Il romanzo poliziesco porta alle estreme conseguenze il concetto di narrazione, posto che si abbia intenzione di chiedersi che cosa si intenda, adesso, per “narrazione”, cioè posto che si voglia interrogare quella possibilità di collegare fra loro, strettamente, alcuni avvenimenti in modo da costituire una sola figura (forma, Gestalt) valida ai fini di ciò che è dato volgere, allora, come narrazione – così il romanzo giallo diventa un possibile meccanismo preciso, tanto da sostituire quel pacco di meccanismo al concetto di narrazione, e collegare il concetto di fine della narrazione prospettato da Byung-chul Han, per cui la questione riguarda la cosa che il romanzo giallo può chiamare in gioco, mentre la domanda riguarda ciò che esso può comportare, anche al di fuori del romanzo giallo; è bizzarro: se lo si guarda da un certo punto di vista, il romanzo giallo è quel genere di narrativa che ha a che fare con il concetto di vita indegna di vivere, ma il romanzo giallo è ciò che non nomina mai, esplicitamente, quella possibilità, cioè ciò che questa possibilità non piglia mai di petto, preferendo ricorrere al “gioco”, ma in quanto ciò che non si segna come ciò che è il gioco di dare forma al mondo, cioè il Grande Gioco; così il romanzo giallo, nonostante la sua propensione per il modo di pensare della maggioranza, deve essere indagato per la propensione strana che sembra volere indicare: trovare ciò che è solo vita indegna di vivere al fine di spiccare lì la vita, ma solo con l’aspetto di prendere parte a un gioco ben composto: il grande criminale impunito, il criminale che la legge deve lasciare libero, l’usuraio vecchio e inutile – tutto ciò che, nel mondo, costituisce e restituisce la comprensione di ciò che è la vita indegna di vivere; così un discorso critico sul giallo dovrebbe partire dal modo in cui – benignamente – si uccide, cioè dal modo in cui si stabilisce il modo in cui si trova del tutto giusto togliere la vita a quel tipo, o tipi, particolari di esseri viventi, che allora vengono identificati in quanto solo vita che è vita indegna di vivere. Per cui nel romanzo non c’è pensiero sulla eliminazione della vita indegna di vivere, ma costruzione di un congegno che porta all’abbattimento della vita indegna di vivere – vale a dire che il romanzo giallo è un gioco fatto per non pensare quello che invece è la cosa che dovrebbe tornare ad essere la cosa da pensare: cioè la vita indegna di vivere, la vita del pidocchio, la vita di ciò che non ha diritto di vivere.
Il giallo ha a che fare con la vita indegna di vivere, ma non lo ammette esplicitamente, essendo esso un genere di second’ordine, popolare, e un genere che nasconde questo suo modo di fare ricorrendo al gioco, che non è il gioco di dare forma al mondo, cioè il Grande Gioco del mondo, ma il gioco spicciolo del bambino del meticcio – così nel romanzo giallo, nonostante la sua propensione per il modo di pensare della più triste maggioranza silenziosa, deve essere indagato ciò che sembra indicare, quasi per gioco, ciò che non ha diritto ad essere fatto oggetto di indagine: la facilità del delitto, la facilità del meticcio, per cui togliere la vita a chi viene solo indicato come vita indegna di vivere, il grande criminale impunito, il criminale che la legge deve lasciare libero, l’usuraio vecchio e inutile – tutto ciò che, nel mondo, costituisce e restituisce alla comprensione di ciò che invece è vita indegna di vivere. Un discorso critico sul giallo dovrebbe partire dal modo in cui si uccide, cioè dal modo in cui si decide che valga la pena, ad ogni costo, di togliere la vita a quel tipo, o a quei tipi particolari di esseri viventi, che, via via, vengono identificati in quanto vita indegna di vivere.
Temo assai.
Tutto passa attraverso l’uomo criminale: solo pensando la soppressione dell’uomo criminale si potrà pensare, in un modo più libero, infine un mondo più libero. Se è vero che, nel romanzo giallo, agisce l’uomo criminale, che l’investigatore finisce per assicurare alla giustizia, è anche vero che, in quelle pieghe, prende posizione la possibilità di sopprimere l’uomo criminale – e infatti il giallo d’azione tende alla soppressione brutale del criminale, che è ciò che Leonardo Sciascia non tollerava nel “giallo d’azione”, soprattutto nella forma presa da Mickey Spillane, ma anche questo non va bene: pensare l’uomo criminale vuole dire pensare la razza la cui sola vita è un crimine, per cui fare i conti con l’uomo criminale vuole dire fare i conti con la razza che comporta la possibilità dell’uomo criminale, la cui sola vita è un crimine.
Leonardo Sciascia individuava nel romanzo giallo il genere che non richiede il pensiero da parte del lettore a sostegno di ciò che legge (egli infatti era solito leggere i romanzi gialli durante i viaggi in treno) – senza pensare che il romanzo giallo può portare a pensare ciò che, senza il richiamo al pensiero da parte del lettore, porta a pensare, chi, anche casualmente, legge un giallo.
Il gioco è appunto il punto bello di partenza, ma non illudetevi, perché di punti belli non ne avrete punto più: è il gioco che riguarda il rapporto tra autore e lettori, quando l’autore decide di riscrivere uno dei classici del genere romanzo giallo; e il gioco che riguarda il carnefice e le sue vittime, nel momento in cui il carnefice decide di mettere in opera il proprio gioco, cioè il Gioco del mondo, che è il punto in cui giace il GPS che alla fine lo incastra, posti certi parametri, se si accetta il gioco che è il gioco della letteratura, cioè il gioco della paraletteratura che ha comportato il gioco dei due romanzi di Agatha Christie, in quanto colpevole da non perseguire, in due modalità diverse, che è ciò che dimostra che il romanzo giallo nasconde qualcosa – perché altrimenti, dal gioco della paraletteratura, si sarebbe passati al gioco, ben più importante, della letteratura, che comporta l’altra lettura del GPS. Sappiamo che il “Giallo” ingloba la Gestalt, anche se manca uno studio sulla letteratura poliziesca, che consideri tale letteratura, o paraletteratura, da un punto di vista scientifico, come invece è avvenuto attraverso la letteratura, o paraletteratura, che riguarda quel genere simile che è la fantascienza. Il romanzo è quella cosa le cui piene potenzialità sarebbero pienamente visibili a tutti, se tale genere rinunciasse, una volta per tutte, alle due cose che nulla hanno a che fare con quel genere tanto spicciolo che sembra avere a che fare con il romanzo, tanto da essere spesso speso soltanto in trama e personaggi.
La questione è che manca lo stadio per la paraletteratura, ma così il romanzo giallo si pone su una soglia dove lo scoglio che non può essere oltrepassato è ciò che comporta la privazione della vita umana, che comporta allora la nuova domanda: ricordare che il personaggio Morisu Kyōichi è colui che spalanca la soglia della Casa decagonale davanti ai suoi ospiti, permettendo loro di avanzare nel Gioco – da lui preparato – apposta per loro sei.
Allora chiediamoci: “Perché il delitto spaventa così tanto?” Il personaggio di Morisu Kyōichi era portato a uccidere quei sei tristi personaggi perché quei sei avevano, indirettamente, condotto alla morte la donna che egli amava e dalla quale egli era amato, Nakamura Chiori. Ma perché togliere la vita, a chi si ritiene essere solo vita indegna di vita, costa poi così tanto, adesso, fino a spingere a confessare, poi, il delitto da parte di colui che lo ha commesso, come se la vita tolta in quei delitti fosse tutto, fuorché “vita indegna di vivere”? Questo è ciò che pone in una strana relazione i romanzi Delitto e castigo e I delitti della casa decagonale, passando attraverso il romanzetto Dieci piccoli indiani di Agatha Christie – romanzi che il personaggio Morisu Kyōichi doveva assolutamente ben conoscere, in quanto componente, egli, di un club del giallo – mentre però, ricordiamo, che, in Orient Express il delitto rimane santamente impunito; per cui bisogna interrogarsi sulla parte nella quale, concretamente, si colloca l’investigatore. È qui che interviene il pacco, cioè la spedizione del materiale, tramite posta normale o tramite messaggio in una bottiglia che arriva, comunque, sempre a segno al suo inconsapevole destinatario, tanto nella forma di caratteri vergati dalla mano assassina, quanto nella forma di mano recisa e che mai si è piegata a delitto alcuno.
In Dostoevskij si può fare sempre presente l’influsso del cristianesimo; ma questo non è più valido nei confronti di Ayatsuji Yukito, dove l’influsso del cristianesimo è minimo, mentre invece è importante considerare il planetario influsso della globalizzazione cristiano-occidentale, sì come noi la vediamo operare attraverso l’influsso del romanzo occidentale in Giappone (e così noi tutti conosciamo i tristi esempi dell’arte narrativa di Mishima e di Murakami Haruki), ma ancora di più, in questo caso, del romanzo giallo occidentale. È infatti da qui che bisogna partire.
Perché è così difficile uccidere, nei veloci tempi della velocità moderna – quando la cronaca sembra dimostrare invece tutta altra cosa?
A determinare i romanzi di cui qui si parla, è una domanda del tipo: “Che cosa costituisce quella cosa che fa l’essere umano?” In Delitto e castigo si può parlare dell’influsso del cristianesimo, che impedisce di toccare il pidocchio, nei Delitti della Casa decagonale c’è l’influsso di Delitto e castigo, e dei romanzi gialli occidentali, ricordati da AY subito all’entrata del romanzo in quanto epigrafe (= «a tutti i miei amati predecessori»), spalancando egli le porte come fa Van, ma la questione – che non viene pensata – è che l’essere umano è solo nient’altro che pallido concetto filosofico, che, in quanto tale, può facilmente cadere ed essere, nello stesso modo facile, facilmente posto a essere dimenticato, una volta che si impone un altro modo di pensare.
Se il romanzo giallo si presenta come il genere che dimostra il ripristino dell’ordine ad opera di un investigatore, allora almeno due romanzi di Agatha Christie mettono in crisi tale possibilità: Assassinio sull’Orient Express (1934) e Dieci piccoli indiani (1939). La possibilità è accennata come paradosso, non è mai affrontata a livello di novello pensiero sorgente, che vorrebbe dire mettere in discussione il rapporto tra delitto e castigo, cioè mettere in discussione il termine “delitto”, così come mettere in discussione il termine “essere umano”, che è ciò che chiama il castigo, che allora sarebbe appunto quello che deve essere chiamato solo come ciò che deve essere cancellato, per cui delitto e castigo sono le due opzioni che non devono mai essere collegate. Cosa che vorrebbe dire affrontare la questione della vita indegna di vivere, che questi romanzi appena sfiorano e poi gettano via.
Agatha Christie si muoveva a livello di quello che Leonardo Sciascia riconosceva come puro virtuosismo applicato a un genere appena di bassa letteratura, mentre AI si muove a un livello ben più complesso.
La questione che rimane: “Perché è così difficile uccidere – adesso –, anche solo a livello di testo letterario, tanto da richiedere, quando si uccide solo per finta, subito dopo, l’espiazione?”
Se tutto questo fosse una convenzione ereditata da vecchi testi meticci, come il vecchio romanzo del mediocre romanzo del mediocre meticcio russo Dostoevskij, dallo spicciolo titolo tutto russo di Delitto e castigo? Quello che è importante pensare è pensare la divisione che separa ciò che ha diritto di vivere dalla vita che non ha diritto di vivere, che è appunto ciò che la nostra contemporaneità non vuole pensare, tanto è vero che ne relega la possibilità in quel tipo di letteratura che non richiede il pensiero, perché richiede solo il sostegno di un niente più che un congegno.
Ciò che la letteratura gialla sfiora non è il concetto di vita indegna di vivere, che è ciò che la nostra epoca moderna vuole invece rimuovere a tutti i costi; il concetto di “vita indegna di vivere” è appena relegato in una sottospecie di letteratura, di romanzi per la massa, che non devono essere considerati come cose cui valga la pena pensare, quello che la letteratura poliziesca, come non letteratura che, in quanto “non letteratura” invita a pensare, è invece la possibilità del delitto – e infatti nel romanzo giallo l’arte del delitto sembra l’arte, fra tutte le arti a disposizione degli umani, quella più semplice da applicare, ma allora la richiesta del castigo è come la specie della falsa firma al progetto appena completato, che comporta la morte da parte della vita indegna di vivere, che è invece ciò che deve essere posta sotto la vista della letteratura, anziché sotto la svista della paraletteratura, che l’appone in ciò che ben si ritrovava in quanto morte dell’autore – che è ciò che comporta il messaggio lasciato nella bottiglia, nei due romanzetti qui ricalcati.
Il gioco è il punto di partenza: è il gioco che riguarda il rapporto tra l’autore e i lettori, nel momento in cui l’autore giapponese decide di riscrivere, nell’isola, uno dei classici del giallo accidentale; e il gioco che riguarda il carnefice e le sue vittime, nel momento in cui il carnefice decide di mettere in opera il suo gioco, cioè il Gioco del mondo, che è il GPS che lo incastra solo in quanto sua precisa posizione di artefice del gioco, ma non di colpevole. In quel gioco, che è il gioco della letteratura, il gioco della paraletteratura ha comportato il gioco dei due romanzi di Agatha Christie, in un romanzo che pone il colpevole in quanto colpevole in posizione da non più perseguire, in quanto ciò che non può essere perseguito, o ciò che non deve essere perseguito. È evidente che il romanzo giallo nasconde qualcosa – per quanto non dica niente, perché ogni romanzo è nient’altro che uno scherzo infinito, così la bottiglia lanciata in quei due romanzi gialli deve avere nient’altro che la funzione di una bottiglia di Klein, mai aperta e mai chiusa, perché ogni romanzo è nient’altro che uno scherzo, scherzo di becchino, nell’arco del suo tempo di lavoro, in quanto scherzo infinito.
Scrivere è un modo più che modesto di organizzare parole: Georges Simenon è lo scrittore poveraccio tanto molto mediocre, che noi tutti conosciamo; l’arte di scrivere è il dono di graffiare la lingua, senza mai usare le parole per fare addormentare – così come Hölderlin scriveva graffiando la carta senza usare inchiostro alcuno; Leonardo Sciascia diceva di usare i gialli come lettura per i viaggi che gli capitava di dovere ogni tanto intraprendere in treno – ma la lingua è ciò che la letteratura deve identificare come ciò che deve essere distrutto, quando chi scrive ottiene il proprio statuto nel momento in cui, dalla parola, passa alla lingua. Lo scrittore mediocre feconda la lingua, il grande scrittore violenta la lingua.
Lento avanza diritto il meticcio italiano in tutta l’Europa; lento avanza, sicuro, in tutto l’Occidente, il meticciato: un Dio sia sempre pronto a stramaledire l’avanzare dell’Italia!
Pensavo di iniziare questa recensione con questa epigrafe, che ormai mi sembra giusto porre, appena appena, giusto appena più che alla fine della recensione; eccola dunque qui tutta incantata per voi: «Þá hljóp Egill at Grími ok rak øxina i höfuð honum, svá at þegar stóð í heila.» – Io me li ricordo, quegli italiani bastardi, che ormai sono più che marciti nelle loro tombe: Dio stramaledica l’Italia!
Ayatsuji Yukito, I delitti della Casa decagonale (1987), traduzione di Stefano Lo Cigno, Einaudi 2024