Ogni tanto è bene interrompere, questo perché l’interruzione ci permette di comprendere in che cosa consista “l’Interruzione” – quando noi non riusciamo ancora a sistemare la cosa che è l’interruzione in un suo luogo proprio, appunto come luogo soltanto di stucco e stacco tra cose che ci appesantiscono come può essere il compito assillante di dover fare qualcosa che meno che mai dà accesso a ciò che è la Cosa. È infatti importante comprendere la natura di ciò che costituisce l’interruzione, prima di ciò che costituisce la natura di ciò che viene interrotto. Così la skräpkonst potrebbe essere lo spiraglio giusto per individuare questo luogo lungo l’attimo di sospensione: in che cosa consiste la skräpkonst? nella particolarità di certa street art (ritengo infatti che queste due forme d’arte possano essere accomunate) di creare manufatti artistici che si confondono con la normale immondizia, che si incontra in punti della città, come angoli delle strade, oppure parchi nei dintorni dove risulta stabilita la città. Niente, infatti, è più nascosto, tra le forme delle arti spontanee, come la skräpkonst. Noi avvertiamo il luogo che questa forma estrema di arte reclama, quando per caso la incontriamo, ma non siamo in grado di avvertirla ancora interamente come arte, appunto perché la confondiamo con ciò che è l’immondizia, ciò per cui non abbiamo occhio alcuno. Confondere ciò che non è arte con ciò che viene chiamato ad essere rilevato come arte è ciò che presenta il romanzo di Jünger Le api di vetro, che presenta la prima forma di skräpkonst – almeno che io sappia. Ma come si presenta, in questo romanzo, la skräpkonst? Nella forma, appunto, di “api di vetro”, cioè di quelle api che svolgono il normale lavoro delle api naturali, ma che il protagonista del romanzo, scorgendo quel movimento del tutto naturale delle api, capisce che non sono api vere, cioè forme naturali, ma api create a partire da un progetto che si vuole sostituire alla natura in nome della modernità, cioè “api di vetro” costruite in laboratorio, ma che non ha nulla a che vedere con la skräpkonst. Le api non sono spazzatura, ma da qui alla riproduzione “artistica” della spazzatura il passo è breve – e lo spasso anche, come mostra l’episodio del romanzo di Jünger, che consiglio di leggere, essendo esso, di suo, spassosissimo (i riferimenti alla fine del post). La successiva, non pubblicizzata, skräpkonst, secondo me debitrice al romanzo di Jünger, eleva a livello artistico la spazzatura, così come, in un certo modo, le api di vetro superavano le api naturali nel romanzo di Jünger, presentando la spazzatura come oggetto dove è possibile incontrarla, ma che non è il rifiuto di uno o più processi, ma un oggetto autenticamente pensato per essere classificato come spazzatura, che però non esclude che l’oggetto artistico che ci troviamo davanti sia autenticamente, e trionfalmente, spazzatura (= immondizia) a tutti gli effetti (mi capite?). Il problema è: che cosa distingue la spazzatura da un oggetto d’arte che simula la spazzatura (ciò che appunto determina così come crea la Skräpkonst)? Nel momento in cui vediamo accanto ad una panchina, in un parco cittadino, un sacchetto di patatine vuoto e una lattina di birra abbandonati lì accanto, oppure, in un gita “fuori porta”, i rimasugli di un picnic, non sappiamo se ci troviamo di fronte a semplice spazzatura abbandonata da persone qualunque, oppure all’opera di un artista (skräpkonstnär) che ha creato quel particolare oggetto d’arte per collocarlo infine, di nascosto, nello spazio ad esso più adeguato – cioè il luogo che più attiene all’immondizia che non è stata recuperata alla questione del ritiro della spazzatura, e nemmeno alla raccolta indifferenziata, quindi nel pieno rispetto di un ordine, essendo egli un componente della skräpkonst. Il fatto è che la skräpkonst consta di immagini, in questo caso di immagini di immondizia vera quanto varia, senza essere in alcun modo immondizia; è per questa ragione che, essa, a pieno diritto, appartiene alla civiltà dello spettacolo, perché spettacolo, cioè immagini colte al volo in movimento, che può raggiungere il suo pieno effetto nel movimento, che è illusione del movimento – e non dimentichiamo che, nelle Api di vetro, il creatore delle medesime api di vetro è pure il titolare di una imponente vittoriosa casa di produzione cinematografica. Ma ciò che caratterizza questo rimasuglio come opera d’arte è il fatto che non avrebbe senso quello spazio intorno, così come non avrebbe senso la sua presenza in un bidone della spazzatura – tra la spazzatura. Niente è infatti più fuori posto per quell’oggetto artistico “lattina di birra” inserito nel bidone Plastica/Metallo per la raccolta differenziata, anche se nessun particolare distingue l’oggetto artistico “Lattina di birra” dalla lattina di birra vuota che non è che semplice spazzatura – la spazzatura “non è che” spazzatura, mentre l’oggetto d’arte classificato come skräpkonst, è spazzatura, che non è spazzatura a tutti gli effetti, consistendo esso in spazzatura che non è spazzatura (perché è oggetto d’arte che è però tutt’uno con la più autentica spazzatura) ma che dice di essere spazzatura. L’autentica spazzatura è ciò che non chiede di essere riconosciuta come tale, poiché richiede solo di essere sistemata nel luogo ad essa più adatto per lo smaltimento; la spazzatura come oggetto d’arte (skräpkonst), è ciò che richiede lo sguardo che lo riconosce come tale per essere disposto nel luogo ad esso più consono – che non è il museo ma è il luogo aperto che, a partire da quel reperto isolato di Skräpkonst, diventa un luogo che non è un museo così come un museo che non è un luogo. Questo deve essere chiaro, perché qui sta la differenza: l’opera d’arte che simula la spazzatura non è destinata al contenitore della spazzatura, ma a ciò che non contraddistingue la spazzatura per sua natura, cioè l’abbandono in un luogo che non consente la raccolta della spazzatura; così come a determinare la differenza è la destinazione d’uso: il pacchetto di patatine e la lattina di birra, gettate infine sul terreno vicino alla panchina, prevedono l’utilizzo di un vero pacchetto di patatine, che prima di essere svuotato era stato un sacchetto di patatine pieno, che chiunque poteva acquistare e consumare, per poi smaltire adeguatamente come rifiuto o abbandonare selvaggiamente nella natura e la stessa cosa vale per la lattina di birra – così come per i rimasugli del picnic nel prato “fuori porta”. Quindi questa forma d’arte è comunque “fuori luogo”, perché non rinnega la propria forma, quanto un luogo in cui essa possa essere raccolta. Allora di che cosa si tratta? Di una cosa che traccia difforme traiettoria, che noi, ancora, non possiamo far affiorare a tutti gli effetti. Nel caso dell’opera d’arte nessuna destinazione d’uso ha creato l’usabilità di quei diversi prodotti, che, una volta, consumati, si sono trasformati in rifiuti, mentre nel caso della skräpkonst essi sono sempre stati opera d’arte, accettata o no, perché solo come opera d’arte quelle cose sono nate, così come, se fossero stati depositati nei relativi contenitori per la raccolta differenziata dei rifiuti, sarebbero stati comunque abbandonati fuori luogo; l’opera d’arte è creata in tutti i suoi aspetti in quanto “rifiuto” (l’unto sul sacchetto, il residuo di birra nell’interno della lattina), che non prevede smaltimento alcuno, bensì un abbandono in luoghi deputati per mai accogliere la spazzatura, perché spazio che si fa luogo dove la spazzatura non deve essere abbandonata. Allora la nozione di “spazzatura” si confonde con quella di “rovina”, cioè di oggetto che viene prodotto non in base alla sua piena conformità di oggetto pienamente utilizzabile in quanto cibo o bevanda, ma in quanto forma di rimasuglio (accontentatevi anche qui, come nel caso di Jünger, dei riferimenti alla fine del post, vedetevela poi tra voi): così quel sacchetto di patatine non è mai stato pieno di patatine da mangiare e quella lattina di birra non è mai stata piena di birra da bere; nessuno ha mai consumato quei prodotti per abbandonarli infine dove qualcuno li avrebbe furtivamente consumati, ma l’artista li ha prodotti come oggetti d’arte esistenti con quella specifica modalità (cioè come rifiuti, rovine di qualcosa – che pure, a quel punto, non sono rifiuti, tantomeno rovine) e in quanto tali, cioè rifiuti che non sono rifiuti/rovine, li ha collocati nello spazio (paradossalmente ormai orma museale – che però non può mai essere condotta in alcun museo) ad essi più consoni, che richiama il pensiero a ciò che è l’incongruenza del “museo”, perché se la skräpkonst sembra non consistere nella natura è proprio ciò che esiste in essa, perché è la natura ciò che chiama la skräpkonst e che è in grado di renderla tale. Il fatto che questa “spazzatura” non possa presentarsi come rovina, rimanda a ciò che manca a ciò che è il mondo in grado di produrre rovine così come spazzatura. In fondo quello che la skräpkonst sembra volerci ricordare, attraverso la sua cerimoniosa, di una quasi hölderliniana modestia, è che noi, forse per la prima volta nella nostra storia, ci riconosciamo come non essere in grado di produrre autentica spazzatura. E non è, questa, in fondo, la condanna che aspetta alla nostra appena modesta modernità, non essendo noi veramente moderni, se un attimo appena ci si pensa? – eppure, rimango dell’idea che questa cosa, cioè questa spazzatura che non è spazzatura, è tutta ormai tra noi, perché è giusto sia così. Ma questa cosa che si fa spazzatura, pur non essendo spazzatura a tutti gli effetti, ma che non può essere in alcun modo distinta dalla vera spazzatura, di cui ho difficoltà a parlare, non vi richiama qualcosa alla mente? È per questo che penso che ogni tanto faccia bene “interrompere”.
Ernst Jünger, Le api di vetro, traduzione di Henry Furst, Guanda, Milano 2020
Johann Chapoutot, Il nazismo e l’antichità, traduzione di Valeria Zini, Einaudi, Torino 2017