La narrativa è quel genere letterario che trova inciampo nelle cose più tanto lontane a ciò che riguarda la parola e la lingua, che sono, in questo caso, i personaggi e la trama – cosa che vale tanto per la stesura quanto per la lettura di un testo di narrativa: noi infatti non sappiamo più pensare o parlare di un testo di narrativa senza fare riferimento a quelle due cose che sono trama e personaggi; e non è un caso che gli esempi più maleodoranti, nella narrativa, li troviamo nella desolazione del meticciato: il Decameron del meticcio italiano Giovanni Boccaccio è finora uno dei più convincenti esempi di meticciato applicato all’abuso dell’arte narrativa – ma perché questo? perché viene lasciato libero di esistere il meticciato, che è invece ciò che deve essere abbattuto, in quanto selvaggina abbattuta per gioco di legge – gioco che, per un poco, meno che mai ci sarà, ma che gioco deve essere, cioè gioco del gioco mondo.
Il modo migliore per parlare di un testo di narrativa è mettere da parte intreccio & personaggi, spostando l’attenzione sul modo in cui il testo è costruito. Per quanto riguarda il personaggio non si pone passaggio da sfondo a primo piano, quanto discontinuità, dove la nostra abitudine porta a vedere la permanenza di un unico elemento inalterato, da sfondo a fondo – perché è quello che noi vogliamo vedere. Il personaggio è un’abitudine, così come l’intreccio, che però non hanno nulla a che vedere con la costruzione di un testo di narrativa, se si guarda con diversa attenzione. Accaniti lettori, riconosciamo noi allora trama e personaggi perché siamo abituati a leggere soltanto in un certo solo modo quello che altri hanno scritto soltanto in un certo modo; se solo sapessimo, noi, leggere e scrivere in un modo diverso non avremmo bisogno di ricorrere a trame o personaggi – che è poi quello che in un campo diverso, da quello della narrativa, si può imparare dalla misurazione quantistica – e questo vale tanto per la lettura quanto per la redazione dei testi di narrativa.
Se il punto fermo della nuova ideologia è che il meticciato è ciò che deve essere soppresso, noi non abbiamo una qualunque forma di narrativa che possa affermare questo in modo conforme a ciò che, come narrativa, possediamo né un modo di leggere che possa dedurre questo dai testi di cui disponiamo. Ma le strutture narrative che accantonano tale possibilità sono forme primitive di narrazione – forme volte alla narrazione come forma di un consumo tanto spicciolo, in quanto repertorio di luoghi comuni di facile accesso da cui attingere, perché noi abbiamo solo a che fare con un mare di narrativa di consumo che avanza, con la sua inconsistenza, con il suo meticciato, con la sua leggerezza, con la sua arroganza, con la sua vuotezza, con la sua maigretudine, con la sua negritudine, con la sua sciocchezza, con la sua stanchezza, con la sua inconsapevolezza, con la sua picaritudine, con la sua italianitudine, con il suo turno di tutto ciò che di inconsistente, afrofuturisticamente, ci chiama.
Che cosa diceva, Fredric Jameson, a proposito dell’unicità di Finnegans Wake? L’esistenza degli esseri ilici, pura immagine della forma divina che devono essere abbattuti, è il vertice del pensiero gnostico, alla quale, però, Philip K. Dick mai è stato dato accostarsi, perché non ha mai pensato il gioco del mondo fino in fondo, come gioco di dare forma al mondo basato sulla differænza tra chi spetti il diritto di vivere e chi spetti invece quello di essere abbattuto.
Che cosa hanno in comune queste quattro trilogie? niente se non il marchio del Gps – che qui però sta per GlasPerlenSpiel.
Noi sappiamo che il meticcio ha modi suoi di raccontare il modo di occupare il mondo, come ricaviamo da quello che è stato scritto dal meticcio italiano Dante e dal meticcio italiano Boccaccio, modi diversi da quelli della razza bianca, che invece è ciò che è chiamata ad abitare la terra; il racconto della razza bianca è un racconto che ha più a che fare con una tecnica di lancio di messaggi subliminali, mentre il racconto del meticcio è un racconto che deve illuminare in chiaro modo, dappoiché il cervello del meticcio è un cervello rozzo che vediamo funzionare benissimo nel modo di raccontare del meticcio italiano Boccaccio, se lo confrontiamo con i messaggi subliminali contenuti nel film Valis di cui tratta la Trilogia di Valis. Il meticcio, non ci si stancherà mai di ripetere, deve essere fermato non per ciò che fa, ma per ciò che è – che è ciò che mette fine al racconto, che è invece ciò che mostra quello che il personaggio fa. Al di là del modo subliminale di raccontare proposto dal film Valis, qualcosa dello stesso modo di raccontare compare in Finnegans Wake di Joyce. Ficchiamocelo in testa: esiste il meticciato perché esiste l’italiano di merda. La genialità degli italiani consiste nell’avere manifestato il nemico di razza in fantocci letterari improbabili come il commissario Maigret, Miss Marple e varie sagome altre, per nascondere il vero pericolo, quando il primo islamista della storia è stato il meticcio italiano Dante Alighieri, la prima sagoma, il primo paroliere, Dante al-Islām Alighieri, il multietnico, il primo vero e solo kamikazzo di Allah, sagoma fatta fugacemente per nascondere “la razza”, la razza sporca, l’antirazza: l’italiano di merda errante, l’italiano di merda eterno, l’italiano di merda.
Che cosa hanno in comune, queste quattro trilogie? Niente, se non il fatto di poter essere collegate attraverso un semplice fischietto Gps (Glasperlenspiel): quale gioco di perle di vetro allora porre? il tema fondamentale resta: “come si determina il personaggio?”. Costume è ciò che veste il personaggio, salvandolo dalla nudità a cui lo chiama il sogno: scrittore è colui che è stato lasciato nudo, solo solo fra le parole del mondo – quando i legami fra le parole non dicono più niente, e formicai di parole distrutti dicono che ciò che scrive, l’ego scriptor, si chiama ciò che colpisce lo scrittore.
Fantastic invasion suona l’algoritmo di parole che può essere dispiegato come Fantastic invasions nell’Apocalisse che ci pesa e pende sopra coppole nostre di shitalians e daghi & Spaghettifresser (che potrebbero essere resi come: “italiani di merda”, “merditali”, “daghingozzatori di spaghetti di merda”; volendo, a un certo livello, semplicemente: “italiani di merda”) giusto adesso (in tempo retto&ratto tratto now); da qui la necessità di determinare personaggi come il divino non è altro che uno straccio di modernità detta “strano”: ogni scrittore mediocre è sempre qualcosa di più di quel manovale cementatore fesso (idiota & sbilenco pure mi pare, giusto appena un italiano di merda) di graziosi mucchietti di parole che stato è Giacomo Leopardi nel suo tempo più che distorto, gobbetto ben nato malformato in quel di Recanati, gobbetto delle Marche, Gobbaccio cocchiere sempre all’assalto d’Europa già fatta secca dal meticciato di specie sua maledetta – mai stato poeta, quello, soltanto paroliere, soltanto giocoliere & cocchiere, saltimbanco disgustoso meticcio, furioso meticcio italiano per di più, italiano bastardo, cocca cocchiere ci ripicco io, picchiando fiso fisso punto su la stravagante invasione sua – “Fantastic invasion” è la definizione usata da Conrad, in Cuore di tenebra, per determinare lo sbadiglio tramite cui l’Europa s’è incuneata longa longa nell’Africa nera vera e lunga come notte di cuori e tamburi tanti tesi tra sponde battenti: non una invasione vasta e propria vera, ma una “invasione stravagante”, che comportava boomerang siffatto di parole vuote lasciate, solo parole, come si vede sempre adesso nell’apocalisse in cui siamo, cazzo, giusto adesso (in tempo now del cazzo), in cui ci stringiamo ad accantonare l’appunto casuale che compare in quel racconto: “Exterminate all the brutes!”, che permette di rileggere il racconto a partire da quel punto di estremità, no?, de la vista – ma che è l’algoritmo di parole che non deve più essere chiamato a pensare, come dimostra a noi il film, perché pensare il rapporto tra questa fantastic invasion e queste divine invasions è ciò che può essere adesso invece da chiamare a pensare. Il museo e il campo di sterminio sono i due modi in cui gli italiani possono passare all’immortalità scema, lo scempio che loro compete. Infatti gli italiani meritavano la stessa sorte toccata a zingari ed ebrei, questo è certo. Il meticcio è quella cosa, piena di vita, alla quale, la vita, deve essere tolta completamente, vita o soffio di vita che sia, al margine di una strada, come in un sogno, perché la razza è la stessa: l’antirazza.
Philip K. Dick sembra determinare la Trilogia di Valis secondo schema bruto di ’sto tipo:
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Ipotesi di una grande mente artificiale, che lancia segnali nella forma di segnali di informazioni.
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Ipotesi di una invasione divina a partire da un meticciato.
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Determinazione di un personaggio assolutamente umano (il vescovo Timothy Archer) che razionalmente richiede e si sottomette a l’invasione.
Questo schema è quello che si ritrova alla base della Trilogia dell’Area X di Jeff VanderMeer, per cui la divina invasione è a questo punto la polifonia, già presente nella musica profana medioevale, ma che, dal Quattrocento, invade la musica sacra – tuttavia, i romanzi che accennano a questa divina invasione, sono tutt’altro che romanzi che richiamano la polifonia del romanzo come potrebbe affermare Bachtin, ma forme che richiamano invece l’appiattimento dell’arte del romanzo, che finisce con la narrativa di consumo, come dimostra – bastardo italiano che era quello – Giovanni Boccaccio, mentre in Neuromante è la soggettività ad aprire a nove unità.
Il termine di base di queste trilogie è l’invasione, che rompe l’equilibrio, e comporta l’effetto droga (come alluso mostrasi ne le spore che colpiscono la biologa di colpo nell’Area X – Annientamento, p. 19.) – che però si prolunga attraverso alcune razze umane: così alcune razze umane sono come droghe, che devono essere messe al bando – questo vale per il meticciato; il pericolo è ciò che pone il tema della selezione, ma ciò che pone la droga come tema è la soluzione posta dentro l’inclusione: vediamo che la droga è un elemento insistente in Valis e in tutta la Trilogia dello Sprawl, mentre risulta assente nelle due poste alle estremità, Trilogia spaziale e Trilogia dell’Area X.
Nel romanzo La neve di San Pietro (1933) di Leo Perutz il tema è il rapporto tra religio & periglio: il barone von Malchin vuole ricreare l’entusiasmo per la religione che c’era una volta, ma che, egli sostiene, era solo stato indotto da una sostanza allucinogena e niente di più, per cui, alla fine della storia, è ripagato con la stessa moneta – ma ricordare quello che diceva Eliade ne Lo sciamanesimo, secondo cui il ricorso a sostanze allucinogene indicava la mancanza di raggiungere lo stato di trance da parte dello sciamano a un certo punto dell’epoca in cui religione e sciamanesimo indicavano un rapporto tra terra e cielo, poi in via di interruzione, così il barone si trova a fronteggiare la rivoluzione comunista che egli stesso, con la sua somministrazione di droga ha chiaramente illuminato. Ma perché questo racconto non comunica il pericolo, avvertibile, invece, nel Richiamo del corno di Sarban? Il mito allaccia a la ciclicità, a differenza del semplice racconto fantastico, che si limita ad una esperienza posta al limite tra sogno e realtà.
La droga che impesta il mondo, adesso, è ciò che non viene più indicata come droga. Dobbiamo sempre ricordare che Scrittore non è il costruttore di trame e personaggi, ma colui, che, lasciato solo tra tutte le parole del mondo, pone la questione del rapporto fra il sé e tutte le parole del mondo. Così lo scrittore non deve mettere insieme storie complete, ad imitazione di quanto si vede nella realtà, ma deve essere colui che è definito da un rapporto diverso con le parole, che possono riguardare l’origine delle parole, se si tratta di poesia, o l’insieme delle storie diverse, se si tratta della saga, cioè della storia, che avrà allora forma di prosa lirica. Lo scrittore non è l’inventore di storie, quanto il conoscitore del rapporto tra le parole e le storie che, a partire da quei rapporti, si sono determinati. Ma l’origine delle parole è comunque ciò che unisce poesia e prosa in quanto ciò che costituisce la saga: La parola è poesia, per Heidegger, se risponde all’essere, ma questa parola potrebbe anche fare parte della saga, che è la storia, che – solo in quanto stabilito dalla letteratura – si oppone alla poesia in quanto prosa. La costituzione della poesia in quanto tale è puramente attinente alla letteratura. È possibile una constatazione della poesia al di fuori della differenza tra poesia e prosa. Il romanzo Hyperion di Hölderlin ha lo stesso peso delle poesie di Hölderlin, nonostante il giudizio negativo di Heidegger. La differenza tra la parola nella poesia e la poesia nella saga, che è la storia, è un tratto caratteristico della letteratura; è possibile una considerazione diversa della parola poetica, che sarà tale anche in quanto parola della saga. Così la questione è: perché la parola della saga ha così tanto tradito la sua natura da nascondere l’origine – ad essa comune con la parola della poesia?
Bisogna considerare l’odio verso la forma di cui non si ha alcuna responsabilità, che è ciò che determina la razza dall’antirazza, la razza chiama l’antirazza, Borges si rifaceva a Lovecraft; Ursula K. Le Guin definiva Dick il Borges d’America: alla radice di alcuni racconti di Borges c’è Lovecraft – è possibile collegare La biblioteca di Babele (1941) di Borges e L’ombra calata dal tempo (1934-1935) di Lovecraft, così come alla radice di Dick potrebbe esserci, invece, seduto il vecchio Borges, sul piedistallo dell’immondo Cthulhu, ad aspettare il suo tempo del ritorno.
Alla trilogia di Dick può rispondere la Trilogia dello Sprawl di William Gibson, secondo questo schema, che sembra porsi paro paro entro sparo sparo in paro modo:
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Ipotesi di una costruzione del cyberspazio come spazio parallelo al mondo reale al quale è possibile accedere attraverso particolari innesti chirurgici.
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Ipotesi di una invasione pseudo divina da parte di forme estranee al cyberspazio, quali i loa del vudu, che nessuno dei frequentatori del cyberspazio avrebbe voluto vedere.
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Determinazione di un falso personaggio, che è puro fantoccio, che prende qui il nome di “Monna Lisa”.
Philip K. Dick sembra aver impostato la sua trilogia sulla base della Trilogia spaziale di C.S. Lewis. Struttura della Trilogia spaziale come unione di fantascienza e fantasy: scienza → fantascienza → fatascienza. Infatti in Valis Dick richiama la trilogia di Lewis. Questi scrittori, detto tra noi, dico io, hanno avuto la fortuna di non essere stati italiani di merda, cioè di essere stati scrittori di razza bianca.
In Neuromante è importante la composizione del personaggio, e il sottoinsieme costituito da Wintermute. Però il nuovo tipo umano riguarda solo il personaggio con cui il protagonista ha a che fare, non il protagonista del romanzo, che rimane sempre il vecchio tipo di homo – l’aggregato che porta a Wintermute come sottoprogramma di colui che ha assoldato Case, ma ricordare che Wintermute è anche il nome di un traduttore dei rotoli in Dick.
La trilogia spaziale di Lewis sembra invece disporsi secondo due tempi: Primo tempo) un tempo che riguarda lo spazio, con il tempo veloce dell’invasione al suo interno; Secondo tempo) il tempo che riguarda la costituzione psicologica del personaggio, che sarà una coppia di personaggi. L’invasione è limitata al solo personaggio di Weston, che viene posseduto, cioè invaso, e soppresso poi da Ransom in quanto forma puramente materiale, ilica, forma che non ha niente a che vedere con ciò che è divino.
Ma la questione che queste trilogie sembrano porre è la domanda se l’essere umano vorrà essere ancora una volta essere il padrone del mondo – questione che apre alla questione di dare forma al mondo, decidendo a chi spetti il diritto di abitare il mondo, che allora vorrà dire accettare di sopprimere chi sarà stato giudicato indegno di abitare il mondo – e questo ci porta alla domanda iniziale: è l’essere umano, adesso, in grado di affrontare questo? la letteratura, così come la filosofia, sembra ignorare la questione.
Che cosa è, realismo, nella letteratura? la constatazione di una invasione, così Dante, mediocre non-poeta, cioè paroliere, fiorentino e fiorito meticcio italiano, ha messo insieme la Commedia quale constatazione dell’avvenuta islamizzazione dell’Occidente del futuro, cosa che riempiva di gioia il suo disgustoso pennino di meticcio italiano – Dante di merda, paroliere del meticciato italiano, conosceva senz’altro il discorso di Philip K. Dick dal titolo: Se vi pare che questo mondo sia brutto, o per averlo reperito online – con il pessimo audio evidenziato da Benjamín Labatut (La pietra della follia, Adelphi 2021, p. 11) –, o per averlo letto nella traduzione italiana di Gianni Pannofino (P.K. Dick, Mutazioni. Scritti inediti, filosofici, autobiografici e letterari, Feltrinelli 1997, pp. 279-305); Joyce, poeta della razza bianca, ha scritto Finnegans Wake quale constatazione della degradazione dell’Occidente al falso mito della vera antirazza. Il meticcio è ciò a cui la razza bianca deve fare attenzione, perché è il tramite della divina invasione, che è la falsa invasione: la falsa invasione comporta il mito del realismo, come dimostra La trasmigrazione di Timothy Archer, come anche Monna Lisa Cyberpunk. Gli italiani non hanno impestato il mondo con mafia e spaghetti “made in Italy”, lo hanno impestato con Dante e Boccaccio, mad in Italy, perché lì siede e attende, immonda, l’arte degenerata; e non c’è arte degenerata senza razza degenerata che dorme in attesa sul piedistallo, per cui, per togliere dal mondo l’arte degenerata, bisogna togliere dal mondo la razza degenerata, cioè il meticciato, che ne è l’inevitabile suo fondamento – non c’è nuovo discorso sull’arte che non chiami l’arte degenerata e la razza degenerata, cioè che non destini ciò che aspetta al museo e ciò che aspetta al campo di sterminio, cosa che vuol dire far posto nel mondo al Museo e a qualcosa che noi non siamo ancora disposti a costruire, così come non siamo disposti a conoscere ciò che attiene al vero Museo.
Domando: come fare a meno di quei maledetti italiani, che hanno impestato tutto il mondo? Lovecraft indica il pericolo nel meticciato «italomongolosemita», che è ciò che noi accettiamo sempre più come nostro simile per quanto dissimile – da dove arriva, allora, l’invasione, ci si può chiedere, leggendo queste quattro trilogie? accettando il meticcio, si accetta il pericolo insito nel meticciato; il meticciato è meticciato perché deve impestare il mondo, altrimenti non sarebbe meticciato: gli italiani hanno impestato tutto il mondo perché questo era quello che dovevano fare, essendo italiani e nient’altro, essendo, cioè, meticciato e nient’altro. Domando: perché gli italiani hanno impestato il mondo? perché è stato permesso loro di vivere.
Le leggi razziali sono un modo per dare forma al mondo, infatti la questione non è essere padrone del mondo, ma dare forma al mondo – questo perché dare forma al mondo comporta il diritto di stabilire a chi spetti il diritto di vivere e a chi, tale diritto, stabilito dal cristianesimo, deve infine essere tolto. La sacralità della vita è un impiccio portato dal cristianesimo, perché la sacralità della vita non si rispetta permettendo ad ogni forma, in grado di vivere, di vivere, ma stabilendo a quale forma spetti il diritto di vivere e a quale altra spetti il diritto di essere interrotta. Tanto è ciò che divide la Trilogia spaziale di Lewis dai due libri di Tolkien: Lo hobbit e Il Signore degli Anelli. Nel romanzo Lo hobbit la riduzione del numero degli orchi, a seguito della grande battaglia dei Cinque eserciti, è considerata come fatto del tutto positivo. Che tipo di battaglia è la Battaglia dei Cinque Eserciti? «Allora il terrore piombò nel cuore degli orchi, ed essi fuggirono in tutte le direzioni. Ma con le nuove speranze la stanchezza lasciò i loro nemici, che li incalzarono da vicino, e impedirono alla maggior parte di loro di scappare. Ne spinsero molti nel Fiume Fluente, e dettero la caccia a quelli che fuggivano a sud o a ovest fin nelle paludi attorno al Fiume Selva; lì perì la maggior parte degli ultimi fuggitivi, mentre quelli che cercarono scampo nel reame degli Elfi Silvani furono abbattuti lì, o attirati nelle profondità del buio impenetrabile di Bosco Atro, per morirvi. I canti tramandarono che tre quarti dei guerrieri degli orchi del Nord morirono in quel giorno, e le Montagne ebbero pace per molti anni.» (J.R.R. Tolkien, Lo hobbit, traduzione di Elena Jeronimidis Conte, Adelphi, Milano 1979 capitolo 18, Il viaggio di ritorno, p. 326). La Battaglia dei Cinque Eserciti è una battaglia che deve decidere quali razze, fra tutte quelle presenti sulla terra prima della Battaglia, abbiano il diritto di abitare la terra. Questa domanda non si presenta mai esplicitamente, e la forma in cui essa si manifesta è quella di uno scontro tra eserciti.
Il richiamo del corno di Sarban propone la caccia al meticcio, che è il gioco della selvaggina a disposizione, cioè l’uso dei vecchi tipi di socialità in conformità al nuovo ordinamento – che chiama il nuovo discorso sul subliminale. Ma il meticcio è ciò che deve essere segnalato per legge e la caccia al meticcio è ciò che deve essere regolamentata invece da parte di chi ha la legge dalla sua parte.
Vogliamo parlare della falsità brahmsiana? Vi dico che tempo fa ho sognato il Trio op. 8 di Brahms citato da Leo Perutz in un sogno – brahmsiano – che mi vedeva tornato in un Nord reso falso dall’invasione della maledetta Italia in quella terra del sacro – per cui, guai ad avere a che fare con sogni brahmsiani: come ha capito Cioran, bisogna fare una rapida scelta tra il sole e la nebbia; per cui, dico io, è il tempo di chiederci: “Era di razza bianca, Brahms?” – e il tempo in cui ci chiediamo queste cose è quando il pericolo che minaccia l’Europa è giunto così tanto vicino all’Europa. Brahms non era di razza bianca, era un degenerato razziale, tutta la sua musica ha quell’impronta decameroniana-zingaresca che non lascia dubbi; Brahms è la parte di ciò che si continua a definire “europea”, che invece deve essere strappata dall’Europa, scacciata con gioco di caccia attenta, via dall’Europa, in modo da avere sogni più tranquilli; noi abbiamo perso il sogno di dare forma al mondo – perché abbiamo perso quell’arte che avevamo appena imparato a conoscere: l’arte che era quella del genocidio, cioè di dare forma al sogno di un mondo stabilito in base a chi spetti il diritto di abitare il mondo e a chi di essere rigettato fuori dal mondo. Si potrebbe dire che Brahms fosse più wagneriano di Bruckner. La musica di Brahms ha lo stesso tono sfumato dei temi tipico che è in Wagner, cosa che invece nella musica di Bruckner non avviene mai; in Brahms tutto è in potenza, larvale stato soltanto, non c’è mai un tema delineato come nettezza, come invece è in Bruckner, ma tutto funziona come in Wagner – solo che il tipo di nebbia è diverso: il Concerto per violino è una danza di fantasmi abbozzata nella nebbia (Cioran ha scritto: «Bisogna scegliere fra Brahms e il Sole.», e il primo tema del Concerto per violino di Brahms ha le stesse figure della Quarta sinfonia di Brahms; se il luogo comune è il Nebelheim, in Wagner esso è comparso delineato con chiarezza fuori dalla nebbia, in Brahms è solo nebbia che avvolge l’ascoltatore; secondo Cioran (Sillogismi dell’amarezza) la musica di Brahms impone la scelta, l’ascoltatore è vittima dell’atmosfera che lo obbliga alla scelta: è la stessa situazione che invade lo spettatore di Bayreuth, sempre secondo Nietzsche, la musica invade, diventa aggressiva, si impadronisce del suo ascoltatore, ma poi, come niente, lo lascia – per cui la musica di Wagner non costituisce il grande pericolo. Che è quanto riferisce la narrazione della Trilogia dell’Area X.
Šostakovič è un aspetto del meticciato che non può essere che considerato come l’aspetto più ignobile del meticciato; così come Dante e Boccaccio sono altri ignobili aspetti del meticciato (Šostakovič & Dante & Boccaccio: rispettivamente piccolo meticciato slavo e piccolo meticciato latino). La Nona sinfonia di Mahler presenta quella capacità di fare musica attraverso una formula che è algoritmo di pensiero, che la musica del meticcio russo Šostakovič non è mai riuscita a ottenere, perché il meticcio è soltanto tanto di qualcosa di casuale e razionale, per cui io posso dire che il meticcio eterno con cui abbiamo a che fare è solo il meticcio italiano.
L’invasione compare sempre come secondo movimento della trilogia, dopo il primo movimento che riguarda lo stato di natura, mentre alla fine compare un tipo destinato a soccombere, che è ciò che costituisce il personaggio – e l’insieme è ciò che rimane del romanzo, forma da sempre intermedia. Nella Trilogia spaziale di Lewis il secondo volume comprende la diabolica invasione avvenuta, secondo il personaggio Elwin Ransom, durante il viaggio di Weston nel sistema solare: la Trilogia spaziale di Lewis comprende tre luoghi, Marte come terra della pluralità delle forme (paganesimo), Venere come terra del mito dell’Eden (cristianesimo), la Terra come luogo dello scontro finale, ma che non porta alla terra rigenerata, secondo la visione di Dumézil, perché la polifonia viene indicata da Lewis – e da Tolkien – come momento di crisi della Creazione, in cui una ipostasi demiurgica inizia un nuovo tema, a contrappunto di quello d’apertura, e il dio autentico mostra il risultato di quella intromissione – anche il Signore degli Anelli di Tolkien è una trilogia, dove il secondo movimento è quello eroico.
Nelle quattro trilogie c’è uno scontro tra mondi al tramonto: nella Trilogia spaziale rappresentata entro il sistema solare (Marte e Venere), nella Trilogia di Valis rappresentata dall’altro mondo rivelato dalla gnosi, nella Trilogia dello Sprawl rappresentata dal cyberspazio, nella Trilogia dell’Area X rappresentata dalla presenza stessa dell’Area X, che tende ad allargare il suo confine, invadendo lo spazio ad essa vicino. Vediamo che il nemico è il meticciato? Nella Trilogia dello Sprawl l’invasione sarà presentata dalla presenza dei loa all’interno del cyberspazio; nella Trilogia dell’Area X il nemico è presentato dalla presenza antica, non originaria, di ciò che poi diventerà la direttrice della Southern Reach e la psicologa, figura di riferimento della dodicesima spedizione, con l’intento di portare l’Area X alle sue estreme conseguenze distruttive, cioè l’eliminazione della presenza umana. In Lovecraft la terra è sensibile alla presenza delle razze che si trovano a stare al di sopra di essa, cioè sulla terra: ma solo la razza bianca abita la terra, mentre il meticcio occupa la terra, così come una pietra occupa una porzione di terra, oppure scorre la terra, così come un migrante scorre la terra, il meticcio occupa la terra come una pietra d’inciampo, che può essere allontanata, oppure come pietra che scorre la terra per una frana, che non è possibile allontanare. La vendetta del meticcio sarà anche la costante presente nella trilogia del Problema dei tre corpi di Cixin Liu: aiutare l’invasione extraterrestre anche nei confronti di una vendetta indiretta nei confronti del governo cinese.
In Dick e in Gibson il passaggio da un mondo all’altro è reso possibile grazie all’effetto di droghe: infatti i personaggi dei romanzi di cui qui si tratta fanno uso, più o meno costante, di varie sostanze allucinogene – e la droga è un elemento importante nel romanzo La Neve di San Pietro di Leo Perutz, dove la ricerca della possessione (= invasione) è affidata ormai solo alla chimica, da parte del personaggio che pensa di poter decidere, il barone von Malchin: la religione viene allora indicata come il risultato di una blanda reazione chimica che si compie all’interno del corpo umano, che un laboratorio può riprodurre, quando le componenti naturali, che avevano concorso a produrlo all’interno del corpo umano, non sono più disponibili direttamente in natura, si intende per effetto climatologico; quindi, in mancanza della droga spontaneamente assunta per effetto climatico, deve subentrare la volontà, da parte di colui che è venuto a conoscenza del fenomeno, di offrire la droga.
La Neve di San Pietro (1933) può essere avvicinato al racconto Il richiamo del corno (1952) di Sarban, come racconto dove in mezzo non c’è niente di concluso, in quanto racconto fantastico che si compie in un luogo chiuso, con possibilità che ne impediscono il collegamento perché in mezzo c’è la guerra che non ha concluso nulla (secondo quando giustamente indicato da Heidegger): l’avventura narrata nella Neve non ha la caratteristica dell’incontro con il pericolo che l’avventura del Richiamo, invece, presenta, per cui l’avventura della Neve si conclude con il protagonista che accetta di ammettere di avere vissuto quell’esperienza come un sogno indotto dalla febbre determinata dalle ferite riportate in quello che potrebbe essere classificato come nient’altro che un comune incidente stradale, oppure anche le conseguenze di una piccola rivolta a carattere sociale; mentre, nel Richiamo, il protagonista sa che è stato rilasciato solo per essere chiamato di nuovo, perché il mito è ciò che si rivolge solo a colui che può rispondere al mito nel mito (cioè colui che non nega, attraverso quell’esperienza, di essere entrato nel mondo del mito) – anziché solo nell’istante dell’incontro con il mito – la risposta del mito è ciò che costituisce il pericolo del mito come linguaggio che costituisce ciò che si basa sull’opposizione tra lingua e parola, per cui il racconto di Perutz è un esempio appena passabile di buona letteratura, mentre il racconto di Sarban è un esempio di geniale storia fantastica, perché solo l’essere umano può creare la struttura mitica che organizzerà la nuova forma come terra del cielo, degli umani e degli dèi, che comporta la scomparsa degli dèi e il pericolo per gli umani rimasti senza dèi e il pericolo dell’incontro che costituisce l’incontro con il ritorno del mito, che chiama i nuovi Dèi.
Nel Richiamo del corno e nell’Area X il ritorno dei personaggi è caratterizzato dal ritorno di copie, che hanno a che fare con coppie stabilite fra persone nelle quali il racconto si tinge di giallo, quanto si stinge e s’estingue il ritorno – cioè la madre, nel caso del protagonista del Richiamo; la moglie biologa, nel caso dell’Area X – che si accorgono di avere a che fare con copie (dice la madre del protagonista del Richiamo: «Ecco come stavano le cose per lei: “Loro” avevano rimandato indietro il suo corpo, più o meno sano, e con quel tanto di capacità mentali che gli permetteva di occuparsi dell’amministrazione quotidiana della piccola fattoria che suo padre gli aveva lasciato; ma si erano tenuti il resto. Che cosa gli avevano fatto? O che cosa lui aveva fatto a se stesso durante i quattro anni trascorsi in quel campo di prigionia?» (p. 6)) che sono state loro restituite o ritornate spontaneamente.
Se nell’Area X si ha a che fare con un sistema di replicazioni golemiche (le varie copie dei partecipanti alle spedizioni che tornano dall’Area), nella Trilogia spaziale di Lewis si ha a che fare con il vero e il falso Merlino, il vagabondo che viene sequestrato dagli emissari di Belbury per essere laggiù condotto a forza, mentre il vero Merlino trova da sé la strada per St Anne’s.
Quando, nell’area chiusa, l’esperienza con cui il protagonista ha a che fare è una esperienza che non richiama il mito, allora ciò che viene restituita è solo una copia golemica, una creazione automatica simile alle creazioni fornite dall’oceano di Solaris, che si appoggiano, per scarsità di informazioni a disposizione, a quello che è il dato psicologico (che nella chiave di lettura psicologica non può che coincidere con il ritorno del rimosso), e che è ciò che Stanisław Lem registra in quanto autore di quel piccolo romanzo; dove l’esperienza nell’area chiusa comporta il richiamo del mito, allora la copia che viene restituita è la coppia che attende la nuova vita, cioè il prossimo incontro con il mito, che sarà il richiamo alla prossima battaglia – situazione che non ha nulla a che fare con il dato psicologico, per cui queste copie muoiono, in coppia, di cancro (quando la questione è proprio questa: il personaggio nasce come esperimento finale) – così come il romanzo muore. Nel caso del Richiamo, ciò che attende di nuovo il protagonista è l’incontro con il mito sotto un’altra luna; nel caso dell’Area X ciò che attende il ritorno è spingere la moglie biologa a entrare nell’Area X, non per incontrare il mito, ma per farla finita con il mito – cioè con l’esecuzione di un progetto del tipo dissipatio h.g., che è ciò che muove da sempre il meticcio, che la direttrice della Southern Reach ha attentamente manipolato e attuato per proprio tornaconto, vale a dire per l’esecuzione della propria vendetta. Questo perché la stessa direttrice è un meticcio, mossa da quella forza che H.P. Lovecraft ha riconosciuto come in grado di mettere in pericolo la forma vivente sulla terra, aprendola a forme indipendenti da quelle presenti in quel momento sulla terra. Il meticcio è ciò che non abita la terra, ma occupa la terra; il meticcio non può riprendere la terra che non è mai stata sua, anche quando il suo scopo è riconquistare la terra che, secondo le rivendicazioni del meticcio, sembra gli sia stata strappata; allora il meticcio non ha altra possibilità che estinguere la presenza dell’essere umano sulla terra, in modo da rendere la terra vergine e frigida, preservata da ogni accesso. Chi determina, qui, l’incontro?, la psicologa, la direttrice della Southern Reach, il meticcio, la figlia di una nativa americana e di un bianco, che spinge la biologa dentro quella zona che ella, avendo occupato quell’area quando era bambina, aveva capito, quasi con cognizione da biologa, che, una volta costituitasi quella zona come “Area X”, quell’incontro avrebbe comportato l’incontro decisivo, cioè la dissipatio h.g., posto che ella (cresciuta in quanto psicologa) fosse stata in grado di inserire l’elemento in grado di innescare il processo che avrebbe comportato l’estinzione. La biologa era in grado di determinare l’estinzione della razza umana, così come il cinese della trilogia di Cixin Liu, la cosmologa Ye Wenjie, che lancia il segnale che dovrebbe permettere l’invasione della Terra da parte di una civiltà aliena, perché, alla base di entrambi i personaggi, c’è il desiderio di favorire l’estinzione della razza umana, cioè di percorrere la strada che porta alla dissipatio h.g., perché questi personaggi si riconoscono come meticciato, cioè ciò che deve essere eliminato, cioè si riconoscono come vita indegna di vivere, ma con la possibilità di vivere nella formula anodina che è la vita della terra una volta privata del genere umano, che è ciò che determina il meticciato. In Lovecraft la minaccia cosmica, che giace negli strati più fondi della Terra, addormentata, ma mai morta, è chiamata in vita dai tamburi del meticciato, battuti dai popoli, non di razza bianca, che hanno invaso l’America – canachi, mongoli, italiani, slavi, ispanici, negri, semiti, greci, allo scopo criminale di distruggere lo stato allora attuale di cose e richiamare ciò che ha preceduto l’essere umano sulla terra, quando ancora quello stato di cose non poteva essere definito come “orrore”, cioè quello stato che essi sentono come il loro naturale ambiente vitale in quanto terriccio che possono occupare – ma la questione da porre, adesso, è la questione del tipo: è in grado, adesso, l’essere umano, di diventare padrone del mondo, in quanto ciò che dà forma la mondo?
Perché il mostro di Lovecraft, razionalmente descritto in quei racconti, è, adesso, così patetico? perché non è altro che una caricatura, la caricatura che noi adesso riconosciamo del tutto insufficiente per determinare l’ebreo, l’italiano, l’ispanico, il meticcio, che ha arrancato nella terra della razza bianca, ma forma ancora valida per ciò che rappresenta il pericolo: i mostri di Lovecraft sono caricature del meticciato che rappresenta la vera minaccia della razza bianca in ciò che è la terra della razza bianca, quando è invece chiaro che quel pericolo è proprio ciò che ci riguarda. Se il mostro è ciò che non meraviglia più, il canto dell’era del meticciato è il canto in cui ciò che non è meticciato verrà posto in un canto. La parola è la responsabilità che attiene l’umano, che può essere parola presente di volta in volta nella poesia o nella saga; se la parola tocca la responsabilità, allora la parola sarà parola della saga, che è la storia; se la parola tocca l’irresponsabilità, allora diventa letteratura della poesia e paraletteratura nella storia, cioè puro intrattenimento, che è letteratura di consumo.
Come si chiudono, le quattro trilogie? con la costituzione di un personaggio. Alla fine compaiono i personaggi ai due estremi: Mark e Jane Studdock e il meticcio Gloria Jenkins, ai due punti medi, Timothy Archer e Monna Liza – è appunto questo che dimostra l’avvenuta invasione, il sovrappiù del personaggio di Merlino lo dimostra, perché Merlino non rappresenta un problema come personaggio, sapendo subito, di suo, da che parte stare (sono semmai gli umani, da una parte e dall’altra, che hanno dubbi sulla sua collocazione).
Il nome Gloria, attribuito alla psicologa, rimanda al nome vero di bell hooks, (Gloria Jean Watkins), così come la disinvoltura della psicologa (di nome Gloria Jenkins) del romanzo nell’evitare i nomi propri, da parte delle componenti della dodicesima spedizione, rimanda alla decisione di segnare il proprio pseudonimo, stabilito come bell hooks, scritto con minuscole, da parte della scrittrice e attivista il cui nome proprio era “Gloria”, e infatti la Gloria del romanzo ha insegnato alla biologa a trasgredire, come la vera Gloria bell hooks insegnava.
Nella Trilogia spaziale di Lewis il volume conclusivo si chiude con i dubbi psicologici di Mark Studdock e della moglie.
Trovare il tratto comune tra le nove sinfonie di Mahler e le quindici inutili sinfonie di Šostakovič, di cui parlava Glenn Gould: con Mahler un nuovo principio spunta inutilmente nella musica occidentale, che viene sviluppato da Šostakovič, ma la questione da pensare è l’inutilità, perché con Mahler si entra nel campo della musica che simula un tema che non è più un tema, cioè si entra nel vuoto della musica, che, attraverso il vuoto, evidenzia la propria inutilità, che è quello che la musica di Šostakovič porterà, con le sue quindici inutili sinfonie, alle estreme conseguenze – così si può dire che la musica di Mahler è il carattere prezioso che un mediocre meticcio slavo duplicherà come completa assoluta totale limpida rimbombante rimbambita inutilità bombaloreggiante. Quando il tempo è limpido e lo sguardo spazia ritto, mi pare di vederlo, quel meticcio russo bamboleggiante di Dmitrij Dmitrievič Šostakovič, con la sua musichetta da quattro soldi, con l’organetto da suonare per la sua composta marching band da quattro soldi imprestata e imparaticcia, così come mi pare di vedere, poco distante, quel meticcio italiano, untuosamente bamboleggiante, di Giuseppe Verdi, sempre ben vestito, tirato a lucido per la sua ospitata sulla banconota da mille lire ormai schizzata via, bastardo di italiano con la sua musichetta da quattro soldi da sonare a ritmo zum pa pa con tacchi e piante, tutti e due, quei due meticci, il meticcio russo e il meticcio italiano, li vedo con le loro scimmiette strette aggrappate sulla spalla.
La complessità di cui parla Benjamín Labatut è la complessità che Miguel Serrano vede alla base del Cile, costituito a partire da un meticciato di base che non può essere eliminato. Lovecraft costruiva il racconto Il richiamo di Cthulhu in base a un richiamo del racconto La Horla di Maupassant da un punto di vista del meticciato, che avverte il richiamo del mostro non umano, che dorme e attende il risveglio, mentre la razza bianca considera quel richiamo uno sguardo non voluto sull’orrore cosmico da cui è necessario distogliere lo sguardo. Labatut costruisce il libro sugli opposti Scienza (come insieme di ipotesi inquietanti) / Follia – ora meno che mai è il momento di spiegare, ora più che mai è il momento di fare propria l’oscurità che non si comprende in ciò che è scienza.
Incontrare il personaggio, che è ciò che comporta il tempo finale di queste trilogie, vuole dire mettere in risalto ciò che ha sempre costituito l’inconsistenza della sua costruzione (messa in risalto da Nietzsche e da Musil) e mettere in mostra la menzogna del romanzo, che ha sempre presentato la propria forza nell’intreccio e nei personaggi; il personaggio è ciò che si incontra nella parte finale di queste trilogie, come personaggio problematico, che è il problema che stringe il personaggio. Il personaggio è stato di recente confuso con una manifestazione della psicologia, per cui il personaggio è diventato applicazione della psicologia, ma in realtà si tratta di altra cosa. Il personaggio può essere determinato da un insieme di parametri che hanno ben poco a che vedere con la psicologia.
Nietzsche e Musil hanno affrontato la questione del personaggio da punti di vista simili in tempi ovviamente diversi. Nietzsche: «Quando si dice che il drammaturgo (e l’artista in genere) crea veramente caratteri, ci si abbandona a una bella illusione ed esagerazione, nella cui esistenza e diffusione l’arte celebra uno dei suoi trionfi involontari e, per così dire, eccessivi. In realtà noi non comprendiamo molto di un vero uomo vivo e generalizziamo molto superficialmente, quando gli attribuiamo questo o quel carattere. Ora il poeta corrisponde a questa nostra assai imperfetta posizione rispetto all’uomo, facendo diventare uomini (in questo senso “creando”) abbozzi tanto superficiali, quanto è superficiale la nostra conoscenza degli uomini. C’è molto abbaglio per questi caratteri creati dagli artisti; essi non sono affatto corposi prodotti della natura, bensì, a somiglianza degli uomini dipinti, sono un po’ troppo sottili, non sopportano di essere guardati da vicino. Quando poi si dice che il carattere dell’uomo vivo ordinario si contraddice frequentemente e che quello creato dal drammaturgo è il modello che la natura ha tenuto presente, si afferma una cosa completamente falsa. Un uomo reale è in tutto e per tutto qualcosa di necessario (anche in quelle cosiddette contraddizioni), ma noi non sempre conosciamo questa necessità. L’uomo inventato, il fantasma, vuole significare qualcosa di necessario, ma solo agli occhi di quelli che intendono anche un uomo reale solo secondo una rozza e innaturale semplificazione: sicché un paio di tratti forti, spesso ripetuti, con molta luce sopra e molta ombra e penombra intorno, soddisfano completamente le loro esigenze. Essi sono, cioè, subito pronti a trattare il fantasma come uomo reale e necessario, perché sono avvezzi a prendere, nell’uomo reale, un fantasma, un’ombra, un’arbitraria abbreviazione per il tutto. Che poi il pittore e lo scultore esprimano l’“idea” dell’uomo, è vana fantasticheria e inganno dei sensi: si è tiranneggiati dall’occhio, se si dice una cosa simile, perché quest’ultimo, anche del corpo umano, vede solo la superficie, la pelle, mentre il corpo interno fa altrettanto parte dell’idea. L’arte figurativa vuol rendere visibili i caratteri epidermici; l’arte poetica adopera la parola allo stesso scopo, essa disegna il carattere nel suono. L’arte muove dalla naturale ignoranza dell’uomo circa la sua intima essenza (come corpo e carattere): essa non è fatta per i fisici e per i filosofi.» (Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano, in Id., Opere complete, IV/2, versioni di Sossio Giametta e Mazzino Montinari, pp. 127-8). Musil: «In fondo i personaggi di un libro vengono creati soltanto per essere riempiti di sentimenti, pensieri e altri valori umani che poi vengono tirati nuovamente fuori quando i personaggi si fanno agire.» (Robert Musil, Sui libri di Robert Musil, in Id., Saggi e lettere, 2 volumi, a cura di Bianca Cetti Marinoni, traduzione di Andrea Casalegno, Einaudi, Torino 1995, vol. 1, p. 8).
Il problema è vedere il rapporto tra personaggio e psicologia, e poi stabilire con che cosa sostituire la paccottiglia “psicologia”. Perché il mostro di Lovecraft è così ridicolo, così come compare nei racconti che oggi leggiamo? Il meticcio può solo imbastardire. La vita artificiale, che è non vita, sognata dall’amebico schifoso italiano Filostrato in Quell’orribile forza, è la proclamazione di un sistema di vita che è non vita, così come la nativa americana Gloria Jenkins (Trilogia dell’Area X), il meticcio figlio di una nativa e di un bianco, che diventerà poi la Direttrice della Southern Reach e la leader detentrice in quanto leader dei Lieder del lancio della dodicesima spedizione, vedeva un progresso nell’estinzione del genere umano e, in accordo a quest’ottica, fa in modo di spingere l’invasione dell’Area X, che avrebbe comportato l’estinzione del genere umano, inoculando il germe rappresentato dalla biologa: in entrambi i casi è il meticciato che mira all’estinzione del genere umano, cosa che può prendere la forma sbilenca di un meticcio italiano (la forma più disgustosa del meticciato, dico io, per quanto forma d’entrata nel meticciato sia sempre la forma più disgustosa di meticciato) quanto la forma massiccia di un meticcio nativo americano, perché la cosa che dorme alla base è la stessa – cioè il meticciato; in Filostrato (lo schifoso italiano di merda creato da C.S. Lewis) il problema è creare la forma di vita assolutamente depurata da ogni scoria, in Gloria il progetto si tinge di ecoterrorismo (restituire alla terra la sua innocenza, che il genere umano ha turbato con la sua sempre più ingombrante presenza), in Cixin Liu il progetto è solo quello di aiutare il genere umano a fare quello che, da solo, esso non sarebbe in grado di fare. Il nome “Gloria” rimanda al nome proprio sonante “bell hooks”, Gloria Jean Watkins della realtà, così come l’ostinazione della psicologa, Gloria Jenkins nella finzione, nell’evitare nomi propri da parte delle componenti della dodicesima spedizione, rimanda alla decisione di segnare il proprio pseudonimo, stabilito come “bell hooks”, con le minuscole, da parte della scrittrice il cui nome proprio era Gloria Jean Watkins, che potrebbe essere divenuto Gloria Je(a)n (Wat)kins nel romanzo, ed il cui compito era insegnare la trasgressione: insegnare alla biologa il modo di trasgredire – per ottenere poi tutta un’altra forma (che sarebbe stata, a quel punto, una forma non-umana). Mentre rimane da considerare la questione delle trilogie di per sé: «L’affermazione che gli ultimi tre romanzi di Dick, sotto molti (importanti) aspetti così divergenti, debbano essere letti come una “trilogia” è irritante, almeno per me. Come romanzi non costituiscono alcuna trilogia, punto e basta (e per di più Divina Invasione non è al livello degli altri due), eppure questa definizione gli si è ormai appiccicata; qui Dick dimostra un inconfondibile investimento su sé stesso. Da un lato bisogna ricordarsi che sulla scia di Star Wars e di Tolkien quella che gli editori chiamavano “fantascienza” godette di un breve, misterioso boom che trasformò in scrittori di best seller alcuni degli autori che, come Dick, avevano vissuto vita grama e che lui poteva definire suoi pari – Robert Silverberg, Philip Jose Farmer, Frank Herbert e altri – e che quasi tutti i loro successi commerciali erano in forma di dichiarate “trilogie” (anche se in alcune di queste comprendevano quattro o più romanzi). Perché non sfruttare questa miniera d’oro? Dall’altro qui c’era una mente tutt’altro che restia a vedere le cose interconnesse fra loro. Dick aveva cominciato a vedere il lungo scaffale delle sue precedenti opere che formava un unico arazzo significante. Perché queste ultime non potevano essere anch’esse connesse fra loro?» (P.K. Dick. L’Esegesi, Fanucci, Roma 2015, traduzione di Maurizio Nati, n. XVI di Jonathan Lethem, p. 929), nel contempo viene lì escluso che si tratti di una vera trilogia, mentre il disegno va visto nel movimento complessivo dei tre libri che costituiscono la trilogia.
Sia chiaro: all’Italia ci cago sopra.
Le quattro trilogie:
C.S. Lewis, Trilogia spaziale (Lontano dal pianeta silenzioso, traduzione di Germana Cantoni De Rossi, Adelphi 2014. Perelandra, traduzione di Germana Cantoni De Rossi, Adelphi 2014. Quell’orribile forza, traduzione di Germana Cantoni De Rossi, Adelphi 2014
Philip K. Dick, La trilogia di Valis, Fanucci 2013 (Valis, traduzione di Delio Zinoni. Divina invasione, traduzione di Vittorio Curtoni. La trasmigrazione di Timothy Archer, traduzione di Vittorio Curtoni)
William Gibson, Trilogia dello Sprawl, Mondadori 2017 (Neuromante, traduzione di Giampaolo Cossato e Sandro Sandrelli. Giù nel cyberspazio, traduzione di Delio Zinoni. Monna Lisa Cyberpunk, traduzione di Marco Pensante)
Jeff VanderMeer, Trilogia dell’area X (Annientamento, traduzione di Cristiana Mennella, Einaudi 2015. Autorità, traduzione di Cristiana Mennella, Einaudi 2015. Accettazione, traduzione di Cristiana Mennella, Einaudi 2015)