela non si sarebbe mai più balbettato. Dico che Dante, da che mondo è mondo, mi ha sempre dato il voltastomaco.

Ma mai mi si venga a dire che il meticcio impesta la terra spostandosi, lungo verme, lungo terra lunga tutta, il meticcio sporca e azzanna la terra anche quando non sporca la terra, perché il meticcio è sporcizia: per questo il meticcio è ciò che deve essere fermato prima di ogni suo andare. Questo perché il meticcio non è la cosa che deve essere eliminata per quello che fa, ma la cosa che deve essere eliminata per quello che è, per cui salvare la vita a un negro è l’atto criminale di cui si dovrebbe essere chiamati a rendere conto.

Ma penso intanto si debba partire dal corpo falso corpo/uomo di Artaud, che implica l’arte di rinascere al mondo senza più madre né padre a seguito proprio, che è quello che è successo finora ai bastardi – che è ciò che avviene quando la lingua si configura come lingua che pone la differænza dalla parola. Ma qui bisogna rimandare alla lettura di Miguel Serrano: Che cosa vuole dire nascere là dove parlare di razza è come parlare di corda in casa dell’impiccato?

Quindi? Quello che è da affrontare è il tema filosofico dell’abitare la terra: solo la razza bianca abita la terra; razza bianca, ovvero razzismo, poiché il razzismo riguarda il modo di sentire la terra da parte della razza chiamata dalla terra ad abitare la terra, cioè la razza bianca, che è ciò che esclude la nozione moderna di “individuo”. Non esiste, né mai esisterà, razzismo da parte del negro o del meticcio, perché il meticcio o il negro non abitano la terra, ma occupano la terra così come una cosa occupa una cosa, oppure il meticcio e il negro trasformano ciò che occupano in cosa vasta sempre morta. Il razzismo è la scelta della terra che deve essere vista in quanto terra che è terra viva, cioè terra cosa cui spetta il diritto di scegliere il proprio abitantequindi la scelta della terra che cerca i suoi abitanti, quando gli umani avvertono la scelta della terra in quanto terra viva, mentre i meticci ne offrono soltanto la sonora beffa in scorza di pernacchia.

La musica del meticcio italiano Monteverdi ha molto in comune con quella del meticcio slavo Musorgskij; mi riferisco al tipo di approccio che un ascoltatore di razza bianca ha nei confronti di quella marmaglia di musica: è musica bella, eppure musica dotata di un qualcosa che deve tenere lontano quell’ascoltatore.

Noi tutti conosciamo il meticcio italiano Dante e il meticcio italiano Boccaccio, e puranco, dire oso, il meticcio italiano d’Annunzio (Gabriele Rapagnetta) e il meticcio italiano Pasolini (Pier Paolo finocchietto), ma possiamo dire, noi, che conosciamo il meticcio? Il meticcio è la beffa che l’età disegna sul muso che ci sghignazza davanti – conosciamo gli italiani, gli italiani di merda, che hanno impestato il mondo? Mai sia stalla, Europa, per bestiame di Allah, arabi o italiani; ma terra sia ove si stana e straccia a pezzi il Dio del nemico con la sua marmaglia – che è ciò che porta a pensare diversamente, che è quello per cui ci si era posti qui alla ricerca, come risposta posta dalla domanda del libro di Taguieff. Solo allora si avrà l’apertura del mondo in quanto mondo come mondo che è mondo da giocare, vale a dire modo di giocare il gioco del mondo. Terra d’Europa non è ciò che sta come città aperta d’Europa; quando come animali, famiglie zombie, cose portatori di caffettano, caracollano ne le città aperte d’Europa, che non è terra d’Europa: il portatore di caffettano maschio apre la fila con il suo palco bianco a vista, il portatore di caffettano femmina segue subito dietro, i portatori piccioli di caffettano cuccioli giungono ultimi in ciuccio all’uscita dell’ultimo supermercato nelle città, che è l’ultima città rimasta sul palco d’Europa.

Per usare adesso le parole di Nietzsche di tanto tempo fa, un negro deve essere, sì, aiutato, ma aiutato a morire.

Importante: che cosa spinge al razzismo? ciò che distingue, per natura, tra malattia e salute, ma se non c’è più questa possibilità di distinguere per natura, mi sa che è inutile tentare di inculcare questa possibilità.

Ma mi sa che ho smarrito il filo… Come deve essere profondo, oggi, ciò che è lo scrittore… dico “oggi”, che è ciò che determina lo scrittore che è solo lo scrittore che sarà scrittore di domani… profondo come è profondo, oggi, solo il sonno – che è il sonno della ragione, che è solo il sonno della nostra ragione.

Cazzo!, ho detto, o no, che a quei 335 bastardi di italiani delle Fosse Ardeatine ci cago sopra? Mica me lo ricordo! Così ora devo rileggere tutto dico tutto quanto questo post (cazzo!)

Via dall’Europa, l’italiano di merda! Via dall’Europa, l’italiano!

L’Europa alla razza bianca d’Europa!

Ho tirato abbastanza la catena del cesso su quel bastardo di italiano di Dante del cazzo? Eppure il nome di quel bastardo di italiano di Pasolini Pier Paolo l’ho più volte pur fatto: che cosa vuole, quel bastardo di italiano, in Europa (Pier Paolo finocchietto)? mi viene da chiedere. Tanto è che lo dico a proposito di quel bastardo di italiano di merda, che me lo trovo sempre davanti, ma ogni volta è come non lo avessi mai detto; per cui ogni volta mi trovo a chiedere: che cosa vuole questo bastardo di italiano in Europa, col suo muso di ramadan? che cosa vuole, ogni qualunque bastardo di italiano, in Europa, col suo muso di ramadan? ma forse è proprio questo che non ho detto abbastanza. Mi sta bene.

Pierre-André Taguieff, Il razzismo. Pregiudizi, teorie, comportamenti, traduzione di Federica Sossi, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999

Hitlerismo esoterico 2025

Non improbabile è che “razza” – in quanto parole – finisca per subire maligna sorte istessa di meticcia picciol parola “religione”, costretta a tornare in campo in tempo suo gramo in cui parola stessa sembrava del tutto posta in loco di assoluta dimenticanza – come in quel di Gaza or con gioia noi veder possiamo: dove cose da terroristi poste son a cose di terrorizzati (= temi grami per gli scarafaggi tagliagole di Allah e i meticci loro in tutto il campo d’Europa? meno che mai io ci giurerei. Un negro, un meticcio, un semita non abita mai la terra e mai ha terra da rivendicare. Le parole addormentano in un congiunto rifiuto de le parole oppure chiamano nove tutte parole che lingua quindi fanno) – ma ciò che non si può fare nella politica, è ciò che dal bit porta al Qubit, in quanto nuovo modo di fare politica.

Questo perché ideologia nasconde in gozzo suo componente razziale, in senso in cui scelta ideologica è scelta di razza, da rigettare, essendo ideologia regia via a campo di appartenenza di razza: chi sceglie ideologia basata su uguaglianza e inclusione di tutte culture in loco uno qualunque, sceglie del campo il punto ove stare, ovvero il luogo del meticciato; chi sceglie una ideologia basata sulla differenza di diritti e doveri tra dèi e umani, sceglie la terra in cui abitare, ovvero il tempo della razza bianca, poiché solo la razza bianca ha il mondo come ciò che pone umani e dèi, che sono anche per noi i monti lontani del Cile dei giganti, mentre l’animale ha solo tana e percorso come ambiente ove svolgere ciclo suo vitale, perché il meticcio, come l’animale, ha solo ambiente, cioè luogo dove bestialmente stare e restare, ma non il mondo, perché solo la razza bianca abita la terra, anche quando la terra è solo spazio ove il dio del nemico tentacolarmente con stupidità movesi, come ciò che si evince dai testi di Miguel Serrano dedicati all’hitlerismo esoterico, che è ciò che giubilar mi fa in quanto ciò che spetta a la terra:

]     L’EUROPA ALLA RAZZA BIANCA D’EUROPA!     ]

Giusto è il progetto di aiutare il negro nel suo triste d’Africa ambiente oppressa, dove quella cosa ha avuto prima sua nascita ossessa; ma l’unico modo per aiutare un negro, come Nietzsche insegna, è aiutarlo a morire: considerazione, dico io, che è ciò che porta al novello impegno che tutti riguarda – quindi aiutiamo, sì, adesso i negri, ma aiutiamoli a morire. Che è ciò che comporta la nuova formazione dei medici: i medici che saranno chiamati a togliere la vita a ciò che è solo vita indegna di vivere, che porta al discorso su ciò che giubilar mi fa in quanto ciò che deve essere restituito a la terra, che è la memoria di sangue de la razza bianca:

]     RESTITUIRE L’EUROPA ALLA RAZZA BIANCA D’EUROPA!     ]

L’hitlerismo esoterico porta a pensare ciò che è da pensare – la differenza tra le razze, la terra viva, il rapporto tra dèi e umani nella terra abitata dagli umani –, nell’epoca in cui la modernità mette al bando la forma del pensiero (per cui è lecito chiedersi: si tornerà mai a pensare diversamente, cioè a pensare oltre il cristianesimo?). Esiste solo la terra della razza bianca, mentre esistono i luoghi molteplici del meticciato, dove compare l’Idea del Nord, che è l’idea di tutti i nord possibili nel mondo, ma perché memoria è memoria de la razza bianca, perché diversa memoria una diversa non c’è. È per questo che lecito è porsi appena fra la nuvola la domanda questa: “Che cosa vuole, questo bastardo di italiano, in Europa? Perché questo bastardo di italiano non se ne torna in Africa, loco da dove, fraudolentemente, questo bastardo di italiano è giunto, fraudolentemente, sul suo barchin di pasdaran, maledetto bastardo italiano figlio legittimo di tant’Africa bastarda?” Differenza tra memoria, che è ciò che riguarda la razza bianca, e “rimembranza”, che è ciò che riguarda i mucchietti di parole del meticciato, sì tanto convenientemente posti insieme nei graziosi mucchietti di inutili parole da parte del meticcio italiano G. Leopardi (Giosue), mucchietti – i graziosi mucchietti di parole messi insieme dal meticcio italiano G. Leopardi sono come le inutili quindici sinfonie, sirene che incantano, messe insieme dal meticcio slavo (russo, se non sbaglio) Dimitri Dmitrievič Šostakovič, impropriamente, per strafalciona fretta di tutti, lambitamente definiti tuttora anche ancora “poesie”, perché ogni paroliere può mettere insieme graziosi mucchietti di parole, così come ogni musichiere può mettere insieme un sostanzioso mucchietto di note tanto da accumulare quindici inutili pesanti sinfonie – laddove solo il poeta può passare dalla parole alla lingua, perché solo la razza bianca può avere il poeta, che è ciò che indica il destino della razza, mentre il meticciato ha solo il paroliere, che è ciò che ballando or qua un po’, or ballando là un po’, può mettere insieme graziosi mucchietti di parole stantie, perché non ha destino alcuno da indicare, né di nascita né di morte, come diceva Heidegger constatando che, nei campi di sterminio nazisti, non è morto mai nessuno, ma solo cose e cose erano state qua e là tranquillamente annullate. Solo la razza bianca ha il poeta, così come solo la razza bianca ha il compositore, cose ben diverse da quello che è il paroliere e il musichiere, che sono ciò che niente ha a che fare con ciò che è razza.

Memoria è solo memoria di razza bianca. Un negro, un meticcio, un nativo americano non ha memoria: un negro, un meticcio, un nativo americano non abita la terra, ma occupa la terra, sì come occupa petra posta in terreno, o come scorre terra petra, sì come fradicia frana di ferito terriccio freme tutto attraverso terreno. Solo la razza bianca abita la terra, perché solo la razza bianca è chiamata ad impostare tema di abitare la terra nella poesia di Heidegger e nella filosofia di Hölderlin come tema che riguarda da sempre, poi inizialmente, ciò che riguarda la razza, che è la razza bianca dal meticciato.

Il nazionalismo è costrizione, se l’individuo è chiamato a difendere ciò che è il luogo dove casualmente esso ha avuto sua comparsa nel mondo; mentre sempre è la terra a chiamare il suo abitante. Noi non pensiamo più la terra come ciò cui spetti il diritto di chiamare il suo abitante, perché pensiamo la terra solo come terra da scorrere in quanto turisti o in quanto migranti, perché vediamo la terra solo in quanto terra dove andare, perché non pensiamo più la terra come ciò cui spetti il diritto di scegliere il suo abitante, perché pensiamo la terra solo come terra dove andare – ma questo solo quando andare nella terra è ormai solo andare nella terra del sacro, perché non pensiamo più la terra come cosa viva, che sceglie, chiama o respinge il suo abitante. La terra è ciò che chiama il suo abitante, così come la lingua è ciò che chiama il suo parlante alla verità della lingua – in quanto ciò che comporta la verità dell’abitare e del parlare, cioè del destino che all’abitante o al parlante è imposto riguardo la posizione nella verità. Solo in quanto gli umani rispondono a questa chiamata, si ha il pervenire alla verità da parte degli umani, che è però ciò che riguarda la razza bianca, mai il meticciato – che è invece solo lo sberleffo dell’abitare e del parlare, cioè lo sberleffo della nozione della parola, come il personaggio di Pierino, in quanto eroe nazionale di quel paese e cosa tanto farlocca che è in quanto non è l’Italia – perché l’Italia non esiste – pienamente manifesta nel suo sparlare di tutto e tutti.

Se l’America è qualcosa di europeo, la Russia è qualcosa di asiatico, cioè di assolutamente estraneo all’Europa. Questo porta al rifiuto del principio di uguaglianza. Le razze non sono tutte uguali. Non tutto ciò che vive ha diritto di vivere. Un meticcio non è pericoloso per quello che fa, ma per quello che è. Da qui il compito sacro del gioco di dare forma al mondo, che comporta la scelta di ciò che ha diritto di vivere e ciò che deve essere soppresso. La confusione dipende dal fatto che noi non pensiamo più per razze. Razza come ciò che tende a qualcosa di puro nel futuro, non come Tradizione del passato. La Tradizione non deve essere un punto di riferimento: ogni punto di riferimento deve essere eliminato. Il nazismo come l’ultimo tentativo di difesa della razza bianca. Il pensiero è l’impronta che già c’era che cancella quello che il meticcio ha tirato su come graziosi mucchietti di pietre, vedendo la freccia che punta al Nord, come dimostra Wewelsburg. Ordinamento del mondo e ideologie. È l’ordinamento del mondo a determinare la presenza di ideologie o la loro assenza. Con questo ordinamento del mondo non può esserci nessuna ideologia. Da qui la contrapposizione tra Himmler (il nuovo inizio nella civiltà germanica) e Hitler (la civiltà germanica come ciò che raccoglie il testimone della civiltà classica greco-romana). Nessuna rivolta contro il mondo moderno è possibile in nome della Tradizione. Ciò che non si può fare nella politica. Dal bit al Qubit. La razza come tendenza alla purezza, mai come ritorno. La necessità di oltrepassare il cristianesimo. Dare forma al mondo chiede guerra come guerra tra razza bianca e meticciato.

Pasolini era un finocchietto; Pasolini era un finocchietto italiano; Pasolini era un comunista finocchietto italiano (Ohibò!). Pasolini era un finocchietto: disprezzare Pasolini in quanto finocchietto è il modo migliore per conoscere Pasolini. Disprezzare ciò che è degenerato è il solo modo di conoscere ciò che è degenerato. Si conosce la malattia solo combattendola.

Il disprezzo è ciò che permette di conoscere l’avversario. Arabo di merda o Dreckwalscher (shitalian, merdìtalo), la razza bianca ha a che fare con lo sporco intruso di merda, arabo di merda o italiano di merda: ma è la razza bianca, adesso, in grado di difendere la terra della razza bianca? (Guardate il musetto schifoso del finocchietto italiano e comunista italiano Pier Paolo Pasolini.) L’italiano schifoso è la cosa che nessuno ha chiamato, ma che si trova sempre in ogni canto d’Europa cioè in ogni buco del culo del mondo.

Il meticciato non è ciò che deve essere incluso o escluso, ma ciò che deve essere soppresso. Il meticcio russo Fëdor Michajlovič Dostoevski ha nominato questo nel personaggio di sua invenzione di Smerdjakov, che unisce quanto è della parola del meticcio russo e della parola del meticcio italiano. Questo è ciò che comporta la fine di ciò che per comodità, da tempo, si è nominato “essere umano”. I casi in cui bisogna odiare bizzarro nido di parole in cui si è nati: quando parlare di razza, in questo nido e nodo, è come parlare di corda in casa de l’impiccato. Il meticcio sa che esso è cosa a cui deve essere tolta la vita, prima o poi, ma vive in modo che nasconde questa consapevolezza; la razza bianca sa che il meticcio non ha diritto alla vita, ma vive in nodo che impedisce di sapere questo: il meticcio sa che non ha diritto alla vita, ma vive in modo che gli permette di continuare a vivere: la razza bianca sa che è ciò che ha diritto alla vita, ma organizza la sua vita nel modo di ciò che la pone verso ciò che rifiuta la vita. Per cui il nazionalismo deve essere rifiutato:

]     DIO STRAMALEDICA L’ITALIA!     ]

Difendendo, in piena sottomissione, i tagliagole scarafaggi di Allah (= arabi), la politica occidentale prende la difesa degli arabi femmina, cioè delle cose impropriamente chiamate “donne”, introducendo la confusione con i diritti de le donne, che è ciò che riguarda la razza bianca. Gli arabi femmina dei portatori di caffettano hanno la colpa di mettere al mondo gli arabi maschi e gli arabi femmine, per cui se adottassero, gli arabi femmina portatori di caffettano, tutti insieme, lo sciopero di Lisistrata, nel mondo non ci sarebbero più, in nessun modo, arabi di alcun genere, e questo sarebbe il vantaggio per tutti; giustamente l’arabo maschio disprezza l’arabo femmina perché sa che l’arabo femmina porta sempre al mondo nuovi arabi, maschi o femmine, perché ogni meticcio sa che è solo un meticcio, e che deve essere tolto dal mondo, e si disprezza in quanto sa di essere un meticcio, cioè quella cosa che occupa il mondo e che chiama il suo boia, perché non prevede di porre fine alla sua vita rubata da se medesmo, ma sempre chiama forte il boia suo – io chiedo: è la razza bianca in grado, adesso, di essere il boia del meticciato? Questa è la domanda di Zarathustra. La donna di razza bianca non è la stessa cosa di ciò che è la cosa che si presenta come la cosa che è il portatore di caffettano femmina. La cosa che si incontra quando ora si va nel mondo – è allora la Cosa, se andare nel mondo è andare nella terra della razza bianca. Il meticcio italiano Gabriele d’Annunzio è stato giustamente definito il superuomo umile, questo perché non si pensa alla differenza tra razza bianca e meticciato: questo perché la razza bianca non pensa la differenza tra gli esseri che invece lo gnosticismo aveva posto in rilievo: per cui gli esseri ilici erano solo la pura immagine della forma divina, che deve essere eliminata, in quanto niente ha di divino fuorché la superficie, l’immagine che niente conta. La differænza è ciò che qui passa tra l’essere vivente e la cosa morta.

Non ci sarà mai “terra” finché non si sarà deciso a chi spetti il diritto di abitare la terra e chi debba invece essere soppresso – questo a livello di razza.

Heidegger ha ricordato come nei campi di sterminio nazisti non sia morto nessuno, perché solo molte cose sono state, lì, annullate, cose che erano solo cose viventi.

Fallimento dell’ideologia di centrodestra: che cosa è antisemitismo? è ciò che vuole scacciare i semiti dall’Europa, quando ieri i semiti erano gli ebrei, e oggi i semiti sono gli scarafaggi tagliagole di Allah; queste cose, che sono sempre la cosa semita, deve essere scacciata dall’Europa, ma scacciare ciò che è semita dall’Europa vuole dire annullare il terriccio dove la bestia semita ha trovato il suo ambiente di nascita e di vita – e un semita non abita mai la terra, così come a un semita non può mai essere tolta la terra, perché il semita è proprio ciò che non può avere terra.

Ambiente e terra sono concetti filosofici, trattati dal filosofo di razza bianca Martin Heidegger, ma tutto questo è inutile se non porta a ciò che è la differenza fondamentale, che è ciò che porta alla comprensione di ciò che è destinato ad abitare la terra, e il riconoscimento di ciò che è vita indegna di vivere: ricordare di difendere l’ideologia, è dimenticare di difendere la terra. (L’hitlerismo esoterico chiama la funzione simbolica della razza bianca.)

Formiche distratte tra rovine, noi, dove il nazismo ha lasciato formicai distrutti, dove chiama la nuova battaglia:

]     L’EUROPA ALLA RAZZA BIANCA D’EUROPA!     ]

Giorgio De Maria, Le venti giornate di Torino

Costruzione

Come affrontare Le venti giornate di Torino di Giorgio De Maria? Il romanzo è organizzato in undici capitoli: cinque capitoli che sembrano presentare i misteri in questione, un capitolo centrale – il sesto – con funzione di Intermezzo, cinque capitoli che coinvolgono direttamente il protagonista, senza risolvere i misteri, che la prima parte spandeva, ma che chiudono la materia del romanzo. A prescindere dal capitolo 6, che ha funzione di spartiacque, vediamo che i dieci capitoli restanti presentano simmetrie precise:

Il capitolo 1 e il capitolo 11 presentano la prima vittima e l’uccisione in massa dei passeggeri del volo falsamente diretto a Venezia. La prima vittima è una vittima casuale, le ultime vittime sono vittime selezionate attraverso un sistema che è stato in azione lungo tutto questo romanzo, e che attraverso la prenotazione del volo prevede il principio della selezione, anche se è solo uno dei diversi sistemi di selezione possibile.

Il capitolo 2 e il capitolo 10 sono dedicati al personaggio dell’avvocato Andrea Segre: nel capitolo 2 l’avvocato, contattato dal protagonista per il libro che ha intenzione di scrivere in merito ai fatti accaduti nelle “venti giornate” di dieci anni prima, fatti per i quali l’avvocato ha reso testimonianza alla polizia, parla ora di nuovo delle grida che ha udito dal suo appartamento, in presenza di una persona che sembra più propenso ad ascoltarlo; nel capitolo 10 l’avvocato parla invece esplicitamente di un complotto dal quale loro due devono fuggire.

Il capitolo 3 e il capitolo 9 sono incentrati sulla Biblioteca, istituzione centrale, secondo il protagonista, in rapporto ai fatti relativi le “Venti giornate” e la sua ricostituzione diffusa in ogni punto della città. Nel capitolo 3 il narratore cerca di fare il punto su quello che si sa della Biblioteca, accedendo ai manoscritti sopravvissuti (tutti i manoscritti custoditi nella Biblioteca sono stati bruciati); mentre nel capitolo 9 egli si accorge che tutta la città è diventata una Biblioteca, cioè invasa dal progetto della Biblioteca, con persone che sanno dove lasciare e dove prelevare manoscritti.

Capitolo 4 e 8: la notizia riguardante la seconda vittima e notizie varie. In 4 c’è la testimonianza di una coppia di turisti tedeschi riportata dal giornale tedesco «Der Spiegel»; in 8 c’è la notizia dell’arresto di una persona sospettata di essere l’autore dei delitti, tale Antonio Mangiaferri, lombrosianamente aderente ai tratti di quell’uomo delinquente, che non era l’uomo delinquente perché qui non si parla di ciò che è umano, e che poi si scopre essere del tutto invece innocente. La coppia di turisti non sembra soggiacere al fattore ipnotico che invece sembra colpire la gente del posto, tanto è vero che riesce a uscire indenne dall’albergo in piena notte; riesce poi a vedere lo strano personaggio, che, con andatura marziale, aggredisce una persona qualunque che si trova di colpo davanti e a descrivere tutto quanto accaduto al giornalista di «Der Spiegel», a differenza di quanto accaduto invece alle altre persone, i torinesi imbambolati dall’insonnia presenti, che non sembrano avere notato niente.

Capitolo 5 e 7: qui si ha la contrapposizione tra le manifestazioni dei millenaristi e le voci registrate fatte ascoltare da Segre al narratore. Nel capitolo 5 il protagonista assiste a una manifestazione dei Millenaristi, essendo lì capitato per caso; nel capitolo 7 il protagonista ascolta le registrazioni che da semplici rumori passano a frasi complesse con un senso compiuto e poi a primitive grida di battaglia, dopo che l’avvocato Segre lo aveva indirizzato verso di lui.

Il capitolo 6 ha il titolo Intermezzo: Tutta la costruzione del capitolo è finalizzata al “passaggio”: passaggio a Torino dell’amico di Venezia Eugenio Ballarin e passaggio solitario del protagonista nelle zone di Torino che hanno costituito le “venti giornate” di quella città, concluse dall’incontro con suor Clotilde, che lo ha atteso sul portone di casa per impostare il messaggio della battaglia in corso – richiamato dalla componente finale “-hildr” del suo odioso nome in italiano. È da notare che il meccanismo logico è lo stesso rispetto al romanzo I Trasgressionisti, imperniato sul Grande Salto come punto centrale (anche se I Trasgressionisti rappresentano il movimento opposto delle Venti giornate: ciò che precede il Grande Salto coinvolge il protagonista in una serie di trasgressioni; ciò che lo segue lo riconcilia invece con la vita di sempre, alla quale egli sembra di riadattarsi perfettamente, ma con la consapevolezza di avere effettuato il Salto): la dannunziana città d’acqua, d’arte e spettri accoglie in un blando bolso belenso notturno il baritono della Fenice parcamente di suo già tutto deambulante, tutt’altro che con la marmorea testa, bensì con reiterati e rumorosi peti, che gli costano, da allora (dico al baritono), l’interpretazione di don Giovanni nello spartito in cui, contraddicendo appieno il libretto di Musil, secondo cui i monumenti non si sentono mai, mentre don Giovanni nota la statua immediatamente già presente a sera, quando il commendatore era appena stato ucciso da lui la mattina di quella stessa giornata. La simmetria fra le due sezioni del capitolo, la prima che può essere identificata con la prima parte del romanzo, la seconda che può essere collegata alla seconda parte del romanzo, è interrotta dal capitolo centrale, che ha in tutto funzione di “intermezzo” e che è diviso in due parti: una parte elimina la questione dei monumenti con la boccaccesca storia del baritono a Venezia – Boccaccio a Venezia, in questo caso, come Boccaccio a Napoli, in un altro caso – un’altra parte che ha il culmine con l’avvertimento di suor Clotilde nel suo recinto di battaglia nel quale il protagonista viene attratto.

Pensiero

Dice Musil, nel suo libretto in questione (Pagine postume pubblicate in vita) in rapporto ai monumenti: «Non si può dire che noi non li vediamo, sarebbe più esatto affermare che essi non si fanno osservare, che si sottraggono ai nostri sensi: è una loro prerogativa del tutto concreta, incline quasi alle vie di fatto!» e questa frase potrebbe avere ispirato a Giorgio De Maria il tema pulsante delle Venti giornate di Torino.

L’opera non è ciò che il suo creatore programma in anticipo sulla carta, ma ciò che dalla sua propria materia sconosciuta salta addosso all’autore, imponendo la forma precisa – come l’incubo d’ombra di parola della mara nelle lingue germaniche.

Il libro di Musil, nietzscheano postumo di destra, è una raccolta di pensieri nel tempo in cui gli scrittori sembra abbiano recepito dai filosofi l’avvertimento che non bisogna più pensare i pensieri, perché bisogna invece viverli, per cui sembra abbiano concluso che gli scrittori non devono più pensare.

La questione è ciò che, partendo dai monumenti in quanto ciò che viene messo da parte, porta a ciò che sembra riguardare ciò che deve essere considerato – per cui c’è da chiedersi: che cosa è che è stato messo da parte e che potrebbe voler essere considerato? e quindi: che cosa è la cosa che, adesso, deve essere portata via, cioè lasciata cadere, vale a dire uccisa?

Il monumento scende di livello e considera quello che è subito al di sotto di lui, che è quello che i torinesi non notano, mentre i turisti tedeschi notan di colpo. Da qui il livello del meticciato, che è ciò che deve essere considerato, cioè eliminato.

Ciò che viene fatto cadere

Come presentare il nuovo delitto, che deve essere il richiamo al racconto di un “delitto e castigo” senza più ombra alcuna di castigo alcuno? Esseri che non si sono mai considerati parte della città – i monumenti – si animano, e afferrano persone qualunque per sbatterle come clave contro ciò che essi si trovano di colpo ad avere davanti, una volta giù dai loro piedistalli, in forma di ostacolo, si tratti di arredamento urbano, come alberi o statue, oppure di nemici venuti al mondo come conigli. C’è l’idea di un salto oltre una linea, linea franca. Noi non sappiamo cosa possa aver animato i monumenti, ma sappiamo cosa ormai possa costituire l’idea di un altro essere in tutto simile a noi e cosa invece possa ancora ostacolarlo – per cui dovremmo sapere che cosa è giusto sopprimere in quanto vita indegna di vivere, anche se non siamo più disposti ancora a parlare di “vita indegna di vivere”. Più che “romanzo maledetto”, come Giovanni Arduino lo ha definito, questo è un romanzo infernale, trattando esso un tema ritenuto infernale: cioè il tema della necessità di uccidere sempre più nel tempo in cui uccidere è cosa che esula da ciò che è necessario, perché questo tempo si profila come il tempo che non è più il tempo degli assassini, ma il tempo che pone la domanda: “Che cosa è la cosa a cui deve essere tolta la vita?” – da qui la tendenza postmoderna, possiamo noi ora dire di non risolvere, a proposito di questa narrativa.

Il titolo del romanzo di Giorgio De Maria, Le venti giornate di Torino, ricorda il titolo di un altro noto romanzo maledetto, il cui titolo stenta e suona: Le 120 giornate di Sodoma; infatti, se da “120 giornate” si fa cadere il numero “1”, si ottiene “Venti giornate”, per cui vale la pena chiedersi: “come si manifesta, ‘Sodoma’, nelle Venti giornate, in quanto ‘1’ che viene fatto cadere?” si manifesta tramite i rumorosi peti che nell’Intermezzo vengono rilasciati dal monumento in quanto capitolo centrale del romanzo, e tramite gli escrementi umani di cui informano le lettere misteriosamente consegnate nell’abitazione del protagonista (cap. 9) dal mittente anonimo, indipendentemente dal sistema delle Poste Italiane, che è ciò che rimanda in blocco al romanzo di Thomas Pynchon L’incanto del lotto 49, squillante trombetta che sona tutta strinata stonata dal meticcio italiano Dante Alighieri (la iena che fa versacci di tromba tra le tombe); ed eccolo là, quel bastardo di italiano quando ora si va veloci, su mostro strano che l’uomo domina con il pensiero e con la mano senza più fermate, neanche per pisciare – è chiaro che abbiamo a che fare con un uso non accademico dell’Orifizio, così come abbiamo a che fare con un uso tutt’altro che accademico del Romanzo – per cui c’è da chiedersi: come si manifesta – l’omicidio – in queste Venti giornate? nella tecnica usata per compiere le uccisioni. Che funzione ha l’Uno, che viene là fatto cadere, lanciato sopra i continenti, per ottenere parte del titolo piccolo di questo romanzo? – ma facitore di parole è insieme lo scrittore, che è ciò che lo blocca in quanto piccolo picco d’umano. L’essere un facitore di parole e avere accesso alla lingua è ciò che comporta l’estraneità dello scrittore nel mondo tutto, che è allora la terra redenta, cioè la terra alleviata, perché l’arte di scrivere è solo l’arte di sbirciare da altra parte oltre la sporta pellucida, che noi ancora non possiamo porre mente a tutto foco. L’arte di uccidere dei monumenti nel romanzo di GDM ha qualcosa dell’arte di uccidere dello scimmione di Poe nel suo racconto, arte trovata incastrata per via di ragionamento da Dupin, nella cappa di un camino, nei Delitti della rue Morgue. Così la musica di Šostakovič è musica stalinista, nel senso in cui Šostakovič era spazzacamino stalinista, nonostante Šostakovič fosse ritenuto da Stalin un personale pericolo, e Šostakovič fosse tutt’altro che stalinista, perché un nemico della razza non è un nemico per quello che fa, ma per quello che è – e che cosa era Šostakovič se non un meticcio slavo, nient’altro, che equivale a dire che il meticcio russo Šostakovič, così come un meticcio italiano è nient’altro che un nemico di razza, e quindi non è che Šostakovič fosse proprio quello scimmione sganciato dal guinzaglio tenuto in mano dal suo padrone?

I rumorosi peti emessi dal monumento che prendon di petto in orizzontale il baritono deambulante e gli escrementi umani lanciati dall’alto in basso tanto da rialzare la soglia su fino ai piani alti nell’edificio dove abita il mittente sconosciuto che passa le lettere sotto la porta del protagonista, sono i due elementi, di una parte e dell’altra, che possono funzionare allora pure insieme.

Perché usare passanti tanto incauti quanto occasionali, tutti storditi dall’insonnia, come stecchi di ami e armi usati con calma come da curvi pescatori sorpresi nel Baltico? gli omicidi qui presentati portano a segnalare la necessità di una selezione comunque non più presente nel romanzo. La selezione è il principio che porta alla chiusura di Silling, che porta alla distruzione finale di risorse umane lì recluse – sia chiaro che il finocchietto italiano Pier Paolo Pasolini (giungo adesso a parlare di quel bastardo di italiano), voglio precisare, non aveva capito niente del principio de la selezione: per cui selezione, per quel bastardo italiano (tengo a precisare) appunto era solo il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini, voleva solo dire fare inquadrare uccelloni/uccellacci di mesta lombrosa longa periferia, dove tratto in dado minchia, venendo dalla giungla, la minchia è solo una prolunga, al suo dipendente direttore de la fotografia – ma qui non si parla del finocchietto e meticcio italiano comunista Pier Paolo Pasolini (quel bastardo di italiano, P.S. ribadisco io; che era solo un bastardo di italiano; P.S. e nient’altro che un bastardo di italiano, venuto e sparito al mondo come sparuto coniglio: per cui mi trovo di nuovo a domandare: “che cosa vuole, questo bastardo di italiano, questo bastardo di italiano che era proprio, guarda caso, il bastardo italiano comunista e finocchietto Pier Paolo Pasolini; vale a dire: che cosa vuole questo bastardo di italiano in Europa?”) – È invece importante la risposta: perché bisogna pensare a tornare ad uccidere. Dare forma al mondo è vedere di colpo la vita indegna di vivere come cosa che zampilla di vita letale sempre minacciosa a noi dinnanzi – ma cosa a cui deve essere tolta sempre la vita: la vita indegna di vivere è ciò che deve essere uccisa.

Triste sentire dire ancora che gli italiani avrebbero impestato il mondo con mafia e spaghetti, come ancora si sente dire talvolta all’estero soprattutto, la verità è che gli italiani hanno impestato il mondo con Dante, Boccaccio, d’Annunzio, cioè con l’arte degenerata; se non vi rendete conto di questo non ci posso fare niente, perché non riconoscete la malattia come la cosa con la quale non si deve discutere, ma solo eliminare ad ogni costo; mafia e spaghetti sono cose che non hanno conseguenza né soluzione: Dante, Boccaccio, d’Annunzio sono l’arte degenerata che chiama la razza degenerata, che vede allora il progetto della soppressione della razza degenerata come unica soluzione – e la terra alleviata come unica via d’uscita. È probabile che la razza sia una questione di stile, più che di scienza – ahi, che disgrazia le questioni di stile.

Come si organizza, allora, la faccenda delle Venti giornate di Torino, che è l’inchiesta di fine secolo? Statue, da sempre ignorate nel grigio contesto urbano, come si evince da lo smilzo testo di sor Carlo, sor Musil, che improvvisamente saltan giù dai loro piedistalli, quando ci sta la notte crucca e assassina, e si affrontano usando i passanti sì come semplici comode scomode comiche ruvide lacrime e clave. Segre: «“Il futuro è molto buio… divinità meschine e infami sono emerse dal cuore della roccia… ed esseri in carne e ossa come noi si stanno felicitando per questo mostruoso evento… Mi promette di lasciare la città?”» quello che dice Segre nel penultimo capitolo delle Venti giornate, presenta il quadro tipico degli ultimi racconti di Lovecraft: un qualcosa di non umano che si è risvegliato dalla profondità della terra, e il meticciato lì presente sulla terra che si sente trasportato a fare in modo che esso ritorni a dominare la terra, battendo su tamburi d’Africa, camminando su strade di una città in preda all’insonnia, non vedendo gli omicidi commessi a pochi passi di distanza, manifestando come millenaristi, cosa che comporta l’integrale dissipatio h.g. – anche se GDM non ha la stessa grande visione razziale tipica del solitario grande maestro di Providence; il Maestro della setta dei Trasgressionisti: «“Li guardi sui palchi di legno durante gli anniversari della Liberazione, inetti a riconoscere il nemico se non quando indossa la camicia nera, così come l’hanno incontrato e ‘amato’ per la prima volta!”»; il maestro di Providence: bisogna eliminare il meticciato italo-mongolo-semita deportandolo in luoghi deserti, mentre solo poco tempo dopo lo stesso solitario maestro ha precisato: non basta più deportare il meticciato italo-mongolo-semita in luoghi deserti, bisogna sterminarlo con il gas, come se GDM avesse unito, in un tempo e luogo lungo tutto solo suo, i due passi delle lettere riportate da Houellebecq nel suo saggio sul maestro di Providence – ma il guaio è che, noi moderni, non crediamo più nei mostri, perché non crediamo più alle cose che devono essere sterminate – perché non crediamo più alla Cosa, che è l’unica cosa che può essere incontrata in un colpo d’ala geniale di turbine in un luogo interamente tutto che è sempre stato suo, cioè nella terra come ciò che è sacro, quando la terra è diventata la Terra del Sacro, mentre il romanzo di GDM invita ad un pensiero diverso che ha raggiunto vittime e carnefici, costituendo, in un contesto modo & mondo geometrico, – questo sì – le due parti strette e ristrette – che non ha a che fare con l’altro, mentre per il resto, in serbo stretto attiene a tutti quanti noi: tempi duri, cazzi acidi.

Giorgio De Maria, Le venti giornate di Torino. Inchiesta di fine secolo, postfazione di Giovanni Arduino, Frassinelli, Milano 2017 (poi Neri Pozza, Vicenza 2024)

Marcello Veneziani, Nostalgia degli dei

Soltanto in previsione di un lungo periodo di guerre a venire, che, inevitabilmente, servirà a riportare alla rivalutazione dell’odio e del disprezzo tra i popoli, quanto poi di una comunità che accetti la nuova conformazione in base ai tempi, ma anche in base a ciò che riguarda la misurazione quantistica, si può pensare di scrivere, rivolgendosi a chi abbia finalmente chiara tale possibilità, altrimenti non si fa che ripetere cose perdute via via, strada lungo facendo; per cui sembra giusto partire dalla domanda: “qual è il conflitto?”, domanda che dovrebbe portare alla stesura di ogni nuovo libro, mentre la domanda che si pone adesso non è nient’altro che ciò che porta alla inadeguatezza di ciò che ci si ostina a definire come cultura di destra e cultura di sinistra.

Al di qua di questa possibilità, sembra stia giungendo la formazione di un centro destra culturale, che si conferma cultura come calma schietta sciatta scialla, che comporta la composizione di un libro quale opera di catechesi linda e blanda, mentre invece un libro non deve insegnare né tanto meno chiarire, quanto spandere energia dissonante attraverso la linea di un conflitto – infatti la serietà va bene solo quando riguarda la serietà del bambino che gioca, altrimenti è teatro, carnevalata, scherzo occasionale in costume, cioè salotto culturale.

Ma la questione che torna adesso è la composizione del testo, nei confronti di chi sarà chiamato a leggere il testo. Da quel maestro dell’analogia che era Novalis ricaviamo: «Il vero lettore dev’essere l’autore ampliato. Egli è l’istanza superiore che riceve la cosa già preliminarmente dall’istanza inferiore.», che è ciò che comporta la differenza tra Novalis, che vedeva nei lettori una continuazione dell’opera dell’autore, che è ciò che apre a Finnegans Wake, e l’intento di un libro che si ferma ad un intento di catechizzare.

Per il resto, il pensiero ordinato è ormai tanto di destra quanto poi di sinistra. Non lo avete mai notato? – ma questa è una cosa che non ci interessa e che facciamo bene a lasciare andare via al più presto.

Le regole sono sempre le stesse. Non potrà mai esserci il Nord come cultura operante finché esisterà il meticciato, perché esisterà solo qualcosa che identificherà la freccia che punta al Nord, che indica l’esistenza di ciò che è vita indegna di vivere, che è ciò con cui, prima o poi, qualcuno sarà chiamato a regolare i conti. Noi non sappiamo che forma potrà mai avere il nuovo pensiero, abbiamo solo la Freccia che punta al Nord, come aveva riconosciuto Heinrich Himmler nel modesto palazzotto di stile italiano reperito in terra germanica: un meticcio italiano può solo intrecciare storielle in un palazzetto tirato su altri da meticci italiani, come ha fatto il meticcio italiano Basile o il meticcio italiano Ariosto o, nell’ambito della musica, il meticcio italiano Monteverdi e così via via, strada lungo facendo; ma solo chi torna all’origine del pensiero della razza bianca può trovare, nel palazzotto tirato su dai mediocri meticci italiani, la Freccia che punta al Nord, che appartiene, alle parole che comprendono la nostra eredità, cioè le parole che abbiamo ricevuto in quanto nostra eredità, che è ciò che riguarda ciò che è giunto in eredità alla razza bianca, questo quando il pensiero torna a pensare il pensiero della razza bianca in quanto ciò che è da pensare, ma che non riguarda più ciò che è portato a nascere nel luogo in cui qualcosa ha la spinta di andare via da dove è nato andando nel mondo solo come terra dove andare – ed è per questo che è ormai tempo di passare dal bit al qubit, abbandonando la vecchia stratificazione della cultura. Il meticcio può fare giochi di parole, battute di spirito e raccontare barzellette in saloni bene illuminati dagli architetti del meticciato italiano, ma solo alla razza bianca spetta il compito di articolare l’arte del pensiero in ciò che il meticciato ha finora combinato.

Ma se vogliamo restare alla cultura di destra e di sinistra, alla cultura di destra compete allora il ricordo della razza bianca; mentre alle altre culture spetta invece il compito di cancellarne il ricordo; questo perché solo la razza può chiamare il poeta, che sarà allora il poeta della razza bianca, così come solo la razza può chiamare il compositore, che sarà allora il compositore della razza bianca, mentre il meticciato può avere soltanto un paroliere e soltanto un musichiere: il grande scrittore violenta la lingua, il piccolo scrittore è tanto se riconosce di avere a che fare con l’alingua come sua materia e fama e focaccia.

Ma rimane il concetto di Altro e di essere umano. Quello che l’andare per il mondo adesso consegna, è l’incontro con il meticcio: che deve essere separato da ciò che è l’incontro con l’altro, che allora è l’incontro con la terra. Noi pensiamo alla terra solo come terra dove andare, non pensiamo più alla terra come ciò cui spetti il diritto di stabilire chi abbia il diritto di abitare la terra; per cui pensiamo alla terra solo come terra dove andare, o come turisti, o come migranti, mentre ciò che comporta l’andare nella terra è solo andare nella Terra del Sacro, per incontrare la sacralità della terra, che è ciò che comporta colui che risponde alla nostalgia degli dèi, che deve allora incontrare ciò che, avendo avuto nascita nella terra del sacro, nel momento in cui esisteva soltanto terra, diventata poi terra del sacro, ne può redimere l’atto vergognoso di nascita, perché andare nella terra è allora possibilità di incontro con il sacro, che noi ormai non riconosciamo più come possibilità legata all’andare nel mondo, che questa recensione in negativo, una delle prime del genere, credo, tende ad esporre, nella forma di Dono della terra, che è l’incontro con l’Altro, che meno di tutto è l’altro come ciò che a caso si affaccia spaurito dal tientibene.

Così come il libro è allora ciò che sempre vuole vivere, tramite l’autore, che ne è soltanto tramite e letame, il mondo è ciò a cui si deve dare forma, perché la terra chiama il suo abitante, ma ponendo sempre la domanda: “Sono gli umani, adesso, in grado di dare forma al mondo, cioè la muova forma, di cui il mondo ha bisogno?”, così come la domanda che si presenta a chi si appresta alla composizione di un nuovo libro, perché è ciò che comporta, ad un tempo, le due cose che ne fanno una: struttura del libro e sacralità della terra.

Ancora una volta, “Incipit Zarathustra”: L’Europa alla razza bianca d’Europa! Restituire l’Europa alla razza bianca d’Europa!

Marcello Veneziani, Nostalgia degli dei. Una visione del mondo in dieci idee, Marsilio, Venezia 2019