Si è mai notato come i primi tre racconti di Mondo piccolo. Don Camillo (1948) di Giovannino Guareschi, intitolati rispettivamente Prima storia, Seconda storia, Terza storia, ricordino la tematica del realismo magico? In questi racconti abbiamo la minaccia blasfema che spaventa Dio, la tomba del cane morto che difende la terra, la fidanzata morta che attende il suo fidanzato puntualmente per anni nello stesso luogo. Questi racconti, dice Guareschi, hanno la funzione di presentare l’ambiente dove agiscono don Camillo e Peppone, ma non appena essi arrivano l’incanto si smorza. Il caso di Guareschi è appena un soffio, ma ce n’è abbastanza per riconoscere nel realismo magico “ufficiale” – quello applicato al colonialismo – un gioco truccato. La letteratura postcoloniale è creata dai critici – e da quei critici propinata ai lettori come letteratura caratterizzata da quello stile particolare, ma in realtà non è così. Perché Guareschi non ha continuato quella sua vena narrativa? I racconti di don Camillo e Peppone sono bozzetti simpatici, ma di gran lunga inferiori. Tuttavia il libro finisce con un’altra sorpresa. Gli ultimi tre racconti (La paura, La paura continua, Giallo e rosa) sono legati dalla trama comune. Una persona viene uccisa. Chi ha commesso l’omicidio? All’omicidio ha assistito un bambino, il figlio dell’ucciso. Che ha visto in faccia l’omicida e lo ha riconosciuto. Che ha rivelato in confessione il nome dell’omicida a don Camillo, il quale però è tenuto al segreto della confessione e quindi non lo rivelerà mai. Così due persone sono in pericolo: il bambino; don Camillo. Peppone sa che don Camillo sa chi è l’omicida, ma sa che don Camillo non lo rivelerà mai, come infatti don Camillo gli conferma a voce. Un racconto giallo si interrompe così con la violazione del principio basilare del genere: l’assassino non viene svelato, le persone messe in pericolo dal non svelamento del nome dell’assassino rimangono in pericolo. E l’azione resta sospesa.
Non sarebbe male partire da Guareschi per liquidare il realismo magico. Il Dio semita impaurito dalle minacce di un padre il cui figlio di due anni sta morendo, la tomba di un cane che diventa il protettore della terra su cui è sepolto, il fantasma di una ragazza che attende ogni sera il passaggio del suo fidanzato appoggiata a un palo del telegrafo, sono immagini che vanno ben oltre l’abbozzo di uno sfondo come era visto dagli occhi di un bambino. La tecnica usata qui è la stessa di quella del realismo magico: una terra maledetta, appena sfiorata dalla civiltà; un ambiente dove i morti si uniscono ai vivi, gli dei possono essere raggiunti da pochi personaggi eccezionali – e, se è il caso, messi in pericolo, e alcuni animali diventano spiriti protettori della terra. La Bassa cova l’uovo di Macondo. Il realismo magico è un’aggiunta arbitraria alla letteratura postcoloniale; o, se si vuole, il tema del colonialismo è un’aggiunta arbitraria alla rappresentazione di una terra che possiede certe caratteristiche di base (scetticismo nei confronti del progresso, attaccamento alle origini, diffidenza verso ciò che è straniero). Questa aggiunta arbitraria è una truffa che ha lo scopo di creare un genere letterario autonomo e lanciare un’accusa all’Occidente. Ma meno che mai c’è l’ombra del complotto; chi lo fa, agisce per sé.
Dumézil parlava di due tipi di magia: una alta, tipica delle due funzioni superiori, e una bassa, tipica della terza funzione. Una magia di alto livello, sacerdotale e guerriera e una magia plebea, per lo più contadina. Il realismo magico è un modo di vedere la terra dal basso, nei suoi legami con la gente bassa. Non c’è niente della catena aristocratica che passa per la terra per sorpassarla alla fine che è all’inizio. C’è la casualità di essere in un ambiente tanto magico quanto primitivo.