“Banalità del male” è un concetto che può essere funzionale, e quindi opportuno da osservare nelle sue capillari articolazioni, nell’arco di un progetto di sterminio (a ben guardare: realmente deprecabile?), ma che si sgonfia in mille altri rivoli di occasioni.
Cosa resta della banalità del male in ciò che lega la fissità dello sguardo del Negro omicida alla smorfia sprezzante del meticcio italiano mafioso? Forse la banalità della degenerazione della razza? (Mi sa proprio di sì!) Ma è legittimo, poi, parlare ancora di “banalità”, in questo caso? Il cinema ha fissato più volte, tanto lo sguardo quanto la smorfia, sornionamente, in modo da immortalarli, l’uno e l’altra, nel volto, sempre disponibile, dell’attore più di moda in quel momento, ma – essendo questa settima arte stramalefica un esempio dell’arte della degenerazione di tutto ciò che è stramoderno – li ha, lì, al contempo, elevati a qualcosa, di volta in volta, giustificabile e degno sempre di “umana” comprensione.
Contro tutto ciò si contrappone la grandiosa frase del Mein Kampf: “combattendo l’Ebreo, io miglioro l’opera della creazione divina”.
Rimane il ghigno sottile, la malvagia stupidità che unisce il desolante Negro omicida al tronfio meticcio italiano mafioso, che sembra ghignare qualcosa di vero – ma solo una piccola verità da tenere bene nascosta – verso tutti i “bianchi” di sinistra: il male è prima di tutto questione di razza inferiore.