Sarban, Il richiamo del corno

La questione del racconto Il richiamo del corno di Sarban è la questione del Richiamo del mito, che vale solo in quanto richiamo rivolto al protagonista Alan Querdilion, perché solo a lui può essere prevista l’estensione alla questione che prevede il Mito al potere e la questione dell’Epoca senza mito – che è tutto quello che può essere oggetto di un discorso anche scherzosamente critico, appunto di un gioco. Il mito è il pericolo: afferra come vento di ciò che Caccia selvaggia è stata una volta – e colui che è stato afferrato dalla nube del mito non è più lo stesso. La madre di Alan Querdilion dice che l’uomo Alan Querdilion, restituito dalla prigionia nei campi di concentramento tedeschi, non è più lo stesso di quello che era prima della partenza per la guerra. Questo porta a precisare la funzione della Madre, che comporta la funzione della falsa madre e la necessità di una rinascita da un’altra figura, che deve essere qualcosa come madre/sorella, figura che è valida solo in quanto figura ritrovata nel Nord. Secondo la madre, il figlio che è stato restituito non è lo stesso di quello che era prima della partenza della guerra: ma questo perché Alan Querdilion ha avuto una rinascita; la prima nascita, genericamente nell’Epoca senza mito, era una falsa nascita, la vera nascita porta all’Epoca senza mito, ormai riconosciuta come tale, che chiama la nuova epoca, che è l’Epoca del ritorno del mito, che scaccia la falsa madre.

La pericolosità del mito non deve servire ad accantonare il mito, come voleva prudentemente Jung, ma deve servire ad avere a che fare con l’incontro con il mito in quanto ciò che è pericoloso; poiché il mito è ciò che chiama; all’essere umano spetta soltanto rispondere al Richiamo del mito, quando ciò che è umano avverte la chiamata. Ma adesso vediamo che questa chiamata può avvenire solo in una terra-bolla soffiata per Ragle Gumm, zolla contraffatta che non è terra, noi infatti non abbiamo la forma che possa determinare storia alcuna del richiamo del mito.

I tempi di Alan Querdilion, che si determinano a partire dal mito, prevedono tre tempi: 1) il tempo che è al di fuori del mito – il tempo in cui egli ha condotto la sua vita prima della guerra, quando nulla sapeva del mito e che nel racconto non ha nessuna importanza; 2) il tempo del Richiamo del mito – il tempo trascorso nella zona-bolla; 3) il tempo del rilascio dalla zona-bolla, in cui egli ha conosciuto il ritorno nel luogo d’origine, che suona come Epoca senza mito – ma l’Epoca senza mito è il tempo in cui la terra deve diventare il luogo del Ritorno del mito. La prima epoca, quella in cui il personaggio non conosceva il mito, può essere lasciata fuori dal conteggio delle epoche, perché solo il tempo in cui si è conosciuto il mito – ma si riconosce da allora come Epoca senza mito – determina il conteggio delle epoche, perché è ciò che costituisce il richiamo per razza, che è allora ciò che può essere definito il pensare per razze.

La terra segregata è la terra dove Alan Querdilion si trova ad andare senza sapere di stare andando lungo la terra, al fine di avere esperienza del Ritorno del mito. L’incontro con il mito è l’esperienza della pericolosità del mito – l’entrata nella terra segregata è l’entrata nascosta. Alan Querdilion è colui che, per sua natura, accetta l’esperienza della pericolosità del mito. A differenza del dottore Wolf von Eichbrunn e delle infermiere della clinica, che si guardano bene dall’avere a che fare con il Conte Hans von Hackelnberg, Alan Querdilion vuole incontrare lo jarl, anche quando sa, secondo le parole del dottore, che questo può essere estremamente pericoloso per la sua vita. Hans von Hackelnberg, jarl e Hans von Hackelnberg hǫfðingi, è tornato alla tenuta di Hackelnberg. È tornato proprio per l’incontro con Alan Querdilion, che è il vero ospite di quella struttura, al quale egli deve presentarsi. La struttura è tenuta insieme, stando a quello che si evince dal racconto, dalla inconsapevole collaborazione tra falsi ospiti e vero ospite. Le persone che vengono presentate come ospiti della struttura sono in realtà falsi ospiti, persone portate a caccia senza sapere niente di caccia. Si tratta infatti di persone che, nulla avendo a che fare con la pericolosità del mito, devono essere tenute lontane dalla pericolosità del mito. La foresta funziona attraverso il doppio movimento del parco giochi per il pubblico dell’ozio, che trova selvaggina a disposizione con estrema facilità, e dello spazio aperto del Gioco in cui il vero ospite della terra è la selvaggina. La terra di Hackelnberg, che non risulta nelle mappe in possesso di Alan Querdilion, è appena in tutto un set, spazio giochi che comporta due facce: lo spazio in cui Alan Querdilion cerca di passare inosservato, confondendosi con la folla degli invitati, lo spazio in cui il Conte lo individua subito – perché nella lánghús dello jarl, Hans von Hackelnberg riconosce il suo Vero ospite dai suoi falsi ospiti, perché solo ad Alan Querdilion spetta l’esperienza del terrore del mito; avendo solo Alan Querdilion cercato lo jarl, giocando a nascondino con lui – perché solo Alan Querdilion ha riconosciuto lo jarl che tiene la festa nella langhús, in quanto hǫfðingi che lo riguarda, perché ha la sua collocazione nella Terra del Sacro; che è lo spazio in cui Alan Querdilion è il vero ospite, di cui questo racconto direttamente non parla, perché solo lo jarl ha la sua collocazione in quella terra.

A fare la differenza è il tempo, che segnala attraverso gli ospiti di Hans von Hackenlnberg il falso tempo, che è l’epoca il cui il mito è stato cancellato, dal vero ospite, che è il tempo in cui il mito deve ritornare, anticipata nel momento di colui che, ospite non invitato, anzi estraneo che si è intrufolato, accetta tutta la pericolosità dell’incontro con il mito. Ma lo jarl riconosce subito il suo vero ospite, perché solo il vero ospite riconosce la familiarità del mito e ha diritto di andare nella Terra del Sacro, e quindi lo invita a riconoscere, facendone parte, il vero spettacolo, per cui la caccia falsa si svolge di giorno, mentre la caccia vera ha luogo di notte.

Il tempo è proprio ciò che questo racconto presenta come salto lungo il tempo, che è il tempo del Narratore spaesato che incontriamo all’inizio e alla fine, quando è alla ricerca della gatta lungo il suo nuovo tempo.

Hackelnberg è la terra che Alan Querdilion ha creato in quanto Terra del Sacro. Terra che egli può legittimamente togliere ai falsi ospiti dello jarl. Così, andare nella terra fantasma di Hackelnberg, è andare nella Terra del Sacro, cioè dare di pazzo, ma andare nella terra che egli solo poteva creare in quanto tale, perché solo a lui era destinato il messaggio del ritorno del mito – che è ciò che costituisce la terra come Terra del Sacro e che annulla tutto il resto.

La paura di Alan Querdilion di essere pazzo non è che la sua incapacità di non riconoscere la differenza tra sogno e realtà nell’esperienza che lo ha coinvolto nella terra di Hackelnberg.

L’esperienza della Terra del Sacro è ormai l’esperienza dell’andare nella terra quando andare nella terra è solo andare nella Terra del Sacro. Questo perché solo colui che può andare nella Terra del Sacro ha accesso al luogo segregato come semplice andare nella terra, cioè come colui che non ha che terra dove andare. Da qui il richiamo del mito. Alan Querdilion, secondo quanto affermato dal dottore Wolf von Eichbrunn, è l’unico ad essere sopravvissuto alla scossa dei raggi Bohlen che proteggono quella zona.

Se il mito è per sua natura il pericolo, la pericolosità del mito urta la monotonia della realtà in cui Alan Querdilion si è trovato a comparire dopo il rilascio (che è la terra che il mito ha abbandonato, cioè l’Epoca senza mito, nella quale egli è stato rilasciato). Così il salto temporale è quello che non si riesce a comprendere come tempo tanto quanto come luogo.

Lo spettacolo è per sua natura legato alla cultura latina, il teatro, il circo è qualcosa che viene da lontano, che non appartiene alla terra della razza bianca in quanto ciò che nasce dalla terra della razza bianca, che è la terra che è stata presa: «Feci un passo in avanti e, sotto la luce delle torce, vidi una strana fossa ovale circondata da un manto erboso. Il Conte fece sedere accanto a sé il Gauleiter sul bordo interno della fossa, e il resto della compagnia si dispose a destra e a sinistra, sotto la guida discreta dei forestali. Io mi spostai silenziosamente verso un’estremità della fila e guardai giù. Le ragazze ora avevano inclinato le lunghe torce in avanti, in modo che sporgessero illuminando in pieno la fossa. Le sponde dovevano essere alte cinque o sei metri, ed erano rivestite di bianche assi levigate, mentre il fondo era ricoperto da un tappeto di erba ben rasata, e a ogni estremità c’era un’inferriata che chiudeva un passaggio sotterraneo. Era una specie di circo romano in miniatura, anche se semplice e rustico.» (Sarban, Il richiamo del corno, traduzione di Roberto Colajanni, Adelphi, Milano 2015, pp. 67-68). Il vero ospite, cioè Alan Querdilion, comprende lo spettacolo come falso spettacolo, cioè spettacolo destinato al meticciato, che è il destino della razza e lo interiorizza in quanto Cosa, mentre il falso ospite, che è colui a cui lo spettacolo non è destinato, lo rigetta in quanto cosa che non gli compete: «E vidi anche il nostro piccolo e grasso cacciatore del mattino [cioè il falso ospite] che se ne stava sotto un albero a vomitare miseramente, sostenuto da due guardie.» (pp. 71-72).

L’Epoca senza mito è l’epoca in cui veniamo a conoscere Alan Querdilion come personaggio apatico. Noi non possiamo sapere che cosa sarà l’epoca del Mito al potere, ma possiamo richiamare alcuni elementi di essa: lo jarl, la schiera, la festa nella Casa lunga – elementi che permettono di comprendere la nuova epoca come epoca di Mito al potere. Hans von Hackelnberg si richiama alla vera antica cultura germanica, ed è l’unico a creare lo spettacolo scenografico-barbarico, destinato a coloro che non conoscono la cultura antico germanico, non traendo da essa alcun beneficio, considerando che il concetto di “spettacolo” richiama ciò che non ha nulla a che fare con quella cultura, poiché il teatro, cioè lo spettacolo, è qualcosa che viene da un fuori estraneo alla cultura germanica. Ma lo spettacolo è rivolto a colui che, solo tra tutti, non conosce il mondo al di qua dello spettacolo, così come il Richiamo è qui ciò che è rivolto a colui che ha dimenticato, contrariamente a coloro che non hanno diritto a figurare come autentici ospiti della langhús intorno al tavolo dello jarl. Attraverso questa scenografia, ciò che si richiama all’antica cultura germanica chiama colui che poco sa di cultura antico germanica, ma pure riconosce il richiamo di quella cultura, e risponde a questo messaggio, perché lo riconosce come messaggio a lui solo destinato, recapitatogli apposta a casa. Questo perché il tempo in cui questo testo è stato scritto è il tempo del Richiamo del mito. Infatti colui che niente sa di questa cultura, è colui che solo può creare la Terra del Sacro, poiché solo a lui è rivolto il messaggio del Ritorno del mito.

Alla madre falsa incontrata nel Sud, risponde la sorella ritrovata nel Nord. La falsa madre non riconosce il figlio perché non è la signora della casa nella quale suo figlio torna. In realtà Kit è ella stessa un kit per sopravvivere alle insidie della foresta di Hackelnberg, che è la falsa casa nella quale Alan Querdilion si trova ad essere proiettato, ma funziona come via d’uscita per Alan Querdilion. Kit come un kit anziché la Cosa, essendo quella terra (Hackelnberg) una falsa terra, mentre solo nella Terra del Sacro può avvenire l’Incontro, che sarà allora l’Incontro con la Cosa. Nella terra messa insieme come terra del Gioco non si ha l’Incontro, che è l’Incontro con la Cosa, ma l’incontro con un kit, puro kit di sopravvivenza, che permette poi di abbandonare indenne l’area del Gioco. Christine North, detta Kit, è la ragazza che Alan Querdilion si trova ad incontrare nella foresta della Terra-Gioco. La consistenza di questa ragazza (fornire un kit) la si vede già nel suo nome per esteso: Christine North, punto irrazionale d’incrocio tra cristianesimo e paganesimo nordico. Quando, alla fine del racconto, ella si sacrifica per permettere il passaggio di Alan Querdilion, infatti lancia il richiamo: “Cross!” che richiama l’incrocio, vale a dire la maledetta croce del meticciato semita quanto l’attraversamento alla nuova terra che sarà allora la terra della razza bianca.

Hackelnberg non è la Terra del Sacro dove solo può avvenire l’Incontro con il mito, ma è la terra del Gioco: la nuova epoca è all’insegna del Gioco, anche se di essa conosciamo soltanto lo spazio della foresta. Ma la terra che chiama il suo abitante, nel tempo in cui non è più la terra a scegliere il suo abitante, è la terra che chiama per l’ultima volta il suo abitante, che è allora l’ultimo possibile abitante della terra, quando la terra è ciò che non ha più voce in capitolo. Questo comporta la determinazione di colui che la terra ha scelto come suo abitante, a pensare ad un errore della terra, perché ormai, la terra nella quale egli sta andando, è la Terra del Sacro, che solo lui, inconsapevolmente, ha potuto creare, che a lui rimane del tutto estranea, come terra nuova, perché ragiona in un modo del tutto a lui stesso estraneo, cioè incomprensibile, mentre egli è il solo a sapere che la terra dove solo può andare è la terra che ha disponibile solo come terra dove andare – così egli non deve rispondere all’Incontro, perché pensa ad un errore, perché non crede di essere in grado di creare la Terra del Sacro – anni spenti spesi in Epoca spenta, epoca senza mito serviranno a capire che quella era l’ultima possibilità che aveva la terra di chiamare il suo ultimo abitante.

La particolarità di Alan Querdilion consiste nell’essere colui che risponde al Richiamo del mito, ma anche il solo a cui il Richiamo è stato rivolto e poi di nuovo rivolto. È quindi il solo ad avere il Cuore di Leone necessario per rispondere al richiamo, che ha a che fare con la controterra che è ciò che ha a che fare Ragle Gumm. Avere il Cuore di Leone è confrontarsi con il Richiamo del mito nella terra-bolla nella quale si trova a sostare Alan, ma essere il nuovo Richiamo del mito quando sarà restituito alla sua terra ed epoca, che sarà allora l’Epoca senza mito. La gatta di cui egli è alla ricerca in casa, lungo la cornice del racconto, è la Rovina che richiama la costruzione completa, pensata come Rovina in quanto richiamo alla battaglia. La nuova luna non sarà allora caccia, ma ripresa della battaglia.

Le specie viventi che popolano Hackelnberg sono di tipi diversi: animali e forme intermedie create dall’uomo, animali che l’uomo ha trovato in natura, forme del tipo Jagdstück, che prevede la semplice maschera, quando “maschera” non è più ciò che si applica a ciò che è profondo, ma a ciò che viene chiamato a scorrere in superficie come puro gioco. Poi abbiamo le comparse come le infermiere, e il dottore, che funzionano in quanto pura manovalanza – il dottore affoga nell’alcol e nel cibo ciò che le infermiere considerano solo come obbligo al dovere. Invece gli animali che popolano la foresta di Hackelnberg rimandano a due tipi diversi: animali creati dall’uomo / animali che l’uomo ha trovato in natura. I cani da riporto e le “gatte” sono gli animali che l’uomo ha creato per il suo piacere. L’uomo ha creato il cane, che non esisteva in natura, così come ha creato il gatto domestico, per la sua ricreazione. La selvaggina (in quanto ragazze-selvaggina) riguarda il nemico per schieramento (che è ciò che riguarda la razza bianca); mentre il nemico di razza fornisce il materiale per la nuova schiavitù (che è ciò che riguarda il meticciato slavo e il meticciato latino). La caccia ha funzione di gioco e tutto ciò che riguarda l’esperienza di Alan Querdilion ha carattere di gioco, cioè di sogno giocoso.

Kit: «“Io non ho mai visto quelle donne-gatto, ma me ne hanno parlato. E soprattutto le ho sentite. Devono essere quelle operate, immagino”. E la naturalezza del suo tono mi turbò più delle sue parole. L’asportazione chirurgica da un corpo perfettamente integro di quell’elemento che gli conferisce la luce di un’anima umana per lei non sembrava una fantasia da incubo, ma pura routine.» (p. 87). Alan Querdilion dimostra il suo disagio per il salto temporale che lo coinvolge suo malgrado: la sua concezione del corpo umano è diversa da quella del kit di base; per quanto kit, Kit è una creatura della nuova epoca, diversamente da lui, che viene dal vecchio mondo, che niente sa della selezione delle razze, per cui intervenire su un corpo umano non è intervenire su un corpo umano qualsiasi, ma sul corpo di ciò che è il nemico di razza, di cui egli non sa niente. La divisione fondamentale viene allora mantenuta: slavi e latini intervengono come schiavi, con lievi modifiche, il loro corpo può essere alterato tramite operazioni; la razza bianca viene preservata, generalmente inserita in un programma di ricondizionamento, che prevede la maschera. Questa logica è pienamente accettata dalla ragazza, figlia della nuova epoca, ma è ciò che invece colpisce Alan Querdilion, figlio dell’epoca al di qua del Mito al potere, perché quello che a lui manca è un ragionamento sul concetto di “essere umano”, che è quello che lo colpisce solo di striscio – da qui il salto temporale: l’incontro non è l’Incontro, perché non è l’Incontro con la Cosa, che solo può costituire il vero incontro nella Terra del Sacro.

Che cosa vuole dire chiamare all’altra luna, che è ciò che lo jarl richiama come parametro per il nuovo incontro con Alan Querdilion, quando lo lascia libero di andare? «“Va’ pure” gridò. “Sei libero, per questa notte. Hans von Hackelnberg ora ti risparmia per darti la caccia sotto un’altra luna!”» (p. 105). L’altra luna è la terra straniera nella quale solo rovine possono chiamare alla battaglia, perché solo ciò che è stato costruito su una terra è ciò che è stato costruito con l’occhio alla Rovina, che riguarderà ciò che una volta è stato nemico di schieramento, ma che adesso riconoscerà la razza, che sarà la propria razza, e starà a lui suonare il nuovo Richiamo, per cui Alan Querdilion non sarà più selvaggina, ma Cacciatore selvaggio.

Se partiamo dal principio che è il mito che chiama, e non gli esseri umani a poter organizzare la chiamata del mito, allora gli esseri umani possono solo rispondere alla chiamata del mito, che è ciò che avviene attraverso la razza – per cui, mancando la razza, la chiamata del mito non è destinata al successo. Alla base del salto temporale c’è la volontà di non rispettare più quello che una volta era verità, perché la storia è aggirata in quanto non viene più rispettato il nocciolo che la manteneva in vita, che consisteva nella “verità”, che è ciò che comporta il principio del Gioco – allora il Gioco ha l’aspetto di un pericolo sospeso nel tempo, mentre l’inconsistenza del pericolo è il luogo dove Alan Querdilion è stato avvitato per l’ultima sua volta.

Per approfondire – oppure no:

Luca Leonello Rimbotti, Il mito al potere. Le origini pagane del nazionalsocialismo, Edizioni Il Settimo Sigillo, Roma 1992

Peter Longerich, Heinrich Himmler. A Life, translated by Jeremy Noakes and Lesley Sharpe, Oxford University Press, Oxford and New York 2012

Johann Chapoutot, Il nazismo e l’antichità, traduzione di Valeria Zini, Einaudi, Torino 2017

Philip K. Dick, Tempo fuor di sesto, traduzione di Anna Martini, Fanucci Editore, Roma 2013

Roberto Vannacci, Il Mondo al Contrario

Cito da una lettera di Nietzsche: «Da parte svizzera sono stato indotto a pensare che i numerosi, quasi sistematici fallimenti delle colonie tedesche o svizzere negli stati attorno a La Plata abbiano origine nel mescolamento delle nazionalità, vale a dire nella vita promiscua di elementi tedeschi e latini. Non si riesce ad avere un sentimento patrio, la sensazione di una casa, se si ha nelle immediate vicinanze la sporcizia italiana ecc.» (F. Nietzsche, Epistolario. Volume V, versione di Vivetta Vivarelli, Adelphi, Milano 2011, p. 136. Lettera del 2 gennaio 1886 a Bernhard Förster ed Elisabeth Förster-Nietzsche a proposito del progetto di fondazione di una colonia tedesca in Paraguay). Questo chiama il giudizio di valore applicato a ciò che attualmente viene definito il principio delle diverse culture, che devono trovare spazio nel mondo. [3, 8]

Guai pensare un’epoca la cui realizzazione non costerà la vita a milioni di persone – in quel caso penso possa trattarsi solo di porn-think. Ma questa è una mia opinione. Che in quest’epoca, fatta per non pensare, va comunque bene. [7, 2] La differenza è la differænza che non trova ascolto tra ciò che ha diritto di vivere e ciò che non ha diritto di vivere.

Il pamphlet arcigno è soggetto ad uno scacco: è qualcosa che deve essere posto in pratica, e ricorda troppo qualcosa come il programma di un partito politico. Per questo, quello che in esso compare, deve essere considerato con attenzione; per questo il libello di Roberto Vannacci ricorda i libelli di Michela Murgia, nonostante l’opposta denotazione politica. Forse la questione è chiedersi perché, ciò che è stato pensato, debba infine essere messo in pratica, quando la perfezione di ciò che è stato pensato dovrebbe consistere nel rifiuto di ogni messa in pratica?

Dico che quello che manca è qui il grande disprezzo – di nietzscheana memoria.

Gli italiani sono per natura meschini, antipatici, ignoranti, litigiosi, infidi, bastardi, froci, maschilisti, schifosi, noiosi, puttanoni, idioti. Il loro profilo su FB più azzeccato sarebbe, d’un colpo, il Gruppo costituito intorno a quel Calandrino del Decameron, laido figuro messo insieme da quel meticcio italiano che era Giovanni Boccaccio messere (ma a quei tempi internet sonava a prime sue novelle armi, per cui non si può accusare il meticcio italiano Giovanni Boccaccio messere di aver cagato il suo testo in totale solitudine e di essersi poi dato alla macchia, non essendoci allora delle vere latrine pubbliche con collegamento a internet – parlo di Internet WC – loco concluso per permettere a quel bastardo di italiano che era Giovanni Bocaccio messere di segnalare più di tanto – qualcosa del tipo: “Qui merda!”). Così quello che il meticcio italiano Giovanni Boccaccio (bastardo di italiano) ha cagato in solitudine non è altro che un vecchio mucchietto di merda apprezzato da un naso esperto come quello di un altro meticcio italiano, il meticcio italiano – e finocchietto – Pier Paolo Pasolini: Calandrino, questo migrante per vocazione, vale a dire migrante per razza, ha avuto vita extra lunga, perché condotto ha a Pierino, e alle sue tante barzellette radicate nelle caserme del fosco meticcio diabolico italiano (bastardo di italiano), loco ove meticcio italiano grama sua vita mena (porca l’anima sua, bastardo di un italiano che è). Perché meticcio italiano è per natura sua vigliacco, antipatico, ignorante, litigioso, infido, bastardo, frocio, maschilista, schifoso, noioso, puttanone, idiota.

Il migrante deve essere respinto, perché è ciò che è stato messo insieme per non rispettare la terra. Ma il migrante è l’altro a cui ciascuno dà albergo in sé senza rendersi men conto di ciò. [3, 7] L’altro è ciò che sta dentro come cosa più picciola che si è menato dentro, chissà perché, come il meticcio italiano.

“Guai a colui che alberga in sé deserti” è l’avvertimento che i pamphlettari bipartisan mai tengono in considerazione. Noi pensiamo la terra solo come terra dove andare. Non pensiamo la terra come ciò che chiama il suo abitante.

Solo in una determinata condizione la terra diventa terra dove andare: quando andare nella terra è andare nella Terra del Sacro, ma questo comporta la scelta da parte di colui che ha diritto ad andare nella terra. [2, 6]

Può, il discorso di Roberto Vannacci, esposto nel libro Il Mondo al Contrario, portare a pensare per razze, che pure è quello che il libro, per qualche ragione, sembra non volere mai fare? Solo la razza bianca abita la terra, perché solo nella razza bianca si è determinata la trattazione filosofica dell’abitare la terra. Noi pensiamo la terra solo come terra dove andare, non pensiamo mai la terra come terra che chiama il suo abitante. Miguel Serrano parlava delle vibrazioni della terra che permettevano a un gruppo di installarsi su di una terra, ma impedivano a un altro gruppo di installarsi su di essa. Lovecraft parlava delle vibrazioni negative che rimanevano nella terra occupata dai nativi americani, e che portavano quella terra a chiamare le forze del male in essa rimaste. Ma le forze del male agiscono solo nella razza degenerata, così Lovecraft parla dei degenerati italiani, spagnoli, greci, orientali, ebrei (ciò che egli, con felice espressione inclusiva, definiva il meticciato “italo-mongolo-semita”, vale a dire ciò che era degno di essere fatto fuori con il gas). La differenza è proprio in quelle sottigliezze che dimostrano l’accettazione, già allora del tutto avvenuta. Qual è la differenza? il discorso che fa capo al pensare per razze, sostengo io. Non c’è discorso sulla razza se non c’è grande disprezzo. [5, 10]

La Nuova città è il nuovo mondo.

Nel gruppo possono rientrare i libri di Michela Murgia di non narrativa. L’intento è lo stesso: il luogo comune come motore dell’opera. Il carattere satirico del pamphlet, che ha contribuito a creare testi come Francesi, ancora uno sforzo di Sade e Una modesta proposta di Swift, cede qui il posto a mesta trattazione arcigna, volta a stucchevole indignazione. È l’epoca in cui gli dèi non ridono più sulle miserie de la razza umana, ma solo spicciole Madonne bifolche vengon spinte avanti a calci sovra palco a pianger sangue da occhi per masse di bifolchi itali e slavi (cioè davanti al meticciato d’Europa – che niente ha a che fare con l’Europa).

Men che mai Patria fu loco alcuno di scelta, ch’io rammenti: Roberto Vannacci cita profumi, sapori che costituiscono l’insieme di gruppo ove l’individuo ha loco suo di mala origo (maledetto italiano, shitalian, merdìtalo). È la scelta a costituire un individuo parte di gruppo uno e di sue diverse tradizioni. Questo è ciò che mena poscia al concetto di Terra del Sacro. Il luogo d’origine è allora la Terra del Sacro, che meno che mai può portare a coincidere con propria landa sua. Allora il rispetto verso il luogo d’origine si avrà nella tensione che pone il luogo dove quell’individuo ha avuto origine e la Terra del Sacro, che egli avverte come propria sua legittima origine. [Coppia 2]

Il sacro è scelta che tende alla razza, il meticciato è ripetizione golemica di luoghi comuni.

Il buonsenso dimostra che il sole gira intorno alla terra, la quale giace piatta sotto uno solo sole sempre di bruta fiamma lampante. Ma mi sa che Lukács György, se pensiamo così, ce l’aveva proprio duro – in quanto a ragione. [Capitolo 1]

In Occidente il discriminate per un pensiero di destra è l’appartenenza alla razza bianca. Comunque li si acchiappino, questi bastardi di italiani di merda (posto che esseri così unti e sguscianti possano infine essere presi ad un cappio) non sono un gruppo di razza bianca, sono un gruppo di meticci come i messicani – così qualunque italiano di destra deve partire facendo un discorso sul meticciato, cioè su ciò che è la propria antirazza. Un preciso discorso sul meticciato del proprio paese è presente in Miguel Serrano (Miguel Serrano, Adolf Hitler, l’ultimo Avatara, 2 volumi, traduzione di Nicola Oliva, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2010) dove Miguel Serrano insiste su un punto fondamentale: in Cile non si può parlare di razza: «parlare nel Cile di razza, lo sappiamo, significa menzionare la corda in casa dell’impiccato.» (p. 574). Qualche pagina dopo, insiste: «Io non penso, infatti, che si possa parlare di una “razza cilena”. Vero che esiste, o esistette un marcato “spirito nazionale” presso di noi, influenzato dal paesaggio di questa terra mistica; ma una razza cilena non esiste e non esisterà mai. […] Ciò che c’è qui, o ci fu, è un “meticciato regolare”.» (p. 557). Nei suoi pochi secoli di vita, dal punto di vista razziale, il Cile non ha mai avuto scampo: «[…] perché mai ci fu una razza cilena. Ci fu solo un meticciato in decomposizione. Il suo ciclo si è compiuto.» (p. 604). Il discorso sulla razza è il punto di partenza di ogni discorso che possa pretendere di presentarsi come discorso di un pensiero di destra. È solo la razza a rendere vero un discorso. Che è ciò che deve portare al discorso sulla razza bianca, cioè alla saga, che è il dire che è la storia in quanto suo dire. [Cap. 12]

Il Mondo al Contrario è l’epoca dello sfaldamento globale, che porta al non-dominio, che è il condominio che sceglie di non dominare il mondo, con tutte le conseguenze che questo comporta.

La domanda filosofica che deve essere posta, suona allora come domanda del tipo è: “Perché l’uomo non vuole più dominare il mondo?”. È da questa domanda che dobbiamo intendere la distanza che ci separa dal pensiero di Nietzsche, che aveva pensato la questione – per cui noi adesso pensiamo in un modo diverso, cioè pensiamo di non avere più accesso al pensiero, quando pensiero è il pensiero che deve aprire al dominio del mondo.

L’uomo tornerà ad essere padrone del mondo quando avrà chiuso con la fase della propria storia che lo ha visto in ascolto delle ideologie semite (tanto nella forma delle religioni cristiane e islamiche, quanto nella forma del socialismo), ma per essere di nuovo padrone della vita sulla Terra, vale a dire determinare a chi spetti il diritto di vivere, l’uomo dovrà porsi il problema di scegliere a chi spetti il diritto di vivere perché solo allora l’uomo sarà di nuovo pronto per il grande gioco del mondo, forse il gioco più inutile, che ha sempre determinato uno scopo: dare al mondo una delle forme possibili tra le tante, ma che potrà comparire solo facendo sparire una parte degli occupanti delle tante altri parti del mondo.

Tipico del libello arcigno è sempre il volere torcersi indietro, perché la felicità è sempre in un periodo passato al quale bisogna fare ritorno con un progetto politico.

Si torna indietro al periodo dei padri e dei nonni, mai al tempo dei figli, come invece già chiedeva Zarathustra (e qui devo di nuovo tornare a Nietzsche).

Che cosa vuole dire pensare per razze? Dante era un meticcio (un meticcio italiano – si potrebbe precisare, anche se qualunque meticcio è uguale ad un altro qualunque meticcio). Il meticcio italiano Dante non aveva nulla a che fare con la razza bianca. Chaucer era un poeta della razza bianca, non aveva nulla a che fare con il meticcio italiano Boccaccio, autore del Decameron. Pasolini era un finocchietto e un meticcio italiano puranco – italiano e di sinistra, e ha tratto quel film che solo un meticcio italiano poteva trarre da quella vecchia, imbacuccata cosa de la maledetta Italia, vedendo lungo: Dante, Boccaccio e Pierini vari… (Questo è ciò che solo un vero bastardo di italiano vero può fare.)

Quello che nel libro Il Mondo al Contrario viene vista come Patria è quello che i programmi Tv di cucina propinano nel mondo come “cultura” della maledetta: profumi d’Italia (l’Italia è solo “maledetta Italia”), sapori d’Italia (l’Italia è solo “maledetta Italia”) che hanno insegnato le nonne d’Italia – modi di dire, di giudicare che hanno insegnato padri e nonni d’Italia (= bastardi di italiani).

Andare nella Terra del Sacro è incontrare l’Altro, che la differenza tra uomo e donna determina a livello di terra, che si fa allora Terra del Sacro, questo perché è la terra a chiamare il suo abitante e non l’individuo a scegliere la terra dove andare. La questione dei “migranti” non si pone, in quanto tale, se si pone la questione di coloro che abitano la terra, di coloro che occupano la terra, di coloro che scorrono la terra. “Abitare la terra” è una questione filosofica che ha riguardato la razza bianca, perché sviluppata soltanto nella filosofia di Martin Heidegger. [3, 7; 3, 8]

Ogni movimento nella terra è sempre questione di spostarsi dalla terra infestata dal meticciato alla Terra del Sacro, dove comunque il meticciato è arrivato, ma ciò che, grazie ad un sigillo, viene determinata come Terra del Sacro. Lentamente, si manifesta ciò che è terra, lentamente si manifesta il sacro nella terra.

C’è differenza tra la Germania dei contadini di Heidegger e l’Italia di uno sporco meticcio italiano qualunque (come il meticcio italiano Beppe Fenoglio, cantore dei contadini della maledetta Italia). I cambiamenti climatici non hanno fatto altro che confermare la natura africana dell’Italia – e confermare quanto l’Italia sia una minaccia per l’Europa di razza bianca. Ma l’Europa è solo la fragile creatura della razza bianca, così come l’Italia è lo sputo malamente tirato fra Africa ed Europa – non è Africa e non è Europa, ma è più Africa che Europa. [Coppia 2]

Quanta passione, forse devo riconoscere, in questa recensione che si presentava, al suo inizio, come “scherzosa”… niente di più. Meglio così, la passione che porta in alto, in avanti, non si sa dove, è sempre benvenuta, la “passione” che porta all’epoca di nonni e padri è un intoppo, ma un intoppo alla Ragle Gumm, mi viene da suggerire. L’autore del pamphlet arcigno è sempre un Ragle Gumm ormai attempato ormai arcigno, che si muove in una dimensione che gli sta stretta.

Se è vero che il procedimento attivo nel Mondo al Contrario tende a far apparire normale quello che normale non è, è anche vero che la messa in pratica non ha mai suscitato gravi disagi in chi ne è risultato poi la vittima, per cui l’argomento deve essere affrontato da un altro punto di vista.

Cosa distingue il gioco dalla serietà? Il fatto di poter annullare i risultati alla fine del gioco. Il gioco considera la morte come parte di un gioco.

Beppe Fenoglio: la Resistenza chiama la commedia all’italiana. Ma questo può funzionare solo perché l’Italia non è terra, bensì antiterra; e gli italiani non sono popolo, bensì antipopolo. È finito il tempo dello scrittore, ma non comincerà mai il tempo della antiterra. Che cosa fare della terra abitata dalla antirazza, una volta che l’antirazza sarà stata legalmente tolta via dalla terra? Questo non è il tempo del grande disprezzo, e nessuno sarà mai chiamato a odiare l’Italia, cioè il meticciato.

Sapete che vi dico? Ormai lo scrittore ce lo sogniamo, dobbiamo abituarci al tempo dei pamphlettari – una volta di destra, una volta di sinistra. Come una volta il tempo degli assassini, anche quello degli scrittori è finito – dobbiamo prepararci al tempo dei pamphlettari.

Il Mondo al Contrario, spesso accusato di essere un libro sciatto, potrebbe invece rivelarsi come un libro organizzato con attenzione secondo una formula del tipo: “1 + (5 + 5) + 1” che chiama ad una alternanza. Il primo capitolo (Il Buonsenso) e il dodicesimo (L’Animalismo) stanno ai limiti: il primo capitolo stabilisce il modo in cui sarà indagata la materia; l’ultimo capitolo esce da ciò che ha costituito l’argomento del libro – la società umana – per indagare un aspetto di questa società: il modo in cui tale società si rapporta agli animali. L’animale è posto al guinzaglio, senza dare all’animale la possibilità di fare a meno del guinzaglio. Gli altri dieci capitoli si organizzano allora in cinque coppie: Ambientalismo e Famiglia, Energia e Patria, Società multiculturale e multietnica e pianeta lgbtq+, Sicurezza e Tasse, Casa e Nuova città. Ma è possibile ricavare da ciò una forma? Il libro è stato pensato in base a una forma precisa, o scritto semplicemente capitolo dopo capitolo senza avere presente una forma? Non so, ma tutto ciò che rimanda al dodici è roba mia.

Andare nella Terra del Sacro è incontrare l’Altro, che è allora la Terra del Sacro, non solo il suo abitante, quando la Terra della Sera è solo terra dove andare. Ma andare nella TdS è andare nella terra che è stata contaminata dalla presenza dell’altro che non è legato alla terra, e che vede la terra solo come terra dove andare, cioè il migrante. Compito degli umani non è difendere la terra, affinché torni ad essere la terra dell’altro, che non è mai stata, ma difendere la TdS dall’assalto dell’altro. Così l’incontro con l’Altro salva il mistero del mondo, perché non esiste problema dell’Altro, quando l’Altro è ciò che accoglie nella Terra del Sacro, che non implica mai pericolo per ciò che è TdS.

In realtà, agli umani spetterà il compito di distruggere, in un modo o nell’altro, quanto è stato occupato dal meticciato – problema mai considerato finora. Ma la questione allora sarà: che cosa fare del terriccio rimasto come terra dopo che ciò che occupava quella terra sarà stato rimosso?

Questa è l’epoca in cui a gran voce bisogna parlare del meticcio italiano, che pure si presenta come la cosa che non deve avere voce, perché se solo nell’umano è il rispetto per la terra, allora solo nella razza bianca è il rispetto dell’umano. Ma questo porta al paradosso di non prendere mai la Terra – da parte di colui che la Terra aveva scelto come proprio abitante. Perché il vero abitante della terra deve essere colui che non è nato nella terra. Sarà allora pronto, l’uomo, ad affrontare questa differænza?

C’è un punto in cui Il Mondo al Contrario ha visto giusto, questo: «Nella maggioranza dei casi, poi, gli incontestati amici degli animali estenderebbero questo velo di protezione solo ad alcune specie: soprattutto agli animali domestici e da cortile; probabilmente a tutti i mammiferi; alcuni salverebbero anche gli uccelli… ma quasi nessuno se la sentirebbe di manifestare a favore degli insetti, soprattutto se si tratta di zanzare, blatte, pulci, pappataci o larve parassite dall’apparenza ributtante. Eppure, secondo logica, anche loro, in quanto appartenenti al regno animale, sarebbero soggetti giuridici dello stesso diritto.» (p. 344). Ma questo riguarda proprio ciò che Il Mondo al Contrario vorrebbe mettere al sicuro: gli italiani, che possono entrare in un discorso solo come insetti, perché hanno l’ottusa moltitudine degli insetti di cui parlava Hillman, cioè sono scarafaggi africani e niente di più.

Quello che Il Mondo al Contrario centra è ciò che in esso era stato posto in causa come ciò in cui esso si poneva come richiesta di ciò che, nel suo dire, si poneva come domanda relativa a ciò che, in esso, c’entra.

Così noi tutti conosciamo il puttanforme genio delle molte Italie di merda: Dante era un “poeta” mediocre e islamista di “genio”, che ha visto, bastardo lui di un italiano di merda, il terrorismo islamico della nostra epoca; Leopardi era un imbecille paroliere idiota e parassita, che ha visto, bastardo lui di un italiano di merda, i pamphlettari della nostra epoca, di destra e di sinistra, tutti all’opera come deformi genietti gobbetti malefici come egli stesso era allora dentro la sua casetta; Boccaccio era un comico di basso infimo livello, bastardo lui di un italiano di merda, ma genio del marketing, che ha visto i cinepanettoni della nostra epoca, quando il cinema non era ancora qualcosa nell’orizzonte dove andare quando non si aveva niente di meglio da fare; Monteverdi era un genio, ma sempre bastardo lui di un italiano di merda, che aveva solo genio da mandare nella nostra epoca, che si scontra con il tempo che non vuole più avere niente a che fare con il meticciatoe questo non deve impedire di riconoscere nel meticcio italiano parte di ciò che deve essere completamente eliminato, per cui è giusto, prima di tutto, fare fuori il grande genio di Monteverdi, italiano di merda.

Giorgio Scerbanenco – Duca Lamberti

Se esiste la narrativa nera, allora potrebbe anche esistere, in una pura quanto onirica forma, la saggistica nera – fermo restando che, essendo la narrativa nera la rappresentazione di una società colta lungo la via di una sua problematica, quanto irreversibile, espansione, che si potrebbe anche definire sviluppo, allora la saggistica nera non sarebbe altro che la possibilità di una espansione lungo la linea, altrettanto del tutto problematica, di un pensiero mantenuto lungo una linea affatto divergente, cioè di uno sviluppo che va a parare nel punto dove nessuno se lo sarebbe mai immaginato, né tantomeno augurato – e questo è proprio il bello della musiliana arte della possibilità, che capo fa a Musil (Robert, lo scrittore), che in questo caso viene evocata come possibilità dell’arte della saggistica nera, di cui qui si presenta una possibilità, fra le tante, dove andare a parlare, a svantaggio di tante e tante altre cose nonché cosette… – per cui, ad ogni modo, posso sostenere che questo testo sia un primo piccolo esempio di possibilità di saggistica nera – fermo restando che, se la narrativa nera ha a che fare con personaggi, la saggistica nera ha a che fare con la comparsa di spettri di personaggi, mentre nell’uso della parola, vale a dire della parola isolata, curiosamente spiccata nella sua forma più materialmente fonica, ritengo sia qualcosa che abbia a che fare con il teatro della crudeltà di Artaud così come considerato da Derrida: e a questo punto si può cominciare – per quanto allora si potrebbe sospettare, alla base di tutto, un idealismo antiumanistico, che non risolverebbe niente, ma aprirebbe il campo a imprevedibili, nuovi, affascinanti, graziosi, illimitati… campi di tanti studi diversi: se un Autore è ciò che da sempre è stato morto, affrontare un autore è affrontare ciò di cui non si ha idea alcuna, in quanto idea che ha la morte come proprio nucleo, che lo detiene in quanto luogo dove tutto è possibile – e così scrittore è colui che ha a che fare con tutte le parole del mondo, perché lasciato solo tra tutte le parole del mondo, di colpo – mentre la critica è ciò che deve rispondere ai colpi delle tante grammatiche diverse, mentre la narrativa nera non è allora altro che uno scherzo – quando l’arte del romanzo non consiste solo nell’arte di creare personaggi nel romanzo, ma anche nella possibilità di vedere personaggi in quell’arte del romanzo che non avrebbe mai pensato di imporsi per vedere personaggi là dove dei personaggi possono essere visti, per cui, a questo punto, si può fare centro toccando il punto più lontano dal bersaglio, che è dove ciò che, non centrando, c’entra il bersaglio, che è appunto ciò che entra al di sopra dei carri che sfilano nella festa del tempo di Carnevale, che è ciò si stenta da sempre a buttare fuori dall’Europa, cioè, prima di tutto: le carcasse di ciò che riguarda ciò che ha sempre contribuito a costituire ciò che è “italiano” – questo è quello che posso dire, essendo convinto di non avere la mentalità dell’intellettuale, ma di avere la mentalità dell’assassino.

Apertura alla “questione Duca Lamberti”

I quattro romanzi di Giorgio Scerbanenco che hanno come protagonista Duca Lamberti presentano il passaggio verso una criminalità organizzata che, in Italia, attraverso i suoi personaggi, si presenta come indiretto orgoglio di “razza” (che è autentico riconoscimento di antirazza): infatti in Venere privata la mafia si presenta come il pieno orgoglio di ciò che è italiano, perché è giusto sia così: il mafioso non è più il “meridionale” ignorante, il terrone, ma il frutto dell’ammuffito terriccio d’Italia, dell’Italia vera – l’Italia maledetta, cioè la cosa che può scorrere e occupare il mondo in base alle proprie attività sempre più ferocemente criminali; contrariamente a quanto ha composto Sciascia, che ha sempre limitato la mafia a quanto gli è capitato di vedere come ciò che capita e ricapita nell’isola dei Siculi, che, letterariamente, egli ha sempre e solo calpestato, senza mai metter piede nella maledetta Italia – distesa al di fuori della maledetta Sicilia (l’isola dei Siculi).

Il silenzio che è alla base della parola della poesia come risposta a un Silenzio che chiama, ha la sua controparte nella poesia come mucchietto di vecchie parole che è la poesia della cosiddetta “letteratura italiana”, passando per il vuoto che è il terriccio meticcio che l’Italia fece, sparso come loco, concime maledetto, dove essa, la maledetta Italia, è passata nel mondo.

Dal piccolo criminale, tipo il Vautrin della grande letteratura, si passa alla grande organizzazione criminale, dove l’individuo scomparisce – e dall’individuo si passa alla razza per quanto non ci sia ad aspettarlo nessuna nova forma di romanzo de la razza, e campeggia il vuoto di terriccio che malamente appena regge l’Italia, ma dove la maledetta Italia della malora, della malerba e della malombra, è stata saldamente impiantata sulle sue gracili storte maledette zampette. Il criminale non è più colui che si oppone con eroismo da romanzo alle leggi, come ha fatto Jacques Collin, bensì colui che accetta in silenzio l’affiliazione alla propria razza degenerata (che è antirazza), come il Turiddu di Traditori di tutti, che è nato in Belgio, o il fratello omonimo (cioè i due fratelli che rispondono al nome italiano di Franco Baronia, uno che rispetta la legge, l’altro che schiva la legge come schiva la morte) del romanzo I milanesi ammazzano al sabato, quindi accetta la propria degenerazione come accettazione della propria avventura di razza, che è antirazza, cioè il proprio essere nel mondo come essere nel mondo che è l’essere parte dell’antirazza – che, a tutti gli effetti, è nel mondo.

Così vediamo adesso che i grandi capi di mafia hanno accettato per lungo tempo di vivere nascosti in piccoli spazi ricavati nel terriccio profondo della maledetta Italia. Perché l’Italia è solo terriccio per la maledetta Italia dove è possibile scavare buche in cui stare nascosti per capi mafiosi, ma non è terra dove pensare di abitare. Un abbozzo di letteratura dovrebbe mostrare come l’Italia impesti il mondo con Dante, Boccaccio e tutti gli altri suoi disgustosi parolieri seriali (Marco Polo, Ariosto, per dire i più vicini che mi vengono in mente, ma non bisogna dimenticare il meticcio italiano d’Annunzio, nato Rapagnetta), anziché con i suoi disgustosi criminali mafiosi più lontani, catturati in pertugi scavati nel terriccio dell’Italia che non c’è. Se noi ora sappiamo che d’Annunzio e Pasolini erano due disgustosi meticci italiani, non abbiamo, per questo, una letteratura della razza. Ogni scrittore italiano è un disgustoso meticcio, così come ogni italiano è un disgustoso meticcio.

Non il piacere di leggere, ma il vizio di leggere è ciò che può chiamare nuove aperture a fianco dell’arte di leggere, perché queste devono sistemarsi in un progetto di arte della clausura, come solo il castello inaccessibile immaginato da Sade può allora immaginare di dire.

In quei buchi nel terriccio gli italiani sono stati catturati, ma anche fossero stati uccisi (divenendo così, a tutti gli effetti, carcasse di italiani), niente nella cosa sarebbe cambiata, perché gli italiani sono sempre cose destinate al terriccio, che possono essere tirati fuori in forme di cose viventi o in forme di carcasse, mentre rimane tutto da determinare cosa succede nella frazione d’istante in cui essi sono insieme italiani vivi e italiani carcasse, cioè morti. È in questa frazione di istante che è possibile la saggistica nera.

Da qui il punto di svolta del discorso: in che cosa consiste la differenza tra letteratura e paraletteratura? La letteratura è ciò che accetta i punti interrogativi e l’incertezza di ciò che l’Autore (almeno dove dovrebbe imporsi come tale); la paraletteratura è ciò che meno che mai considera l’esistenza di punti interrogativi, ma non toglie la possibilità di inserirli nel testo che più fa capo all’autore. Considerando questo punto di vista, la paraletteratura è sempre un bluff, che poggia se stesso sotto la pioggia di un gioco della sicurezza.

L’Autore è quella cosa contraddittoria che permette di chiamare tutte le parole del mondo per dire quello che l’Autore ha invece racchiuso nella propria opera come scelta di parole tra tutte le parole del mondo a disposizione.

Di un Autore si possono dire tutte le parole del mondo perché l’autore è il Niente che chiama il vuoto.

Da questa formula si può impostare il gioco tra Georges Scerbanenco e Giorgio Simenon come campioni della letteratura di consumo, ma considerare anche Sciascia, cioè l’uso da parte di Sciascia della narrativa di tipo poliziesco: Sciascia ha mostrato sempre la mafia come fenomeno esclusivamente siciliano – senza mai fare il salto di qualità comparabile a quanto ha fatto la mafia, cioè il brutto salto di qualità che porta alla maledetta Italia; che comportava il passo oltre la maledetta Italia, cioè il vasto mondo che l’Italia ha – vittorialmente – da sempre, dannunziamente, impestato, perché su questo non devono esserci dubbi: l’Italia non ha impestato il mondo con mafia e spaghetti – ma lo ha impestato con Dante e Boccaccio e d’Annunzio altresì, perché è di agenti impestatori che si deve cominciare a parlare quando si parla di maledetta Italia, cioè del meticciato, che è ciò che, in alcuni casi, diventa il meticciato italiano. Chi dice che l’Italia ha impestato il mondo con mafia e spaghetti, è sfrontatamente dalla parte degli impestatori del mondo, cioè dalla parte del meticciato.

Arcipelago Gulag di Solženicyn è l’espressione più pura di ciò che Sciascia non è mai stato pensato di portare ad espressione: «Erano ancora dei russi ed erano più o meno in grado di capire le più semplici frasi russe come “è permesso?”, “permettetemi una parola!”. Ma quando stavano seduti come ora, fianco a fianco, dietro un lungo tavolo, e ci mostravano le loro facce bianche tutte uguali, pasciute, felici, prive d’ogni pensiero, era chiaro che erano tutti degenerati da tempo in un tipo biologico a sé stante, e che l’ultimo legame fra di noi era stato definitivamente troncato – non rimanevano che le pallottole.» (II, p. 343), mentre Sciascia ha sempre rappresentato la mafia in giallo come questione del tranquillo folklore locale sotto il sole color di giallo e il mare color di vino. Notare che Solženicyn parla di un tipo degenerato in un tipo a sé stante nel tempo: il tempo degli assassini porta il tempo delle pallottole chiamate da Solženicyn.

Il saggio di Sciascia sul romanzo poliziesco presenta la questione: il romanzo giallo è un romanzo che non porta il lettore a pensare; ma trasporta invece quello che il lettore deve cominciare a pensare (nonostante nessun romanzo, che io sappia, lo dica), cioè il fenomeno della degenerazione razziale.

Ricordare Candido in Sicilia. Sciascia ha sempre pensato in piccolo. Non ha mai visto la mafia come questione nazionale, tantomeno la criminalità come questione di degenerazione razziale.

Solženicyn ci parla di degenerazione razziale, Sciascia di folklore isolano: è in questa forbice, che dalla maledetta Sicilia apre alla stramaledetta Russia (dal sud d’Europa – che è quasi Africa, all’est d’Europa, che è quasi Mongolia), che è del massimo interesse la posizione assunta dai quattro romanzi che compongono il ciclo di Duca Lamberti di Giorgio Scerbanenco, che comprendono gli stessi confini della maledetta Italia: a Sud con l’Africa, ad Est con la Mongolia.

A Sciascia è mancato il passo lungo, per bypassare il ponte che avrebbe posto fine alla Sicilia come isola che non c’è alla terra che non c’è (cioè la maledetta Italia).

Gli italiani sono la massima espressione di degenerazione della razza bianca e il loro modo di stare nel mondo è il modo criminale di stare nel mondo di una razza che manifesta se stessa soltanto in quanto antirazza, cioè come Altri hanno definito questo essere nel mondo, “vita indegna di vivere” – perché il crimine è nella vita di quella razza così come nella vita delle altre razze criminali di tutto il vasto mondo. La questione di vita o di morte non si gioca più a livello di individuo, bensì a livello di razza. Il crimine è la cosa che insiste pur non dovendo esistere, tantomeno consistere, così come la compagine dedita al crimine è la vita che si manifesta a tutti gli effetti come vita indegna di vivere, e che deve essere abbattuta. Ora e sempre.

Il meticciato italiano è ciò che striscia in Europa, che è la terra della razza bianca, in quanto bava uscita dalla tomba che riguarda il meticciato slavo e il meticciato latino, così come la questione di vita e morte è ciò che riguarda la questione che è da prendere in mano, e che riguarda chi ha diritto di vivere e diritto di morire, cioè di chi è chiamato ad abitare la terra, dando la caccia a chi si nasconde nel terriccio, come di ciò che non ha diritto di vivere, per essere abbattuto.

La questione di Delitto e castigo – che si pone come la questione di eliminare un individuo potenzialmente dannoso alla società – ma da parte di chi?, questo tema il romanzo lo suggerisce appena – da parte di un individuo qualunque (da qui il problema: stabilire a chi spetti il diritto di vivere e di morire è una questione che lo Stato deve considerare) si pone allora come la questione che deve condurre alla nuova questione “Delitto e cancellazione”: cioè cancellazione del delitto che pone la razza come proprio obiettivo, e non più la singola usuraia-pidocchio; l’individuo vede il suo simile, che comprende pure il pidocchio; mentre la razza vede la razza che è l’antirazza, questione che apre le porte alla eliminazione delle razze dannose al genere umano, per la cui eliminazione non deve più esserci castigo da scontare, se mai premio da conseguire – ma questo comporta il passaggio dall’omicidio privato al genocidio come compito che resta completamente a carico dello Stato – che ha pensato la propria funzione nel mondo e accettato poi tale funzione (se è una questione di “angoli morti”, cioè di punti di vista, ciò di cui si viene chiamati a parlare) – e che comporterebbe la restituzione al genocidio della sua innocenza.

GS avverte questo passaggio, cioè la nuova forma che si sta profilando, restituendolo in forme di personaggi enigmatici nella prima opera del ciclo (DL1: “l’invertito”, “il mutante”), ma profilando la nuova forma (DL3, la Serie) come nuovo tempo di organizzazione.

La razza italica, come ogni razza degenerata lasciata in vita (per quanto “vita indegna di vivere”), vive sfregiando la bellezza del mondo: è quello che vediamo nello sfregio del volto del personaggio di Livia Ussaro. La bellezza viene sfregiata mentre continua a restare nel mondo perché solo così può esserci ancora “mondo”, perché aver lasciato nel mondo l’antirazza (= la vita indegna di vivere) è ciò che dà ombra per sempre alla bellezza del mondo, ma spinge vitalmente a trovare il modo di togliere la vita alla antirazza, cioè alla vita indegna di vivere – ricordare che la mafia è alla base di quel marchio. Duca Lamberti al mafioso italiano: «“Naturale, ti hanno insegnato l’anatomia dei muscoli facciali, il punto dove incidere e il tipo d’incisione da fare, quella a M per esempio non si accomoda più con nessuna plastica.” Cose che gli aveva spiegato suo padre, quando lui aveva messo i calzoni lunghi e finalmente il padre aveva potuto parlargli della Mafia. Non avrebbe dedicato un solo minuto a tutta quella storia se non avesse sentito che c’era lo stile violento e spietato della Mafia.» (DL1, p. 168).

Lasciare in vita la vita indegna di vivere è permettere lo sfregio della bellezza, perché lasciare in vita ciò che è dovere di essere condotto all’annullamento, in quanto vita indegna di vivere, è accettare lo sfregio della bellezza, sfregio con il quale si dovrà poi per sempre convivere – ricordare che nel progetto del quinto romanzo di DL, DL e LU si sono sposati (GFO). Livia Ussaro mostrerà sempre il volto sfregiato dal mafioso italiano, cioè la parte di mondo occupato dal meticciato italiano, questo perché ciò che il meticciato italiano ha percorso del mondo oppure occupato nel mondo, è qualcosa che non può essere mai più cancellato, può essere semmai sistemato in ombra, perché tutto il mondo, dopo la comparsa del meticciato, è solo ombra, buio leggero, malinconia, ma qui non si tratta di organizzare l’ombra portata dal meticciato italiano, quanto di sopprimere – alla radice – il meticciato italiano, cioè di abbatterlo, che sarà la cosa che costituirà la nuova festa del tempo, restituendo al genocidio la propria innocenza.

È il meticciato che ha steso l’ombra sulla terra: Lovecraft parlava dell’ombra stesa dai nativi americani nella terra d’America a scapito dei coloni di razza bianca (tedeschi, scandinavi, olandesi), ma a pieno successo degli immigrati (slavi, italiani, negri, orientali), cioè dal meticciato che, trovandosi a scorrere, oppure occupare la terra d’America, finivano per trovare lì la loro fortuna, confermando la degenerazione della terra. Il meticciato raggiunge l’Ombra, in quanto ombra della razza bianca che si stende sulla terra come ciò che la fa appassire, andare in malora, che è ciò verso cui la razza bianca viene trascinata; mentre la razza bianca raggiunge il Male, come da definizione, che è ciò che pone la razza al nuovo livello di pensiero che è ciò che allora costituisce il pensare per razze, cioè il nuovo pensiero, che sarà il pensiero della razza bianca.

Se l’Italia è il paese che non c’è, la mafia si riconosce in un passaggio che va dalla Sicilia all’Italia, cioè nel passaggio dal mafioso del folklore siciliano (ampiamente esposto da Leonardo Sciascia), al vuoto presentato dai romanzi del ciclo di Duca Lamberti di Giorgio Scerbanenco (passando attraverso il richiamo a ciò che dice Solženicyn sui nuovi russi che, dopo la Rivoluzione bolscevica, occupano la Russia). La mafia è ciò che espone il vuoto su cui l’Italia è stata costruita, che permette al meticcio italiano, che è la forma di vita più indegna di vivere, di stare come forma che ha diritto di vivere.

Nella letteratura bisogna sempre ascoltare la musica che non c’è, sia il ritmo o altre forme di musica. La musica del Don Giovanni di Mozart va oltre il brutto libretto che l’italiano Lorenzo Da Ponte ha combinato da varie fonti intorno al tema {don Giovanni}. Una lettura critica deve considerare la musica che non può che suonare come musica anche se nascosta nello schema di una serie che non ha nulla a che fare, in questa occasione, con la musica – ma pensare la musica in un testo che non prevede la musica, perché nulla ha a che fare con un testo musicale, è cominciare a pensare per razze, che è un modo per identificare quel che “non c’è”, ma che permette di ruotare attorno a ciò che nel testo invece “c’è”.

Duca Lamberti ha scontato tre anni di carcere per avere praticato eutanasia nei confronti di una anziana paziente terminale di cancro; la questione che il ciclo di questi quattro romanzi, che hanno Duca Lamberti come protagonista, non è la soppressione dei malati terminali, ma è qualcosa che pone la questione dell’eutanasia come primo passo, che dalla soppressione dell’individuo senza più speranza di vita, apre alla soppressione della vera vita indegna di vivere – che è ciò che ormai riguarda lo sguardo sulla razza, cioè su ciò che è antirazza, che è la vera vita indegna di vivere. In questo, secondo me, risiede il nocciolo della questione – e non pare anche a voi?

Duca Lamberti pratica l’eutanasia su una sua paziente, suscitando entusiasmo in alcuni personaggi importanti lungo la serie (Livia Ussaro in DL1; il giudice che, in DL3, firma l’affido temporaneo di Carolino Marassi).

La mafia, cioè la “razza” italiana, in quanto cosa che sta in Italia – perché mafia è ciò che sta in Italia, ma che, dal punto di vista etnico, è antirazza –, che vuole soltanto vivere nel mondo, vivere nel modo che è congeniale alla propria natura di razza degenerata, cioè determinando la morte di quanto di vivo si trova ad essa intorno, nel tessuto vitale che raggiunge, è ciò che pone la domanda: come impedire a questo nuovo tessuto vivente, che vuole vivere, che ha tutte le potenzialità riservate alla vita, di vivere a spese di altra vita, che pure sembrerebbe avere più diritto di vivere? Duca Lamberti, Mascaranti e Carrua hanno idee precise ma diverse su ciò che, in vita, non dovrebbe godere, per legge, del diritto di vivere; DL è stato tre anni in prigione per avere praticato eutanasia nei confronti di una anziana paziente malata di cancro, che il direttore della clinica dove DL lavorava come medico, voleva invece tenere in vita allo scopo di assicurarsi i pagamenti delle cure che non avrebbero mai potuto fermare la malattia; per cui la questione riguarda il comportamento da tenere nei confronti della malattia, nel momento in cui la paziente di DL gli aveva chiesto di toglierle la vita, allo scopo di porre fine alle sue sofferenze, e Duca Lamberti aveva accettato – commettendo omicidio. L’autentico discriminante è la questione della vita indegna di vivere – che può riguardare tanto ciò che si trova incluso in questa categoria a causa di malattia quanto a causa di degenerazione razziale. La malattia è qualcosa che va sempre combattuta per istinto, così come, per istinto, va riconosciuta come malattia, qualunque forma essa presenti.

La scelta di Duca Lamberti per l’eutanasia ha comportato l’appoggio di due elementi fondamentali per le vicende dei quattro romanzi della serie: Livia Ussaro in Venere privata e il magistrato che firma l’affido temporaneo a Duca Lamberti di Carolino Marassi, che permetterà di risolvere il caso dell’uccisione della giovane maestra Matilde Crescenzaghi nel romanzo I ragazzi del massacro.

C’è la possibilità di collegare letteratura e letteratura di consumo? La letteratura di consumo ha abbandonato la linea che ha permesso a Dostoevskij di scrivere Delitto e castigo, basato sulla possibilità del pensiero che porta al pensiero della eliminazione della vita indegna di vivere. Georges Scerbanenco supera Giorgio Simenon nel momento in cui la questione da considerare è il Male che affligge il mondo moderno visto a partire dall’ottica del romanzo: GS considera il mondo come ciò che è stato impestato dalla razza italiana, che è il male che alcuni devono fare in modo di eliminare dal mondo; mentre GS considera il mondo a partire dalla sua certezza che ogni cosa del mondo è buona e pertanto non esiste il male e che i tutori della legge devono solo salvare i possibili responsabili dalla pena che essi sarebbero stati colpiti se solo essi avessero agito in nome di un Male presente nel mondo – ma il male che l’Italia ha fatto nel mondo, e che prima o poi dovrà essere chiamata a scontare, è avere impestato il mondo con Dante e con Boccaccio, e poi con tutti gli altri.

Considerare i titoli:

Venere privata (DL1) chiama a una restrizione della dèa della razza: la dèa Venere, che non è più dèa della razza, ma dèa che si offre a individui di una antirazza (perché di questo si tratta) per solo pochi spiccioli; così la Venere privata diventa allora la Venere accessibile a chiunque nell’epoca della riproducibilità tecnica (evidenziata dal richiamo alla fotografia): Livia Ussaro si presenta in Venere privata come il personaggio che si fa strumento per indagare la forma di questo passaggio, permettendo il passaggio dalla forma-cellula “Alberta Radelli” alla forma-cellula “Livia Ussaro” – sempre con DL all’uscita della coppia.

Traditori di tutti (DL2): indica la fuoriuscita da ciò che, per pura eleganza & pacchianeria, è fracassume “italiano” – per questo verrà qui, in questa recensione, considerato per ultimo.

I ragazzi del massacro (DL3): stabilisce la formalizzazione della serie, perché “i ragazzi del massacro” costituiscono la perfetta serie di dodici toni alla quale Len Deighton, con la serie dei suoi personaggi più o meno eleganti, non aveva mai ottenuto accesso alcuno.

I milanesi ammazzano al sabato (DL4): considera l’uscita dalla serie – la nuova formula. È l’ultimo romanzo della serie. Ma è DL2 che, adesso, può rappresentare pienamente il Vuoto – che è alla base del ciclo dei quattro romanzi di DL perché il Vuoto è da sempre alla base della maledetta Italia.

Ponendo Duca Lamberti al vertice di una punta di freccia, Carrua e Mascaranti ai due estremi di questa punta, otteniamo la forma di una punta di freccia rivolta al Nord di un pensiero diverso, che era il disegno riconosciuto nel castello meridionale (così come ogni arte di castelli, sostanzialmente riconosciuta nell’asse di orientamento del castello di Wewelsburg, da sud a nord, solo da colui che aveva puntato lo sguardo a Nord, prima di riconoscere questo casuale rimasuglio). Così dopo un’Apertura generale alle Forme, è il castello di Wewelsburg che si presenta?:

DL1 (Venere privata: la Cellula, la Torre isolata)

DL3 (I ragazzi del massacro: la Serie, il Disegno completo)

DL4 (I milanesi ammazzano al sabato: la Coppia, le Due Torri). Notare la forma: DL1 presenta la torre isolata; DL3 presenta il disegno della punta di freccia; DL4 presenta la coppia delle Due Torri. DL2 presenta invece il Vuoto.

DL2 (Traditori di tutti: il Vuoto, il Vuoto su cui il disegno si ricompone da sempre – ricordare qui i due libri: Un paese senza eroi di Stefano Jossa e La letteratura e il male di Georges Bataille, dove il personaggio DL avrebbe dovuto essere accolto e dove il personaggio DL è stato pensato).

Esiste la narrativa nera; tanto più può esistere la saggistica nera. La saggistica nera non considera lo spazio, come fa la narrativa nera, ma considera il Vuoto come il vuoto dove forme diverse si aggrappano, e che devono essere tirate giù. Il Vuoto è la terra che non è stata presa, ma che esiste come mappa, localizzazione di incroci di nomi di strade e piazze, ma che portano solo al vuoto su cui la terra che non è stata presa si organizza come trama di racconto; è una cosa che ha affinità con la seduta spiritica, quando si considera un successo la risposta di uno spirito, e si pensa solo alla prossima domanda da porre, pur non sapendo mai con quale spirito si abbia a che fare.

La Questione DL si presenta come possibilità di togliere la vita a ciò che si presenta come vita indegna di vivere – quindi fare fuori lo spirito che si presenta alla chiamata. DL sceglie l’eutanasia come risposta a una paziente che non aveva possibilità di vivere, nel tempo in cui era medico. Quando da medico diventa poliziotto, viene a confrontarsi con la possibilità di togliere la vita alla vita indegna di vivere, ma questo può essere fatto, su larga scala, solo con il supporto dello Stato – e lo Stato, a questo punto… gli fa orecchie da mercatante (= non gli risponde).

L’uomo è degno di fiducia solo in quanto possibilità di esperimenti sempre più lontani – e il superuomo di Nietzsche non è stato altro che uno di questi esperimenti.

Considerare Candido di Sciascia. È importante il fatto di tirare diritto, nonostante le teorie avverse, un po’ come l’immortale e volterriano tipo “Candido”, replicato in Ebenezer Cooke da John Barth nelle avventure occorsegli nel lontano Maryland. Infatti sono importanti i rapporti tra Candido di Sciascia e la Sicilia: Sciascia ha limitato la mafia a un problema regionale, pur richiamando la figura di Candido – e ricordare sempre la figura di Candido come trattata da John Barth nel lontano Maryland.

Il biologo che riconosce un tessuto cancerogeno non deve manifestare disprezzo nei confronti di quel tessuto, né tantomeno porsi il problema di salvare quel tessuto che vuole solo mantenersi in vita, quanto pensare come sopprimere definitamente, nel modo più veloce, il tessuto allogeno che mette in pericolo il tessuto sano. Così la questione Duca Lamberti deve comprendere il discorso su quattro forme precise, così come quattro sono i romanzi che la determinano: la Cellula, la Serie, la Coppia, il Vuoto.

DL1 (La Cellula)

Venere privata è un romanzo che viene organizzato a partire da un principio di cellula privata (forma 1) che tende all’espansione verso l’esterno (forma 2): Alberta Radelli rappresenta la prima fase, che trascina con sé Livia Ussaro; ma che trova nella figura del fotografo omosessuale Luigi il suo inciampo; a sua volta il personaggio chiave dell’omosessuale si presenta in due modi: come stabile occupante di uno spazio a sua disposizione (forma 1, il primo ambiente a disposizione con Alberta Radelli); come mutante verso uno spazio del tutto diverso (forma 2, il secondo ambiente a disposizione con Livia Ussaro). Si determina così la formula:

AR LU = Invertito → Mutante

Nel primo caso bastava uno sguardo per determinare l’anormale come tale; nel secondo caso lo sguardo deve comprendere la Serie, cioè deve includere l’anormale in una serie dove, a causa della complessità della strutturazione, non ha più niente di anormale. Questo è ciò che avviene perché siamo nel campo di qualcuno che guarda.

LU è una cellula del tipo AR, che muta verso la forma DL, che invece sfugge alla formula di base. È Alberta Radelli a bloccare dall’inizio questo gioco sporco, sottraendo il rullino di fotografie, con gioco sporco da parte sua; ed è pure con il suo gioco sporco che Alberta Radelli si introduce nello spazio privato (l’automobile) di Davide di sua privata iniziativa. Questo intermezzo – nel gioco sporco – è fatto attraverso il gioco degli scacchi. Venere privata presenta il passaggio verso una criminalità organizzata che è orgoglio di razza: la mafia si presenta come meritato orgoglio di ciò che costituisce l’orgoglio della maledetta razza italiana, vale a dire del meticciato. Vediamo che dal piccolo criminale tipo Vautrin si passa alla grande organizzazione, così come dall’individuo si passa alla razza. Il criminale non è più colui che si oppone alle leggi, ma è colui che accetta l’affiliazione alla propria razza degenerata (= antirazza = meticciato italiano), se ne fa una forza come accettazione della degenerazione in quanto accettazione del diritto a vivere da parte della propria razza degenerata. Questo “orgoglio di razza” viene scritto nella forma più primitiva di scrittura, la scrittura sulla pelle, che è ciò che viene scritto sul volto di LU. Ricordare il codice di questa scrittura, DL al mafioso, già ricordato: «“Naturale, ti hanno insegnato l’anatomia dei muscoli facciali, il punto dove incidere e il tipo d’incisione da fare, quella a M per esempio non si accomoda più con nessuna plastica.” Cose che gli aveva spiegato suo padre, quando lui aveva messo i calzoni lunghi e finalmente il padre aveva potuto parlargli della Mafia. Non avrebbe dedicato un solo minuto a tutta quella storia se non avesse sentito che c’era lo stile violento e spietato della Mafia.» (p. 168). Le piccole M che portano alla grande M di “Mafia”, che ci dice che la “civiltà” “italiana” è passata di lì e ha lasciato il suo segno d’ombra. La “civiltà italiana” (= civiltà italiana) può scrivere di essere passata di lì solo quando scrive la parola “Mafia” sulla pelle di ciò che essa ha invaso – così la città diventa la città tatuata, come noi vediamo negli spazi cittadini invasi dai graffiti, perché lì è passata la civiltà del meticcio italiano – o, comunque, a un livello superiore, del meticciato.

Gli italiani sono la degenerazione della razza e il loro modo di stare nel mondo è il modo criminale di stare nel mondo perché il crimine è nella vita di ciò che autenticamente è razza degenerata (come dimostrano le considerazioni sui russi di Solženicyn in Arcipelago gulag). Il fascino del romanzo è tutto nella possibilità di alludere alla bellezza della degenerazione, mentre si avverte che la questione di vita o di morte non si gioca più a livello dell’individuo, bensì a livello della razza – questo perché il meticciato europeo è ciò che riguarda il meticciato slavo e il meticciato latino, cioè la vita indegna di vivere.

La razza italica (antirazza), come ogni razza degenerata lasciata in vita, sfregia la bellezza del mondo: è ciò che vediamo nello sfregio del volto di Livia Ussaro. La bellezza viene sfregiata ma continua a restare nel mondo perché solo così per noi può esserci mondo – mentre per noi si pone la questione di sopprimere ciò che è degenerazione.

La mafia – la razza italiana – è quel medusèo tessuto che non c’è, che vuole vivere nel modo congeniale alla propria natura di razza degenerata: determinando la morte di quanto di vivo le sta intorno.

Da qui la necessaria reazione: togliere la vita nell’utopia di un progetto che tolga la vita a ciò che è vita indegna di vivere.

La presenza dell’invertito porta – nel senso che apre la “porta” – alla Serie, costituendo il passaggio dalla Cellula alla Serie, vale a dire da DL1 a DL3, mentre DL2 e DL4 rimangono privi di “porta” (come a dire, musilianamente Törless), vale a dire che si presentano come racconti dove non c’è passaggio, cioè mutazione di forma, questo perché i re non aprono mai le porte, mentre i duchi possono aprire tutte le porte che vogliono – avendo screditato l’arte di conoscere di Vautrin, dopo averla avuta in eredità.

L’Italia è un terriccio buono solo per nascondersi, che si sia o non si sia della mafia: l’Italia è solo un terriccio dove alcuni, mafiosi o non mafiosi, trovano spazio dove nascondersi.

Così noi ci portiamo dietro il teatro. Il teatro è la forma che non riguarda la razza bianca perché non appartiene alla razza bianca – storicamente, cioè in quanto Origine. Il teatro è la forma che arriva dal fuori. Il teatro è la forma che si è sempre più incuneata nel dire della razza, che è la saga, che è la storia, ma che, grazie al teatro, è diventato il racconto, allo scopo di dire ciò che non è mai appartenuto al dire della razza, che è il racconto sceneggiato della storia come storiografia, che è quello che si vede. Il teatro è la messa in scena di ciò che basta solo una frase per eliminare; è il trionfo della democrazia nel senso che è l’offerta della parola a tutti coloro convenuti in un luogo determinato come palcoscenico per essere ascoltati. La saga (il dire della razza) non è il racconto così come la storia non è la storiografia. Per cui non deve più esserci messa in scena del tutto. Questo vuole dire: non più scene teatrali nella saga, cioè nel racconto, che non è la storia, cioè il dire della razza e non la storiografia, cioè quanto della storia è stato arbitrariamente riportato. Il teatro è una forma esterna aggiunta all’epica, forma di casa, così come la decameronizzazione è una forma che ha fatto fuori ogni possibilità di “casa” nel mondo. Posto che il teatro sia quella cosa che, giunta da fuori, si trova costantemente a casa, bisogna fare in modo di mandare via il teatro dal mondo.

In Venere privata ci sono due cellule che, per il loro modo di agire, possono essere definite “cellule private”: Alberta Radelli e Livia Ussaro. Alberta Radelli è uccisa come cellula privata che non è riuscita a effettuare il passaggio nei confronti di Davide, mentre Livia Ussaro riesce a effettuare il passaggio agganciandosi a Duca Lamberti, trovando lì la propria salvezza. Ma a tenere insieme questi passaggi è la figura dell’invertito Luigi, il fotografo che ha a che fare con Alberta Radelli e, indirettamente ne determina la morte, scatenando contro di lei la caccia da parte del mafioso. La mafia è questa paura della moltitudine senza volto (ma che incide la firma come moltitudine disindividualizzata), che riporta l’inquietudine dell’umano verso questa presenza italiana, verso la quale, di colpo, ci si trova a dovere riconoscere la presenza animale, presenza italiana – presenza animale solo come insetti – tutto intorno. Tanto il fotografo quanto il mafioso sono presentati da GS come persone senza volto, insetti, moltitudine, italiani qualunque.

James Hillman definisce la particolare repulsione che si prova davanti agli insetti come l’inquietudine davanti a ciò che costituisce la moltitudine antecedente al fenomeno della individualizzazione, che fa sì che lo spazio che, prima della scoperta della presenza degli insetti, si riteneva spazio di casa, cioè spazio a tutti gli effetti pienamente individualizzato, venga di colpo riconosciuto come spazio che non è più spazio di casa, ma spazio invaso, disindividualizato a favore della moltitudine degli insetti. Ricordare che il fotografo invertito e italiano è subito presentato come “senza volto” (quindi insetto), e anche il mafioso italiano avrà qualcosa di simile (quindi insetto: l’invertito e il mafioso italiano sono i due esponenti di un modo d’essere della presenza italiana nel mondo, che minaccia il mondo). La mafia è questa paura della moltitudine elementare, primitiva e bestiale a livello archetipico, di una presenza animale/presenza italiana, che fa sì che il mondo umano sia tradotto in ambiente primitivo e bestiale, autenticamente italiano.

Livia Ussaro vuole tendere una trappola a ciò che scorre intorno al fotografo: ma come definire il fotografo? «Pur guardandolo con attenzione, Livia si rese conto che non avrebbe saputo descrivere quell’uomo, né la sua voce, le venne in mente che era come voler descrivere che cosa c’è in una scatola vuota.» (pp. 152-3). Noi, che ci riconosciamo in una comunità di lettori esperti, conosciamo l’esperimento mentale del gatto di Schrödinger – e conosciamo altresì il tentativo di risoluzione da parte di Hugh Everett che apre la porta alla teoria dei molti mondi possibili.

Il fotografo le indica il bagno dove può spogliarsi. LU si spoglia nel bagno e torna nella stanza. «Uscendo dal bagno sentì il giovane bestemmiare, dal modo come pronunciò la volgarissima bestemmia, capì subito, senza dubbi, che cos’era: un invertito, un vero, squallido terzo sesso, adesso tutto l’incolore della sua persona fisica si spiegava, doveva essere l’incolore mostruoso dei mutanti descritti nei romanzi di fantascienza, a metà strada esatta della mutazione, quando hanno ancora solo l’involucro umano, ma mente e sistema nervoso appartengono già all’orrenda nuova specie.» (p. 153).

Notare: AR aveva riconosciuto nel fotografo un invertito solo dal modo in cui egli aveva pronunciato una parola (“terribile”); LU riconosce il fotografo come invertito solo nel modo in cui pronuncia una bestemmia qualunque (che il testo non riporta, a differenza di quanto riportato nell’incontro precedente, da parte di AR). L’invertito usa le parole ma colui che osserva l’invertito nota il suo uso sbagliato delle parole, che lo identifica come individuo a parte – di una serie legittima. Ricordare la nuova locazione dove avviene l’incontro che permette di presentare il fotografo per la seconda volta: la zona di periferia di Milano. In entrambi i casi, l’invertito si determina a partire dalla intolleranza verso un minimo imprevisto: un rumore dall’esterno, che lo fa identificare come invertito attraverso la comune parole “terribile”; la lampada che gli si fulmina davanti, ma che permette di pronunciare la volgarissima bestemmia, che permette di identificarlo agli occhi attenti di LU come “invertito”.

Perché la “parola” dell’invertito Luigi lo rivela come “invertito” in due diversi personaggi come sono AR e LU? perché l’invertito Luigi fa suonare la parola in quanto parola, che è parola che meno che mai può fare ricorso alla lingua, perché è parola dell’alingua italiana, che non esiste, ma che meno che mai prevede la lingua italiana, che non esiste.

Ma la parola pronunciata, in tutti e due i casi, dall’invertito italiano, è la vera parola, che, in quanto parola degenerata (= invertita) non porta alla lingua della razza, ma fa suonare la parola sganciata dalla lingua della razza in quanto parola della parola, cioè della antirazza.

La lingua italiana – che non esiste – ritaglia l’alingua italiana come ciò che esiste, per quanto condannato da ciò che dice la grammatica riguardo a ciò che invece dovrebbe comprendere ciò che esiste.

Quando arriva il mafioso, che invece non ha notato nulla di strano nel comportamento della ragazza, cioè non ha “fiutato” la trappola tesa loro, l’invertito espone i propri dubbi. Il mafioso non prende sottogamba l’avvertimento: «Sapeva anche lui che gli invertiti hanno sottili intuizioni, forse sono telepatici, e per questo ascoltava attento le parole dell’amico.» (p. 155) e i due italiani si fiutano immediatamente nella medesima comune radice bestiale, nello stesso Italian job che quel momento li trova così attentamente occupati; gli italiani hanno un fiuto particolare: odorano il didietro delle parole – il segreto della rima, che tanto ha corso nella cosiddetta “letteratura italiana” è tutto qui. Da adesso in poi i due italiani saranno una stessa sporca cosa (che erano sempre stata), ma in un modo diverso.

Dal momento in cui il mafioso italiano entra nell’appartamento, il mafioso italiano si fa padrone di quello spazio tanto angusto quanto italiano: è lui a dire cosa fare, a comandare l’invertito italiano (il pederasta), cioè quando interrompere gli scatti fotografici, a fare l’interrogatorio alla ragazza, a chiederle dove ha lasciato la borsa in modo che “egli” (il meticcio italiano) possa frugarvi. Ciò che è avvenuto è chiaro: l’elemento “estraneo” (la mafia italiana) è arrivata in uno spazio e ne ha preso possesso, comportandosi da padrone. Quando il meticcio italiano (il mafioso), frugando nell’agenda di Livia Ussaro, trova il numero di Alberta Radelli, allora il mafioso (il meticcio italiano) diventa l’assoluto padrone di quello spazio che non è una terra che è stata presa, ma appena un mucchietto di mattoni su un terriccio al fianco di una grande città: «L’invertito aveva fiutato giusto, quegli sporcaccioni vedono meglio dei normali. Tornò nella stanza, si rimise a sedere, volgendo un poco le spalle a Livia. Erano alla trentanovesima fotografia, ce n’erano ancora una dozzina da fare ma egli disse a Luigi: “Adesso basta.” E a lei: “Venga qui davanti, per favore, perché devo farle altre domande.”» (p. 158).

L’Italia è sempre un mucchietto di vecchi mattoni messi insieme di nascosto da qualche parte, così come la cosiddetta “poesia italiana” non è che che un vecchio mucchietto di vecchie parole. La cosa cambierà solo quando si sarà abbattuta la razza che è alla base di questi vecchi mucchietti di cose tanto vecchie quanto sporche.

Nel periodo in cui Venere privata venne scritta, la figura dell’omosessuale era sottoposta ad uno sguardo ben diverso da quanto non avvenga oggi; ma è sufficiente pensare al personaggio di Robin J. Hallam di Funerale a Berlino (1964) di Len Deighton, per vedere quanto Venere privata (1966) ne utilizzi il comune stereotipo, ma per condurlo in lidi di ben più ampia e limpida, quanto omogenea, straordinaria complessità.

Robin James Hallam è il personaggio che nel primo capitolo il protagonista del romanzo Funerale a Berlino, “l’agente senza nome”, deve incontrare per questioni di lavoro – un lavoro abbastanza “sporco” perché un importante biologo sovietico sembra intenzionato a volere abbandonare l’Unione Sovietica per la Gran Bretagna e piccoli ometti nascosti, come appunto l’agente senza nome, dovrebbero organizzargli il passaggio con estrema, invisibile cura assoluta. È un Italian job a tutti gli effetti: il lavoro sporco, ciò che è chiamato Italian job, che consiste nel non comprendere quale tipo di lavoro stiano svolgendo le persone impegnate in quel lavoro sporco, sia utilizzando il tempo libero come persone che non impiegano il tempo lavorativo in un “lavoro sporco” (Italian job), così come tanto l’impiegato che svolge il lavoro sporco, quanto la segretaria dell’impiegato addetto ai lavori sporchi, al di fuori del tempo dei loro rispettivi lavori sporchi, si trovino a frequentare concerti di musica moderna, tanto che Jean, la segretaria in questione, regalerà al suo superiore il disco con l’esecuzione delle Variazioni per strumenti a fiato di Schönberg ricordandogli la sera in cui lo vide con la potenziale rivale, la persona che l’agente deve frequentare a causa del suo lavoro sporco (Italian job).

Robin James Hallam è un personaggio spaesato in tutto il romanzo, così come il suo autore non sa bene cosa farsene di lui in quanto principio compositivo.

Infatti l’omosessuale di Funerale a Berlino non viene determinato come invertito, come invece accadrà per l’omosessuale Luigi in Venere privata, che si determina come omosessuale in base allo sguardo di una parola da lui pronunciata, tuttavia è lo stesso meccanismo di sbirciare da angoli ciechi a determinare in lui qualcosa che non va; e solo nel capitolo 49 il personaggio verrà determinato espressamente in quanto tale – quando ormai non sarà più possibile guardarlo, perché trapassato. Il secondo capitolo del romanzo lo considera con attenzione, ma sbrigandolo come eccentrico, scapolo, pignolo, moderatamente ridicolo. In questo capitolo c’è un dato importante: il capitolo è steso in terza persona, mentre tutti gli altri capitoli del romanzo, a cominciare dal primo, sono stesi in prima persona. Il personaggio di Robin James Hallam indica una difficoltà a descrivere un personaggio, personaggio che è il culmine di una sordidezza che attraversa tutto un romanzo affollato di personaggi sordidi, giochi sporchi, ambiguità, voltafaccia.

Il passaggio dalla prima persona alla terza ha messo un segnalibro in una pagina, ha indicato un imbarazzo a quel punto, senza mai risolverlo. Il capitolo 49 usa la stessa reticenza nel parlare di lui, fermo restando che si è ormai consolidata l’accettazione della omosessualità del personaggio, – per cui il segnalibro può anche essere rimosso.

Robin James Hallam è una figura curiosamente complessa per come è presentata in Funerale a Berlino: è il traditore di razza, è colui che complotta contro la religione di Stato; è presentato come un personaggio con tratti infantili; è colui che, il 5 di ottobre, chiede uno scellino per accendere il gas a colui che accoglie in casa (l’agente che sarà poi il suo boia), un mese prima della sera in cui i bambini fanno il giro nelle case del vicinato per chiedere gli spiccioli necessari per comprare i fuochi per fare la festa al fantoccio di Guy Fawkes, e ricordare così la fine che attende il traditore della patria che sempre torna a vivere per essere ucciso. Robin James Hallam è insieme il fantoccio e colui che dà fuoco al fantoccio. Robin James Hallam morirà bruciato vivo un mese dopo il giorno d’inizio delle vicende narrate in Funerale a Berlino, giusto la sera del 5 di novembre (mentre la cronistoria di Funerale a Berlino comincia il 5 di ottobre). Si potrebbe pensare che il titolo “Funerale a Berlino”, affibbiato al romanzo, sia un modo per parlare di un falso funerale al fine di nascondere il vero funerale, che è quello del traditore della patria, che si celebra alla fine del romanzo, romanzo che si era aperto con la visita dell’inconsapevole boia alla casa della sua inconsapevole vittima e che era anche l’omosessuale Robin James Hallam.

Robin James Hallam è così colui che coglie ma non accoglie il suo ospite, per essere infine colto da quello in fallo – o per meglio impostare la questione: dove accoglie, Robin James Hallam, il suo ospite? in una casa che non è la sua casa (la targhetta posta sulla sua porta indica iniziali leggermente differenti da quello che è il suo nome: JJH), in un luogo tanto ordinato quanto scombinato, dove sfrecciano occhiate di sbieco; quelle occhiate di sbieco, eleganti, ironiche, di buon gusto, mai malevoli, che l’autore di Funerale a Berlino riserverà sempre al suo triste personaggio, quel Robin James Hallam sempre fuori luogo, perché senza casa, bruciato alla fine fra le file di case dove non ha mai abitato, poiché il suo posto nella Serie lo trova perfettamente indicato nella serie dei romanzi di Duca Lamberti, di tutto un altro autore.

Alberta Radelli è presentata in due modi diversi: quando va a farsi fotografare nuda insieme ad una amica, quando si rivolge a Davide. Il fotografo è presentato in DL1 II/3: Prima presentazione: «Al secondo piano il giovane che aprì la porta era semplicemente un giovane con una vestaglia bianca, non aveva insomma un viso che avesse una qualsiasi personalità o caratteristica, quasi come quei visi disegnati da chi non sa disegnare minimamente, e le uniche cose che si potevano dire di lui era che non era vecchio e che non indossava una vestaglia nera.» (p. 111). C’è uno scambio qualunque di battute tra il giovane e le due ragazze, poi c’è un rumore che rivela la natura del personaggio in quanto invertito in base al modo di pronunciare la parola: «Allora tutte e due capirono che era un invertito, dal modo come aveva detto: “È terribile.”» – che è ciò che apre alla possibilità aperta da DL dell’identikit in DL2, che si dimostrerà, di nuovo, pienamente efficace. La formula dell’identikit è ciò che porterà al riconoscimento della persona sbagliata, con lo stesso nome e cognome, che porterà alla persona giusta, cioè al vero colpevole – ma l’identikit che permetterà di raggiungere il personaggio che non è il colpevole, è colui che permette di raggiungere il colpevole, che non è quello che l’identikit ha riconosciuto come forma, come macchia, perché, per l’onesto Franco Baronia, la presenza del suo omonimo e parente è la “macchia”, che è la macchia Rorschach, che permette di determinare e raggiungere il colpevole.

Se basta uno sguardo, che conduce alla parola, per identificare il fotografo come invertito in Venere privata, ci vuole invece un lungo lavoro di sguardi obliqui senza parole per parlare di Hallam come di un omosessuale in Funerale a Berlino. Considerare che in Venere privata l’invertito svolgeva una mansione da tenere nascosta, fotografare donne nude per cataloghi che dovevano girare in forma molto privata, mentre in Funerale a Berlino l’omosessuale svolgeva una funzione ufficiale a tutti gli effetti (anche se sordida nella sostanza): a sbirciare l’omosessuale in Funerale a Berlino era appena l’autore, mentre a guardare l’invertito in Venere privata erano personaggi diversi del romanzo, lungo il corso della narrazione, attentamente messi in scena dall’Autore.

A mettere in riga il personaggio di Robin James Hallam è la Serie, che egli, in quanto cultore della musica classica moderna, predilige solo nella versione più moderata (ricordare la predilezione per le Variazioni per strumenti a fiato di Schönberg, composizione ricorrente nel romanzo).

È come se Funerale a Berlino avesse iniziato il gioco delle pedine che il ciclo dei romanzi di Duca Lamberti toccasse poi il compito di perfezionare e portare a conclusione – anche rinunciando al richiamo alla serie dodecafonica. Ricordare il gioco degli scacchi: in Funerale a Berlino presente solo nella maggior parte dei capitoli in forma di epigrafe; in Venere privata presente come elemento di disturbo: «“Non mi fate cadere gli scacchi.”» (p. 111). In Funerale a Berlino le mosse degli scacchi sono invece ciò che il narratore usa come epigrafi per la maggior pare dei capitoli, nessun personaggio potrebbe far cadere quegli scacchi, mentre in Venere privata il richiamo agli scacchi è ciò che permette al narratore di segnare una cesura all’interno del romanzo. (Ma nel capitolo 2 in terza persona, dedicato al triste Robin James Hallam non c’è nessuna epigrafe tratta dagli scacchi.)

Il gioco degli scacchi è presente nei due romanzi: ma in Funerale a Berlino determina i movimenti dei personaggi in quanto epigrafi dei capitoli; in Venere privata interviene come elemento che modifica la trama.

In quale modo il ciclo di Duca Lamberti articola questi temi attraverso una superiore composizione? Robin James Hallam ama la musica moderna. Nel campo della dodecafonia, egli ha dischi di Schönberg e di Berg, ma non di Webern (almeno questo è quanto è dato a noi sapere in qualità di lettori). La serialità è da Robin James Hallam tollerata solo se questa non viene proiettata in una forma integrale (cioè in una forma di serialismo integrale). Schönberg è apprezzato da Hallam perché mantiene qualcosa del tema musicale nell’impostazione seriale della sua musica: quando il protagonista (nel cap. 47) scorre i dischi di Hallam e tira fuori il Concerto per violino di Berg, e chiede di poterlo suonare, Hallam è distratto (è il nome “Alban Berg” a determinare in lui il punto di distrazione, in quanto tocco del “punto zero”?), ma poi si riprende: «“Posso mettere questo disco sul grammofono?” domandai ancora [visto che Hallam non lo aveva sentito]. | “Suonate questo. È stupendo.” Frugò nella raccolta e trovò il disco preferito di Sam [la potenziale rivale di Jean]: Le variazioni per strumenti a fiato di Schönberg. | “Conserva una forte melodia, anche quando viene abbandonata la tonalità,” mi spiegò Hallam. “Un’opera interessante. Notevole.”» (p. 209).

Hallam apprezza quell’opera dodecafonica perché non rinnega la cellula tematica, mentre il Concerto per violino di Berg non ha conservato nulla della cellula tematica e Hallam dice bene: Schönberg rimane molto più legato alla cellula tematica di quanto non abbiano fatto Alban Berg e, soprattutto, Anton Webern, che egli si guarda bene ad accogliere nella sua modesta raccolta di dischi nella sua modesta casetta.

Funerale a Berlino comprende cinquantun capitoli redatti in prima persona tranne uno, il secondo, che approfondisce il personaggio di Robin James Hallam. Nel primo capitolo il protagonista narra il suo incontro con Robin James Hallam per motivi di lavoro; il secondo capitolo approfondisce il personaggio, una volta rimasto solo; perché questo bisogno di approfondimento, e soprattutto da dove arriva quello sguardo che lo isola, unico in tutta la narrazione? Robin James Hallam è presentato in terza persona in un romanzo steso in prima persona. È preso di mira per metterlo pienamente in scena come omosessuale, così come il protagonista, alla fine del romanzo, lo prenderà di mira per farlo uscire di scena come essere vivente: è come se il narratore lasciasse ad altri da elaborare quello che egli ha presentato nella sua ricognizione presso il personaggio.

Funerale a Berlino è un romanzo costruito sul doppio gioco e sulla diffidenza tra i vari personaggi, ma il gioco più sporco è segnalato nei confronti dell’omosessuale Hallam – perché è il gioco che mette in scena l’Autore al di fuori del campo di gioco (mentre DL3 metterà in gioco la Serie). È solo nel capitolo 49 che Hallam è apertamente identificato come omosessuale. Il capitolo 49 discute della necessità di espellere l’omosessuale. Funerale a Berlino riconosce l’omosessuale come “anello debole” in un punto preciso di ciò che non costituisce una serie: «Dawlish annuì. “L’unica soluzione è di togliere agli omosessuali qualsiasi pressione sociale. Queste dannate ricerche della sicurezza e dell’affidamento non fanno che aggiungere pressione. Se qualcuno si avvicina a questi tipi prima che lo facciamo noi, può far intravvedere un altro pericolo, quello di perdere il posto; se sapessero che non è vero, ci sarebbe qualche possibilità in più che essi aderissero spontaneamente al fatto di avere la parola ‘omosessuale’ inserita nella loro cartella personale. Se, poi, ci fosse qualcuno che facesse pressione su di loro, essi potrebbero riferirlo ai loro agenti del Servizio Segreto e noi avremmo qualche possibilità di poterci occupare della faccenda. Con questo maledetto sistema, tutto quello che riusciamo a fare è procurarci dei nemici.” Annuii.» (FaB, pp. 219-220).

L’omosessuale è scartato perché non ha un congruo posto nella Serie, cioè il posto che spetta (come infatti dimostra il salto fuori dalla serie, dalla prima persona alla terza persona per determinarne la figura). Fermo quello che può essere il giudizio su una figura d’inciampo, a distanza di tempo, GS inserisce il personaggio che, in Funerale a Berlino rimaneva un inciampo di cui discutere sottovoce in uno degli ultimi capitoli, a elemento costitutivo di un romanzo, basato sulla Serie e le sue derivazioni – vale a dire serie principale e serie derivate, quindi in un più ampio utilizzo della Serie nel campo della costruzione letteraria.

Dal confronto di Funerale a Berlino e I ragazzi del massacro sembra chiaro questo: Funerale a Berlino allude a un meccanismo che solo il ciclo di Duca Lamberti elegge a elemento costitutivo – Funerale a Berlino scarta, nella parodia di un funerale, cioè di un finto funerale attentamente orchestrato, ciò che I ragazzi del massacro (DL3) comportano come funerale appena nascosto immette come elemento fondamentale a sostegno di una costruzione che ha lo statuto della piena legalità; così il tipo Hallam, cioè l’Invertito, è tanto sganciato, nel Funerale, dal meccanismo seriale, quanto, nel Massacro, l’omologo “invertito” permette di essere elemento costitutivo della Serie. Ma “essere elemento costitutivo della Serie” non vuole dire fare parte della Serie. L’elemento allogeno, l’invertito, compare adesso nella Serie come elemento allogeno a tutti gli effetti, perché la Serie è ormai qualcosa che può essere pensata, cioè teorizzata in quanto elemento che deve essere pensato in quanto facente parte, a tutti gli effetti, di un insieme – anche se la struttura dove esso si manifesta è una impresa ferocemente criminale.

Hallam è uno strumento delle tenebre scosso lungo tutto Funerale a Berlino: approfondito come personaggio nell’unico capitolo steso in terza persona (il 2), mentre il resoconto della sua morte (cap. 49) avviene in uno stile che contamina prima persona e terza persona, inserendo poi, nell’impianto del capitolo, voci e interventi vari di passanti, che, formalmente, interrompono la stesura in prima persona – rigorosamente mantenuta negli altri capitoli del romanzo (ad eccezione del secondo); il ciclo di Duca Lamberti presenta una precisa costruzione seriale del personaggio dell’invertito, cioè dell’omosessuale.

Le parole sono vere nel momento in cui vengono inserite all’interno di una serie che le rende vive: così la parola “finocchietto”, per definire Pier Paolo Pasolini (il finocchietto e paroliere del meticciato italiano), è vera e pertinente perché definisce il finocchietto italiano Pier Paolo Pasolini nel suo dissidio tra realizzazione e immaginazione nel modo in cui solo un finocchietto come il finocchietto italiano Pier Paolo Pasolini poteva farlo; così la parola “invertito”, usata da Giorgio Scerbanenco per definire dei personaggi di sua invenzione, diventa vera quando è inserita nella Serie che è alla base del romanzo I ragazzi del massacro.

Pier Paolo Pasolini era un finocchietto, così come l’Italia è un paese finocchietto. Solo ciò che è razza ha un poeta, che indica il destino come destino della razza; un paese finocchietto ha un paroliere, che mette a punto giochi di parole, battute di spirito, barzellette, come Pierino/Calandrino ha fatto, sinistro bicorpo personaggio, una volta sigillato per sempre – nei romanzetti di Lem memoria.

Ricordare la battuta finale del film Il Decameron, pronunciata dal finocchietto italiano Pier Paolo Pasolini, che non compare nella sceneggiatura del film scritta dal finocchietto italiano Pier Paolo Pasolini – battuta finale del film pronunciata dal personaggio (il finocchietto italiano Pier Paolo Pasolini) inquadrato di spalle. “Ma, io mi domando, perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?”; «Ecco, ora l’affresco è scoperto. I garzoni lo guardano a bocca aperta, come davanti a un miracolo. | L’affresco appare infatti in tutto il suo splendore divino: coi suoi personaggi semplici e potenti nella loro adorazione a Dio, che dal piccolo cielo li guarda tra aureole simmetriche di Santi. | Giotto guarda anche lui, tra i suoi aiutanti, l’affresco. | Nel suo viso è stampato – come una leggera ombra, non priva di malinconia – il sorriso dolce, misterioso e ingenuo con cui l’autore guarda la sua opera finita» (p. 144). La sceneggiatura prevedeva una mimica facciale, un sorriso particolare sul volto del personaggio inquadrato di fronte; il film passa invece ad una battuta, evitando la risoluzione allo sguardo dello spettatore, perché il personaggio è inquadrato di spalle, mentre il pubblico/spettatore ascolta la battuta.

Là dove Nietzsche poneva la domanda “Che cosa è aristocratico?”, possiamo porre noi adesso la domanda più prosaica: “Che cosa è razza bianca?”

Parlare del Vuoto è parlare di ciò di cui si può parlare attraverso la formalizzazione, che è ciò che porta alla Serie.

Il meticcio italiano è la carcassa che pende davanti a ciò che è Europa. Europa è ciò che è minacciata dalle carcasse degli italiani e che deve stabilirsi, passando da terriccio a terra, come terra mandando via i meticci italiani.

DL3 (La Serie)

L’interrogatorio degli undici ragazzi costituisce una forma complessa con modalità attentamente imprecise:

Uno: Vero Verini è il più vecchio del gruppo, ha vent’anni. DL gli rovescia una bottiglia di anice lattiscente addosso, facendolo apparire colpa di un proprio movimento maldestro. Nel corso dell’interrogatorio, Vero Verini indica Fiorello Grassi come colui che ha portato in classe la bottiglia di alcol che ha permesso al gruppo di compiere l’atto violento. Ottiene un pacchetto di sigarette e una scatola di fiammiferi.

Due: Ettore Domenici, viene indicato come “un altro furbo”, ha diciassette anni. Dichiara di avere visto Fiorello Grassi mettere in bocca un fazzoletto alla maestra. Poco dopo anche questo testimone indica Fiorello Grassi come colui che ha portato in classe la bottiglia che ha scatenato l’aggressione. Ottiene, come il precedente, un pacchetto di sigarette e una scatola di fiammiferi. Ma gli viene richiesto di fare dei disegni e scrivere delle parole, cose che non erano state richieste prima. Se consideriamo che Ettore Domenici è il figlio di ciò che verrà poi rivelata come la Mente assente, otteniamo che sono stati interrogati, subito, i due limiti estremi (il più giovane e il più vecchio, il più vecchio è il maestro della scrittura), mentre non si capisce quale sia il punto centrale, cioè dove questa serie sbilenca possa trovare il suo naturale equilibrio verso il pieno innaturale squilibrio.

Tre: DL chiede a Mascaranti di portargli un testimone qualunque, ma non Fiorello (il fatto che non sia ancora il tempo per Fiorello, pone la domanda: “Quando deve comparire Fiorello?”). Il tempo in cui Fiorello può comparire è un tempo del tutto diverso. Sono le quattro del mattino. Alle ore sei sappiamo che DL ne aveva interrogati altri quattro (Silvano Marcelli, Paolino Bovato, Ettore Ellusic, Carolino Marassi), totale: 6. Adesso DL chiede che gli venga portato Fiorello Grassi [che è il n. 7]; DL rovescia la seconda bottiglia di anice sulla sedia dove poi lo costringe a sedersi. A questo punto FG introduce una nuova nota (tra le dodici complessive disponibili, cioè a disposizione): egli è omosessuale, per questo tutti danno la colpa a lui: «Fiorello Grassi chinò il capo. Ecco, adesso si capiva, vedendolo così a capo chino, per le rughine che gli si formavano sulla fronte, che sedici anni era la sua età ufficiale, ma che mentalmente ne aveva diversi di più, era uno di quelli che psicologicamente invecchiano molto presto. “Lo sapevo che avrebbero dato la colpa a me,” disse con amarezza. “Ero certo.” E restava a capo chino.» (p. 52). «Allora [DL] gli si avvicinò, ma non gli mise le mani sulle spalle, come aveva fatto col Carletto Attoso, anzi, gli passò una mano sul capo, negli spinosi capelli neri, così folti che era come carezzare una spazzola dura.» (p. 53).] C’è uno squilibrio (quello rappresentato da Funerale a Berlino, che chiama una messa in equilibrio, che è rappresentato dalla Serie. Alla fine dell’interrogatorio Fiorello ottiene due pacchetti di sigarette e una scatola di fiammiferi.

Lo scrittore italiano è sempre uno sporcaccione. Forse perché l’Italia è la cosa sporcacciona fra tutte, senza sognare in sé la Cosa. DL che accarezza i capelli ispidi di Fiorello è parente prossimo del meticcio italiano Pier Paolo Pasolini, che “poetava” sulle erezioni dei sottoproletari che si spostavano nelle scalcagnate motorette disponibili allora nella maledetta Italia. Ma “poetare”, allora, nella maledetta Italia, è qualcosa che non ha nulla a che fare con il considerare Pier Paolo Pasolini come un poeta. Pier Paolo Pasolini era sporco non perché era un buliccio, ma perché era un meticcio italiano: Pier Paolo Pasolini era sporco, lurido, schifoso, così come ogni meticcio italiano non è altro che uno sporco, lurido, schifoso meticcio italiano. Lo scrittore italiano, così come l’Italia, è quella vecchia cosa sporca, vecchia sporca lurida cosa, quella vecchia cosa schifosa che deve essere scacciata e schiacciata da ciò che costituisce il cerchio del mondo (Heimskringla).

DL rinchiude FG nell’infermeria e formula la prima, fondamentale ipotesi per l’indagine: il Gruppo ha agito dietro comando di una Mente assente, che, potenzialmente, dovrebbe essere una “donna”, ma che ha anche qualcosa di diverso rispetto ad una “donna”, cioè in base a una classificazione di generi basata su luoghi comuni – che però si apre a una diversa modulazione della binarietà.

Gli interrogatori continuano:

4. Federico Dell’Angeletto (n. 8). È quello che, se beveva alcol, cadeva subito addormentato, come infatti gli è successo la sera della violenza. Per cui, non ha visto niente.

5. Michele Castello (n. 9) è l’undicesimo, diciassette anni, due anni di riformatorio.

Notare che rimane escluso un ragazzo: Benito Rossi, la cui scheda sintetica, che DL consulta in I/3 avverte: “14 anni. Onesti genitori, tipo violento”).

Il nome di Benito Rossi è l’unico a non comparire in nessun modo negli interrogatori svolti da DL (I/3, II/1-4). Il suo nome compare solo altre due volte nel romanzo, mentre non compare mai negli interrogatori, per quanto sia segnalato come “tipo violento”.

Vediamo che quattro persone vengono solo nominate, mentre di uno degli undici non viene nemmeno fatto il nome. La serie di undici persone elencate in ordine crescente d’età si presenta qui in modo apparentemente confuso, in realtà molto chiaro.

Vediamo che quattro personaggi vengono precisati: Carletto Attoso, Vero Verini, Ettore Domenici; e uno viene seguito attentamente (si tratta di Fiorello Grassi); altri 4 personaggi vengono appena nominati (si tratta di Silvano Marcelli, Paolino Bovato, Ettore Ellusic, Carolino Marassi); noi però sappiamo che 1 viene saltato completamente (Benito Rossi). È una serie scombinata che rimanda ad un funzionamento anomalo di una compagine che invece dovrebbe funzionare nel pieno delle proprie forze in quanto coesione del gruppo.

Ciò che si può definire come “funzionamento anomalo” è il gruppo che ha preso parte alla violenza contro la maestra. Ma questo gruppo non è una cosa isolata, essendo la parte scombinata di un sistema funzionante in un insieme di tutt’altre componenti: è lì che la maledetta Italia può vivere.

Per ciò che riguarda il delitto in sé, può essere usata la formula dispregiativa da sempre valida: “Fango” al fango, che è il destino di ogni forma ilica che comunque non ha diritto di vivere, come sono questi italiani, che, periodicamente, per cause naturali, tornano giustamente al fango.

I ragazzi del massacro (1968) è il romanzo che riguarda la Serie costituita in base alla presenza della mancanza in quanto Serie che si fa Serie incompleta proprio a causa dell’Invertito, che qui è riconosciuto come l’anello debole che si impiccia della catena.

Considerando l’ordine degli interrogatori dei ragazzi del massacro vediamo che gli interrogatori tendono a mettere in rilievo due punti: un punto debole, che cade più o meno a metà, e un punto mancante, che cade invece alla fine.

Nebbia e forma acefala sono ciò che distingue questo romanzo. Così come le sinfonie di Brahms: cioè l’intenzione di scrivere una cosa in grado di comportarsi come un corpo completo, pur non avendo la testa. Questo nuovo corpo, a tutti gli effetti, è ciò che chiede un nuovo tipo di congiunzione di corpi diversi, al di fuori di ciò che si è voluto riconoscere solo come l’unione legittima di corpi distanti. La nebbia si presenta in due forme diverse. Per attraversare la strada, per raggiungere il bar.

Una volta tornati in Questura, cominciano gli interrogatori: Ma vale la pena fermarsi per pensare intorno a questo movimento?

La lista degli interrogatori è così organizzata:

1. Carletto Attoso, il più giovane, 13 anni. (II/1) [1]

2. Vero Verini, il più vecchio, 20 anni. (II/2) [2]

3. Ettore Domenici, figura intermedia. (II/3) [Si chiude un ciclo] [3]

4. Altri 4, poco considerati: Silvano Marcelli, Paolino Bovato, Ettore Ellusic e infine Carolino Marassi. (II/4) [4-7]

5. Fiorello Grassi (II/4) [8]

6. Federico dell’Angeletto, Michele Castello (II/5) [9, 10]

Questione: Manca Benito Rossi (Benito Rossi compare altre due volte nel testo: nella risata al di sotto dei tetti scoperchiati di Milano (IV/2), che rimanda al confine orientale, cioè al deserto dei tartari; e nel resoconto finale delle violenze, quando è arrivato il suo turno, il suo turno di maledetto italiano bastardo, che tanto ha atteso nel mondo per dire finalmente la sua (V/7). L’italiano che si espande nel mondo, con le conseguenze che possiamo sempre vedere, è ciò che – dal punto di vista oggettivo – deve chiamare il pensiero alla divisione tra ciò che è vita indegna di vivere e ciò che è vita che deve essere confermata nel suo pieno diritto di vivere. Questo è il motivo per cui noi dovremmo sempre chiederci: “Che cosa vuole, questo bastardo di italiano?”

Gli undici ragazzi del massacro, subito fermati, sembrano costituire una serie acefala così strutturata:

(5 elementi normalmente anormali + Anello debole + 5 elementi normalmente anormali) + Mente

Questi ragazzi del massacro possono essere ripartiti in due specie: come normalmente anormali, quelli di cui si può dire qualcosa; come normalmente anormali, quelli di cui invece si ha ben poco da dire. Notare che è l’Anello debole (cioè l’invertito) a dividere la serie in due gruppi funzionali di cinque elementi ciascuno, mentre è la mente assente (potenzialmente una “donna”) a impedire la chiusura del gruppo. A causa della presenza di un omosessuale maschile nel punto dell’“anello debole”, questa “donna”, in quanto punto acefalo, può fare pensare a un omologo femminile dell’Anello debole, cioè ad una lesbica, ma invece si vedrà che non è così; notare invece che il sospetto di una Mente Assente della Serie, cioè l’elemento più importante di essa, si presenta alla fine, alla coda anziché all’inizio, cioè alla testa, come sarebbe stato più logico.

Considerando la Serie a partire dall’Anello debole come centro, vediamo che entrambi i gruppi ai due lati lo indicano come il punto cui spetta la colpa; considerando la Serie a partire dal Capo, che è però la Coda, vediamo che il gruppo funziona secondo le direttive, di una mente, che si determina però come Mente, che si mantiene mente in quanto Mente assente.

Quando Carrua chiede a DL che importanza abbia il fatto che Fiorello Grassi si sia dichiarato “invertito”, DL risponde richiamando la Serie: «“Mi serve a stabilire che se c’è qualcuno che davvero non ha partecipato al massacro della giovane maestra, è lui. Se c’è qualcuno che davvero è stato costretto a stare lì, ad assistere, sotto le minacce, è proprio lui.”» (pp. 60-61). A questo punto l’Invertito ha il suo posto stabilito nella Serie, così come ha ciò che gli permette di inchiodare il patetico Robin J. Hallam al suo monoposto in attesa che l’elegante ometto di Dawlish gli dia fuoco alla fine – per quanto l’elegante, in superficie, Len Deighton, a differenza del più goffo Giorgio Scerbanenco, in superficie, non sia mai giunto a pensare per Serie, cioè a pensare l’eleganza disinvolta della Serie, come dimostra il violento romanzo di GS, cioè a pensare la profondità. Fiorello Grassi, in quanto punto d’equilibrio della Serie dei Ragazzi del massacro, è il punto d’equilibrio di una serie suonata per suonare stonata a tutti gli effetti.

Pensare la profondità è ciò che dà il “la” al tono completamente diverso. Ricordare il modo in cui DL aveva previsto questa struttura squilibrata; si era infatti procurato tre pacchetti di sigarette e due scatole di fiammiferi: un pacchetto di sigarette e un pacchetto di fiammiferi per il normale anormale, due pacchetti di sigarette per l’anormale in assoluto, il cui compito era far saltare l’equilibrio.

È stata pensata una Serie squilibrata, di cui l’invertito occupa in pieno quel punto vuoto; la mente pensante, per quanto occupi il posto alla fine, che meno che mai richiede il pensiero.

In III/2: FG chiede di parlare con DL. DL lo fa portare nel suo ufficio. «Di solito gli anormali gli erano odiosi, specialmente se così giovani, ma per ragioni profondamente oscure, quello gli ispirava compassione.» (p. 69). La ragione è la forma della Serie (che a questo punto DL intravede): l’omosessuale/invertito non è più l’anormale sbirciato di sbieco, come avveniva in Funerale a Berlino, ma è il punto di una Serie precisa, che ha la sua bellezza in quanto forma conclusa, che non esclude la scelta di abbatterlo, ma che, in quanto Forma, anche se forma degenerata, merita lo sguardo dell’assoluta meraviglia – che può essere la forma del museo o la forma del romanzo giallo.

L’insieme {(5+1+5)+1} si presenta come una parodia del gruppo di dodici, che rimanda alla Männerbund, costituendo questo particolare Gruppo una parodia della Männerbund, almeno per due motivi:

1) è una banda sgangherata di balordi;

2) non è una banda di guerrieri, bensì una banda di balordi che si scaglia contro un falso bersaglio, e non contro un nemico della comunità (come la Männerbund, almeno a livello teorico, avrebbe invece dovuto fare); ma non è, soprattutto, una congregazione di uomini, perché due suoi componenti sono tutt’altro che uomini, trattandosi infatti di un uomo invertito e di una donna doppiamente invertita – e questi due elementi occupano i due punti fondamentali della struttura: il Centro, considerando la mancanza del Capo (quindi undici elementi divisibili in “5 + 1 + 5” + il Capo; e infine perché la struttura “Schiera + Capo”, che è alla base della Männerbund, è piegata alla struttura che imita invece qualcosa completamente d’altro: “Schiera Balorda + Contro Capo”, infatti il Capo è qui posto alla fine della Serie (cioè alla Coda), trattandosi nient’altro che di una Serie Acefala. La Donna è doppiamente invertita, perché rimanda a una lesbica, che però non ha nulla a che fare con il massacro, mentre ha a che fare con la determinazione della donna, che determinerà una donna come donna, ma in quanto antidonna.

Ogni elemento della serie è intenzionalmente capovolto. Bisogna comprendere perché.

Consideriamo il periodo in cui il romanzo si svolge. Il romanzo comincia con una serata nebbiosa e fredda. «Uscirono, lui [DL] e Mascaranti, fuori dell’ospedale, sul bordo del marciapiede, si fermarono, avvolti nella nebbia gelida, come imbavagliati, si vedeva un solo lampione, e il lampeggiante azzurro dell’Alfa della polizia che li attendeva dall’altra parte della strada, il resto era un buio grigio e ovattoso che attutiva anche i rumori, anzi li soffocava.» (I/1, pp. 17-18), continua con giornate fredde nelle quali il sole comincia a fare capolino, in II/5, dopo che il primo abbozzo di interpretazione da parte di DL è stato raggiunto, c’è una giornata di nebbia luminosa: «Mascaranti si alzò, andò vicino alla finestra. “Il sole,” disse. Infatti la finestra si era tutta accesa di rosa nebbioso, la nebbia era divenuta rosa, e la luce della lampadina non si notava più.» (p. 57). Siamo nelle giornate di Carnevale. Altri esempi:

«Quando Carrua fu uscito [DL] si mise la giacca, uscì, fermò un tassì e andò a casa. Sembrava una giornata di primavera, una primavera inverosimile, satura di nebbia, ma nebbia trasparente, che lasciava passare la luce del sole incendiando quella stessa nebbia. Ci si vedeva al massimo per cinque o sei metri di strada, ma quel non vedere oltre era pieno di luce solare. In piazza Leonardo da Vinci la nebbia era ancora più fitta, eppure ancora più luminosa, e quasi non si vedeva la cima degli alberi del piazzale giardino.» (II/6, p. 63.)

«[…] poteva sembrare una giornata di primavera assolata, se non fosse stato per il freddo.» (III/4, p. 76.)

«Carolino, da figlio, nipote e bisnipote di contadini sentiva istintivamente odore di primavera, anche in quel freddo e in quel pulviscolo di nebbia che galleggiava nell’aria.» (IV/6, p. 137.)

«Erano le sei di sera, ma non era ancora buio, nonostante il freddo e la nebbia, la primavera urgeva come aria in un colorato pallone per bambini che sta per scoppiare.» (V/3, p. 160.)

«Anche se erano soli [DL e Carrua] nell’ufficio non era una buona ragione per mettersi a urlare in quella insolita notte milanese, metà primavera e metà inverno, un po’ bisognava aprire le finestre, e un po’ bisognava accendere la stufa elettrica, perché il riscaldamento centrale era guasto.» (V/8, p. 190).

Che cosa vediamo, nella lunga sfilata dei testimoni davanti a Duca Lamberti? Vediamo una sfilata di carri di Carnevale: come Carnevale del Tempo, la sfilata di carri di Carnevale che I ragazzi del massacro propone è una sospensione del Luogo; la sfilata di questi carri di Carnevale richiama il rogo del pupazzo di Guy Fawkes il 5 di novembre, che ha portato alla sua brutta fine il personaggio di Robin J. Hallam alla fine di Funerale a Berlino.

I personaggi che incontriamo in questi due romanzi non sono personaggi a tutti gli effetti, ma “carri” che mostrano i personaggi in una sfilata sopra dei carri allegorici, così allegorico è il personaggio di Guy Fawkes in Funerale a Berlino, che però costa la vita al personaggio di Robin J. Hallam.

Consideriamo la struttura del romanzo I ragazzi del massacro ignorando la questione psicologica dei personaggi, ma considerando il passaggio dei vari elementi presenti sulla “scena”.

Il merito di Giorgio Scerbanenco è di avere presentato qui una assoluta parodia della Männerbund senza cadere nella decameronizzazione. Len Deighton è sempre elegante, ma che che cosa avrebbe fatto un italiano (un italiano vero), se fosse stato al posto di Giorgio Scerbanenco?

Che cosa si intende per “decameronizzazione”? Si intende un modo di raccontare che richiede appena un risolino di consenso, anziché un posto per il pensiero che, in quanto arte di leggere deve chiamare l’arte di scrivere. Dante, Petrarca, Boccaccio sono i pupazzi che gongolano su un carro che trasporta la decameronizzazione in tutto il vasto mondo morto. Questo perché l’Italia non è un paese, ma un carro di carnevale trascinato a scorrere sopra un terriccio che non c’è mai stato, perché l’Italia è il terriccio tanto calpestato quanto mai esistito, ma che nel tempo è diventato il loco-pagliaccio sempre più ingombrante, perché l’Italia è ciò che ha invaso tutto il mondo – ma anche il mondo che l’Italia ha invaso – con i suoi carri di carnevale che portano in giro Dante, Petrarca, Boccaccio, e tutti gli altri italiani del carro – è diventato nel frattempo un mondo che non esiste, come la terra d’America segnata dalla presenza dei nativi nei racconti di Lovecraft, perché tutto ciò che l’Italia tocca con i suoi carri di carnevale, pieni degli italiani del carro, lo fa svanire in quanto terra (cioè possibilità di terra che la presa da parte di una razza avrebbe potuto realizzare), essendo l’Italia solo sfilata di carri di carnevale, mondo che non è mai esistito, né mai avrebbe dovuto avere il diritto di esistere. Allora si sporge puntuale la domanda “come reagire di fronte alla manifestazione del delinquente (l’uomo delinquente & la donna delinquente)?” La risposta più logica per tenere buona (far rientrare) questa sporgenza è la soppressione del fenomeno “delinquente”, ma perché questo non è possibile?

Perché questa domanda tocca confini così difficili da superare?

Il confine è toccato come ciò che viene cercato senza sapere che cosa si cerca: «[DL] Risfogliò a una a una tutte le carte. Cercava qualche cosa, ma non sapeva che. Sapeva di aver detto a Livia di attenderlo che sarebbe tornato subito, ma dopo oltre mezz’ora era arrivato a cartella nove, e senza aver trovato niente. Non trovò niente neppure nella decima e nella undicesima. Ma forse quando non si sa che cosa si cerca è difficile trovarlo. | Era rimasto un solo foglietto, non ricordava più neppure che cosa era, poi capì leggendolo: era la mappa. La descrizione di tutto quello che era stato trovato nell’aula A della Scuola serale Andrea e Maria Fustagni. Numero 1 Maestra, naturalmente. Numero 2 Slip. Numero 3 Scarpa sinistra, e così via, numero 11 Reggiseno, numero 16 Pezzo orecchio, numero 18 Cinquanta centesimi svizzeri.» (p. 124).

I confini dell’Italia sono confini fasulli perché l’Italia è quella maledetta cosa che non esiste, ma che, attraverso i suoi confini, agisce, come dimostra Il deserto dei tartari nella lettura presentata in The Idea of North: «Buzzati’s greatest imaginary and mountainous north is in his poetic novel of the permeable northern frontier of Italy, Il deserto dei Tartari / The Tartar Steppe), finished by 1939, but not published until 1945. All the southerly frontiers of Italy are defined without ambiguity by the sea, but the northern frontiers, which are also frontiers of the Latin and Germanic worlds, are shifting, shift, have shifted.» (PD, p. 113).

Subito dopo la possibilità del superamento dei confini d’Italia, arriva la notizia che il magistrato ha firmato l’affido per l’uscita di Carolino dai confini del riformatorio, fino ad allora teoricamente insuperabili.

Notare che I ragazzi del massacro tocca due dei confini d’Italia più importanti: il confine a nord con la Svizzera, il confine a est con il mondo slavo. Il confine è la vicinanza che porta al mondo diverso, ma che pure apre l’altro mondo all’invasione da parte di ciò che di sporco trova il suo nido nel piccolo mondo accovacciato vicino al confine, in attesa di attraversarlo per diffondere ciò che di spicciolo e di irregolare si trova in quella parte del confine. Il confine a Est riguarda il meticciato mongolide, il confine a Nord riguarda il meticciato negro-semitoide: il confine a Est conferma una forma di meticciato; il confine a Nord abolisce una forma di meticciato.

La Serie così organizzata indica il passaggio lungo la Serie, che indica tre passaggi precisi lungo una serie di tre sottoSerie diverse:

1) La serie acefala. (Il sospetto. L’organizzazione intorno all’anormalità.)

2) La serie sfoltita. (L’interrogazione. Il riso per la rivelazione della relazione omosessuale.) Se consideriamo la Serie come stabilita in quanto “Serie acefala” abbiamo questa presentazione della serie in quanto presentazione delle derivazioni della Serie fondamentale: «E mentre lui [Carolino Marassi] non rideva, nella grande lugubre sala, gli altri sette ragazzi, nonostante la presenza dei tre sorveglianti, del direttore, della polizia, si misero a ridere, e anche se non ridevano molto forte, il salone era così grande che le risa echeggiarono, di finestra in finestra, di muro in muro. Rise Carletto Attoso il protervo; rise Benito Rossi il grassone, muscoloso, quello che presumibilmente aveva spezzato le costole alla giovane maestra e signorina Matilde Crescenzaghi, fu Michele e Ada Pirelli; rise Silvano Marcelli, sedicenne eredoluetico, e rise Ettore Domenici, il diciassettenne dalla madre che batteva nei paraggi di viale Tunisia; e rise Michele Castello il diciassettenne dedito – non avendo voglia di lavorare – ai signori anziani e generosi; e risero Ettore Ellusic dagli occhi di slavo e Paolino Bovato dagli occhi torbidi di intossicato di oppio. Risero tutti e sette, escluso Carolino Marassi che aveva detto la frase che aveva suscitato tanta ilarità: “Erano fidanzati”, ed erano tutti i ragazzi della Scuola serale Andrea e Maria Fustagni, esclusi Federico dell’Angeletto e Vero Verini che essendo maggiorenni, erano nelle vicine carceri di San Vittore, ed escluso Fiorello Grassi che, per motivi non ancora chiariti e del tutto suoi personali, si era buttato dal tetto dell’Istituto di Rieducazione Cesare Beccaria. Risero tutti, ma risero solo per tre secondi, poi sotto lo sguardo di Duca, si tacquero di colpo.» (pp. 114-115). A ridere, praticamente, sono un gruppo del tipo (8 + 2 = 10), mentre rimangono esclusi l’Anello debole e la Mente acefala, che porta a un totale di 12, mentre viene incluso il testimone che non era stato ascoltato nella notte degli interrogatori, Benito Rossi.

Il luogo che le due donne occupano in quanto Coppia non ha nulla a che fare con la posizione della Mente acefala in quanto punto in una Serie. La forma del luogo della lesbica avviene in due movimenti, nel primo movimento si raggiunge la persona che indica il luogo dove si può incontrare la lesbica nel suo rapporto di coppia, che non ha nulla a che fare con la mente acefala, come in un primo punto si poteva credere, nel secondo movimento si raggiunge ciò che non ha nulla a che fare con la lesbica.

Si può qui richiamare la tecnica del “tetto scoperchiato”, che comunque è una tecnica tipica del romanzo, perché il romanzo chiama una tecnica di questo tipo, cioè di visione dall’alto che taglia e toglie il tetto – se necessario. (MTO)

3) La serie completa. È rappresentata dalla confessione di Carolino Marassi a DL, che presenta la serie completa: la Donna antidonna (che adesso occupa il primo posto – che le spetta, e non più la posizione finale), che incita il figlio a violentare un’altra donna, che ella stesa ha cominciato a spogliare per la Schiera, che è però l’Antischiera). Notare l’attenta e beffarda composizione di ciò che porta alla serie delle dodici note: l’invertito in posizione mediana, la lesbica che non ha nulla a che fare con l’aggressione, ma che permette di dare un volto alla Mente della serie quale perfetta antidonna, che occupa la posizione precisa della Mente acefala.

Cioè l’indirizzo da visitare da parte di DL e LU, che permetterà loro di incontrare la falsa antidonna, che porterà alla vera Antidonna, che non è, giunti a quel punto, l’“antidonna” che ci si aspettava di trovare in qualità di lettori. DL e LU visitano l’ambiente della lesbica in III/9, ma quello che entrambi percepiscono è che il luogo che le due donne occupano in quanto parte del loro rapporto di coppia, non ha nulla a che fare con la Serie, che invece coinvolge la Schiera in quanto Antischiera e che chiama una donna nel ruolo di “antidonna” in posizione di comando.

La Serie si svolge in orizzontale, la Coppia si avvolge in verticale; GS è intervenuto nel punto in cui la Serie si svolgeva in orizzontale, cioè in quanto antischiera, degenerazione della forma orizzontale, e la coppia si delineava in verticale in quanto degenerazione della forma verticale, collegando poi entrambe le forme all’inizio, in quanto Cellula, e alla fine, in quanto Vuoto, che è ciò che comprende la maledetta Italia.

L’ambiente di III/9 porta a IV/3, che è il luogo dove il rapporto tra le due donne si avvita. Il punto di passaggio dove le due forme convivono per una frazione – come, lo avrete notato, nel gatto di Schrödinger dell’esperimento mentale. Si precisa la questione “lesbica”: «Non c’era molto amor fraterno in quel discorso [fatto dalla sorella di Paolino Bovato], ma c’era molta verità. Duca vide la professoressa che metteva una mano sulla spalla della ragazza, una bella mano quasi maschile, dalle unghie cortissime e quadrate.» (p. 121). Il rapporto lesbico si avvita in verticale, anziché permettere la Serie orizzontale, come aveva fatto la presenza dell’omosessuale maschile nella Schiera.

Questo è fondamentale: l’omosessuale maschile chiama la propria posizione nella Serie (che GS ha precisato, ma che Len Deighton non è stato in grado di fare), perché la Serie è orientata alla mascolinità, ma l’omosessualità femminile non chiama in causa una posizione analoga, e deve ripiegare su una posizione più tradizionale per la chiusura dell’intera Serie.

Infatti Carolino Marassi sfugge al pedinamento della polizia con una tecnica che richiama quella usata da Raskol’nikov, convertita da verticale a orizzontale: passare di balcone in balcone fino a raggiungere il livello strada, mentre l’omicida di Delitto e castigo si nasconde in un appartamento temporaneamente vuoto perché in ristrutturazione, passando di piano in piano, in attesa di poter raggiungere il livello strada senza incontrare le persone che avrebbero potuto riconoscerlo lungo le scale.

Il meticciato si riconosce solo in un modo di scorrere la terra oppure in un modo di occupare uno spazio temporaneamente.

Marisella Domenici è una donna e non una “antidonna” come potrebbe essere indicata una lesbica secondo le norme dell’epoca che permettevano la composizione di questo romanzo, ma una donna innamorata di suo marito e che sceglie di vendicare il marito morto, ma che lo vendica dando piena voce alla sua vera natura di “non donna”, cioè di antidonna; e qui ella ottiene il suo posto preciso nella Serie: ella è infatti una madre che spoglia un’altra donna e incita il proprio figlio a violentare quella donna per primo, incitando poi gli altri componenti della “schiera” (cioè della Antischiera che ha al seguito) a seguire l’esempio del figlio. È quindi una antidonna a tutti gli effetti, ben superiore a quello che, per la mentalità dell’epoca poteva costituire l’essere di una lesbica: è il nemico di razza, che fornisce la nuova arma, che non è l’arma fornita dalla decameronizzazione, perché qualcosa di ben altrimenti più letale.

L’invertito Fiorello Grassi è il primo passo, che porta al grande passo falso della lesbica, in quanto doppio passo falso che indica la lesbica come colei che può fornire indicazioni che conducono alla vera Mente degenerata, la Mente assente che apre al tutto, cioè all’antidonna, mentre non ha nulla a che fare con il massacro. Infatti il passo falso della lesbica è solo un passo doppio, che porta alla vera Serie completa, dove cioè la donna torna ad essere donna, nel senso che, per la mentalità dell’epoca, si riteneva essere la “vera donna”.

Bisogna considerare che a questa antischiera si contrappone la schiera (che sarebbe una “anti-antischiera”) proposta da DL, che deve spingere Marisella – cioè l’antidonna, riconosciuta pienamente come vita indegna di vivere, entro ciò che questo romanzo considera come “vita indegna di vivere” – al suicidio, e quindi al suo giusto cammino: the road to Hel. Alla sbilenca antischiera di Marisella Domenici, la miserabile donna che vendica il suo più che meschino marito, si contrappone la vera Antischiera evocata da DL come arma contro il colpevole, che rischia altrimenti di farla franca.

DL a Carrua: «“Io non voglio arrestarla. Io voglio la morte di quella donna.”» (p. 191). Contro quella donna (che in realtà è una antidonna), DL scatena una schiera, che in realtà è la vera antischiera, nel momento in cui non c’è più la Schiera: «“Pensa che è una drogata, una donna vecchia, corrosa dalla lue, che si sente sola perché il suo ultimo sfruttatore, suo marito, è morto, e che non pensava di essere mai scoperta così completamente. Tu lo sai che quella gente spera sempre di farla franca, ma quando dai giornali saprà che la polizia sa tutto, che non ha scampo, che presto o tardi finiranno per prenderla, che non può più girare per procurarsi droga, cosa pensi che avrà voglia di fare?” | Già da qualche istante Carrua aveva capito. “Si ucciderà.” “Esattamente. La troveranno in qualche posto piena di sonnifero, o si butterà da qualche palazzo. Senza nessun bisogno di cercarla. Non occorre smuovere neppure mezzo agente per arrestarla: si arresterà da sola.”» (p. 193). “Arrestare” vuole qui – esattamente – dire “porre fine alla vita”: si arresta ciò che altrimenti andrebbe avanti togliendo la vita: si arresta la vita indegna di vita lungo il tragitto del suo percorso; si toglie la vita alla vita indegna di vivere.

Esiste il nemico di razza e deve essere eliminato da ciò che per sua natura proteggeva la razza: la Schiera che si muoveva su indicazione del Capo.

DL3 è un romanzo basato tanto sulla Serie quanto sulla Schiera: ma perché dare questa importanza alla Serie (che è la Schiera) nel momento in cui, dal punto di vista razziale, non c’era nulla che potesse condurre a un elemento così ingombrante come la Serie (di dodici punti), cioè la Schiera di dodici guerrieri come la vediamo nei documenti del tardo medioevo islandese? Questo è un qualcosa che poteva funzionare solo in vista di un Vuoto – e questo Vuoto è ciò che deve essere rintracciato, perché è di un Vuoto che si parla, cioè della maledetta Italia.

La persona che ha dato vita all’Antischiera per vendicarsi della sua nemica, è portata a evocare la Schiera per porre fine alla sua vita.

Sia chiaro: tutta questa sfilata grottesca di carri può avere luogo in una antiterra come vuoto che si presenta come “terra” al di sopra di uno sfondo. Ricordare il luogo dove Carolino viene ferito da Marisella: è un punto vuoto, un luogo abbandonato, qualcosa che c’è nel suo pieno non esserci.

La formula Serie deve essere abbandonata a favore di un’altra formula. La Serie è chiara, però bisogna precisare il rapporto con la Cellula e la Coppia. Qual è il rapporto tra Serie, Cellula e Coppia? Perché l’uso dell’una esclude gli altri usi? Ma ricordare che tutto ha la giustificazione nel Vuoto – in cui consiste la maledetta Italia.

A questo punto ci si potrebbe chiedere: che funzione ha la bambina morta, la piccola Sara, figlia della sorella di DL, che vediamo scomparire in DL3? Se è un insieme che richiede una collocazione per il sacrificio, è un insieme per cui non si riesce ancora a trovare una collocazione, trattandosi appunto della collocazione del sacrificio, cioè del sacrificio della primavera, come il balletto di un primitivo (falso) meticcio russo (vero) aveva da tempo portato su un palcoscenico d’Europa qualche tempo prima, e poi sui palcoscenici di tutto il mondo – ormai riempiti di ciò che è meticciato (questo perché ciò che è maledetta Italia nel mondo, vince sempre).

Quando gli interrogatori finiscono, si ha la notizia della morte della piccola Sara.

La Serie completa, evocata nel romanzo I ragazzi del massacro, ha invece questa sbilenca e grandiosa formula definitiva:

n Maschi + Anello debole + n “Maschi” + Antidonna

DL4 (La Coppia)

I milanesi ammazzano al sabato (DL4) è il romanzo della coppia che vive nascosta in un punto del mondo senza chiedere nulla al mondo, che pure avverte esserci attorno – ma con la consapevolezza che questo luogo nascosto è un piccolo luogo nel mondo, una cellula, non il mondo fatto Vuoto, quindi è un andare che non ha che fare con il Vuoto, perché non considera il Vuoto. La Coppia così determinata è infatti ciò che non va da nessuna parte, contrariamente a quanto accadeva in DL1.

Questo romanzo (DL4) mostra come si possa vivere soddisfatti sfuggendo alla dimensione ingombrante della Serie (DL3) quanto alla dimensione inquietante della cellula privata (DL1), che si determina come necessità di uscire dalla unicità.

Ricordare che l’identikit orchestrato da Duca Lamberti in DL4 svincola le due forme di cellula presenti in DL1.

Se la domanda che, adesso, deve essere posta, suona come “cosa c’è attorno a me?”, allora il Vuoto non può che essere il vuoto che è la maledetta Italia con la sua contraffatta “cultura”, cioè “lavoro italiano”, “lavoro sporco” (Italian job), terriccio sporco, che deve giacere al di sotto, come il terriccio che accetta una latrina. Questo si manifesta perfettamente nei viaggi in aereo che intervengono nella composizione di DL2, che rappresentano l’Italia come il vuoto che c’è sotto: il vuoto che l’aereo passa volando dagli Stati Uniti alla maledetta Italia, poi dalla maledetta Italia agli Stati Uniti e quindi di nuovo dagli Stati Uniti alla maledetta Italia.

Questo vuoto si stabilisce a partire da un Vuoto, perché a stabilire questi voli è sempre la vita indegna di vivere, qualunque sia la diversa motivazione: decisione di uccidere, decisione di farla franca, decisione di confessare il delitto commesso: il problema che sempre rimane, riguarda sempre il problema della vita indegna di vivere.

Il Vuoto che è la maledetta Italia è il fosso in cui cadono i personaggi del Decameron del meticcio italiano Giovanni Boccaccio, vuoto latino, vuoto che è latrina. Ogni meticcio italiano di professione scrittore deve parlare sempre di merda.

La coppia diabolica era vita indegna di vivere, lo Stato non considera la necessità di sopprimere la vita indegna di vivere, per cui qualunque iniziativa privata in proposito non è altro che un “delitto” che “chiama” il castigo, se si pensa che esiste un fine allo scopo di ottenere una espiazione. Il Vuoto, cioè l’Italia, è ciò che stabilisce la norma di “Delitto e castigo”, che ancora ha funzione di norma. L’uccisione della Coppia diabolica (vita indegna di vivere) è equiparata all’uccisione della malata terminale di cancro (vita che chiedeva di essere posta alla fine perché si riconosceva autonomamente come vita indegna di vivere).

Ma come si presenta, in questo romanzo, la questione della Coppia che vive indipendentemente dal Vuoto che la stringe tutto attorno? Noi sappiamo che, nell’epoca della riproducibilità tecnica, ciò che è Coppia diventa copia: nella forma di Amanzio Berzaghi, che si rivolge a DL per chiedere di trovare la figlia ormai scomparsa da cinque mesi. La figlia, che egli sembra presentare come una bambina, è invece una ragazza di ventotto anni, molto bella, molto alta, affetta da ninfomania. La forma Donatella Berzaghi comprende la Cellula di forma 1 quanto la forma di Cellula 2.

Amanzio Berzaghi sostiene che l’unico modo di proteggere la ragazza era quello di assicurarle una comoda vita in un ambiente protetto, cioè sbarrato nei confronti dell’esterno, come egli aveva fatto in modo di garantirle.

1) Se I ragazzi del massacro aveva nella serie la sua forma fondamentale (che è il capovolgimento della Männerbund), I milanesi determina invece la forma fondamentale nell’asse polare (la figura di Donatella Berzaghi), attorno al quale tutto ruota decomponendosi – perché anche la composizione della Serie in DL2 si trattava di una decomposizione della Serie di dodici elementi (che potevano richiamare le dodici note quanto i dodici berserkir – in una specie di pallio totemico. La verticalità è la dimensione di questo romanzo. Ricordare che la protagonista è una persona di alta statura, indicata sul metro e ottantacinque, del peso di ottantacinque chili (quindi che pesa con tutta la sua forza di gravità su quel niente che è la maledetta Italia), che sfrutta la possibilità di mostrarsi dal balcone di casa per attirare gli uomini; per questo motivo il padre ha fatto bloccare ogni finestra di casa.

3) L’elemento scatenante è allora la ragazza portata fuori dal luogo (amico o nemico) nella quale ella era stata rinchiusa (= ella viveva rinchiusa): così DB è fatta uscire fraudolentemente da casa “sua”, cioè il luogo dove il padre, amorevolmente, la rinchiudeva ogni giorno per vivere nell’ombra, come la prostituta Herero Akaunu è fatta uscire da DL dalla casa dove, ignobilmente, era rinchiusa per esercitare il suo mestiere d’ombra. In questo stare richiuso, per mestiere d’ombra, o per scelta di forma di vita come forma destinata all’ombra, l’unica via d’uscita è lo spazio in cui DB è infine rinchiusa – orizzontalmente – nel covone di paglia al quale poi viene dato fuoco: a un asse polare verticale si contrappone un asse orizzontale.

Donatella Berzaghi è fatta uscire di casa (motivo scatenante del romanzo in quanto forma-romanzo) e tenuta nascosta fino a notte. Dove? In un appartamento dello stesso stabile di cui una persona coinvolta ha la possibilità di accesso. È la stessa logica dell’episodio fondamentale di Delitto e castigo di Dostoevskij, l’uccisione della vecchia usuraia, cioè l’uccisione del pidocchio che rimane il singolo pidocchio, che scatena la questione fondamentale, riguardante l’uccisione del “pidocchio” che è l’insieme di un gruppo di esseri umani – vale a dire: qual è la differenza tra un pidocchio e un essere umano, giunti a questo punto?

Se consideriamo l’episodio iniziale di DL2, vediamo che esso rimanda alla struttura dell’episodio del delitto di Delitto e castigo: Raskol’nikov compie il duplice delitto / la sconosciuta compie il duplice delitto / DeC: lascia i due corpi nell’appartamento / DL2: lancia i due corpi di piena vita indegna di vivere nel vuoto / DeC: fugge attraverso la scala e trova riparo nell’appartamento vuoto / DL2: scappa in orizzontale e chiede un passaggio a una macchina, che, come ella stessa argomenta, potrebbe anche identificarla / DeC: trova un nascondiglio nell’appartamento dove si svolgono lavori e che permette di riconoscere il luogo dove si era nascosto. DL4 nasconde invece la persona fatta uscire nell’appartamento di sotto, momentaneamente vuoto.

L’uccisione di un pidocchio è irrilevante, secondo quanto esposto dal protagonista di Delitto e castigo (1866). In Umano, troppo umano I (1878), Nietzsche sostiene che proprio la grandezza è ciò che fa la differenza: «Quando il ricco toglie un possesso al povero (per esempio un principe l’amata al plebeo), nel povero nasce un errore; egli crede che l’altro debba essere del tutto scellerato, per togliergli il poco che ha. Ma quello non sente affatto così profondamente il valore di un singolo possesso, perché è abituato ad averne molti: quindi non può mettersi nei panni del povero, e commette un’ingiustizia di gran lunga minore di quanto costui creda. Entrambi hanno dell’altro un’idea sbagliata. Il torto del potente, che massimamente indigna nella storia, è molto meno grande di quel che sembra. Già il sentimento ereditario di risultare un essere superiore con diritti superiori rende piuttosto freddi e lascia la coscienza tranquilla: noi tutti poi, quando la differenza fra noi e un altro essere è molto grande, non avvertiamo più nulla di ingiusto e uccidiamo un moscerino per esempio senza alcun rimorso.» È importante che grandezza e distanza possano apparire collegate.

Ma se noi guardiamo il delitto descritto in DL2 attraverso il romanzo Delitto e castigo di Dostoevskij, vediamo che quello che manca (e qualcun altro potrebbe invocare) è il “delitto” di Stato, che comporterebbe allora la soppressione scientifica di razze e di tipi razziali indesiderati – e quindi la presa in carico della questione della “vita indegna di vivere”. Questa è una questione di filtro (non saprei quale altra parola usare al momento), che fa sì che il “delitto” non sia più delitto, come appunto aveva visto benignamente Nietzsche (questo penso io, ma altri possono pensare cosa del tutto diversa). L’uccisione di DB comporta l’uccisione di una persona esageratamente grande, ciò che si contrappone all’uccisione del pidocchio di Dostoevskij e dell’insetto di Nietzsche, per cui tale uccisione deve dare nell’occhio, prima di tutto al contadino, che scopre il cadavere che sporgeva tra i rovi – ma tutto è all’insegna della mancanza di una distanza – ma immaginiamo se, anziché l’uccisione di un singolo individuo, il romanzo mostrasse l’uccisione di tutta una razza (questo è appunto il romanzo che manca, cioè il romanzo della razza, il romanzo basato sul pensiero della razza – che è il pensare per razze), per cui il romanzo, che noi conosciamo con il titolo Delitto e castigo, verrebbe riformulato col titolo “Delitto è castigo” e porterebbe al tipo del romanzo che la nuova epica non dovrebbe mai chiamare.

La Forma base di I milanesi è l’asse polare, cioè verticale, la cui derivazione è la segregazione. Amanzio non solo tiene segregata la figlia minorata, ma si condanna egli stesso a una simile segregazione, realizzando, insieme alla figlia, un’unica figura perfettamente segregata attorno all’asse polare. Egli vorrebbe continuare a vivere così in eterno, contrariamente alla legge di natura, infatti ciò che egli rimprovera agli assassini della figlia è di avere spezzato questa segregazione innaturale: «Con la sua enorme mano da camionista egli la inchiodava sul fondo della vasca e la guardava, più che furente, delirante col solo occhio destro, il solo che vedeva. “Me l’avete portata via, e va bene, me l’avete messa nei vostri bordelli, e va bene. Ma perché me l’avete uccisa, disgraziati? Che male vi faceva? A me bastava sapere che fosse viva. Dimmi perché l’avete uccisa, se no ti annego, qui,” e le spinse la testa sotto il livello dell’acqua che continuava a scrosciare dal rubinetto tutto aperto.» (DL 4, p. 122).

Così è una questione di costruzione e decostruzione, di cui qui si tratta: costruzione come costruzione del romanzo – che tocca all’autore; decostruzione come impegno di decostruzione del romanzo – che tocca alla critica.

Asse polare e segregazione sono possibili solo attraverso quel nulla che l’Italia, forma maledetta, è sempre stata. Una forma contrapposta di segregazione è invece quello che chiude le ragazze nelle varie case di appuntamenti, che sorgono e vengono sfasciate via come, per caso, vengono poi sfasciati via gli edifici nei quali quelle “case” avevano trovato la loro precisa collocazione.

Ma la forma alternativa è quella rappresentata dai due fratelli dallo stesso nome. Questo è ciò che, leggendo DL2, è ciò che non permette di passare dall’individuo alla razza. (Notare come le due azioni criminali di I milanesi, l’uccisione di Donatella e l’uccisione dei tre colpevoli dell’uccisione di Donatella, siano scatenate da un motivo più che futile: Donatella viene uccisa perché “dava fastidio”, secondo quanto riferisce la repellente Concettina ad Amanzio; Amanzio uccide i tre colpevoli perché quel giorno, sabato, non doveva andare a lavorare, era libero, e quindi aveva anche la possibilità di andare a uccidere: la prima riposta, “Donatella è stata uccisa perché dava fastidio”, fa infuriare Amanzio e scatena in lui il primo omicidio del gruppo; la seconda risposta, fornita dal dignitoso Amanzio, “Ho ucciso perché era sabato e non dovevo andare a lavorare”, sconcerta DL, che pensa di avere sentito male, e poi si accorge di avere invece sentito bene – ma entrambe le risposte centrano perché c’entrano perfettamente quel nulla che è l’Italia, ossia c(’)entrano quel centro che non c’è mai stato (la maledetta Italia); ma c’entrandolo e centrandolo lo violano, lo spaccano come centro di bersaglio – che, appunto, non c’è mai stato, ma che pure è sempre esistito come cosa che non è mai esistita.

Così quello che viene chiamato è l’alingua italiana, che è ciò che lo scrittore che usa la lingua italiana utilizza – ma usare la lingua italiana è chiamare l’alingua italiana, che è ciò con cui lo scrittore italiano si trova ad avere a che fare, vomitandogli addosso la modesta arte del racconto che lo aveva accolto [ESS, pp. 225-226].

Quello che dovrebbe fare riflettere, faccio presente con piglio da Robin J. Hallam, è che il fatto di uccidere esseri viventi sia delegato a fattori irrilevanti (“uccidere perché dava fastidio” / “uccidere perché avevo il giorno libero”), anziché delegare allo Stato il compito di stabilire chi ha diritto di vivere e chi deve essere desinato alla definitiva rimozione (come appunto la targhetta “vita indegna di vivere” dovrebbe infine stabilire).

Si è notato come GS possedeva in pieno l’arte di dare i nomi? considerare i nomi del bretone Turiddu (Traditori di tutti), e dei due cugini con lo stesso nome di Franco Baronia (I milanesi ammazzano al sabato): il nome è il racconto che è l’opposto della saga in quanto “storia”, ma qui sfruttato genialmente, perché l’Italia non può avere una saga e “saga” non è una parola italiana, anche se il modo di parlare dei maledetti italiani fa uso abbondante della parola “saga”, rubata dai maledetti italiani, con perfetto gesto di pulizia esemplare, alla lingua islandese, perché gli italiani rubano sempre – anche quando non rubano, come in questo caso – perché non mi risulta che gli italiani abbiano rubato la parola islandese “saga”. Il romanzo è sempre ciò che avviene in questo rapporto di costruzione e decostruzione: costruzione come costruzione del romanzo nel suo interno, cioè attraverso il concetto di “autore”; decostruzione come impegno della critica dall’esterno.

Come in un Paese senza strade, le piccole strade finiscono di colpo appena fuori dai centri abitati, così AB aveva stabilito la vita della figlia in base a strade che non portano da nessuna parte, cioè ad uno sbarramento improvviso. È questo vuoto nel sistema degli sbarramenti che porta invece a scovare il modo di portare via DB.

Con il motto, che non c’è, “L’Europa alla razza bianca d’Europa”, l’Europa è allora solo l’esito di una possibile confrontazione, che meno che mai adesso c’è.

Il ritmo del meticcio italiano è ciò che non chiama.

DL2 (Il Vuoto)

DL2 è il romanzo dell’Italia come nazione che non c’è, cioè della nazione che c’è perché fondata sul Vuoto – che è il vuoto che non dovrebbe esserci, che è il vuoto anziché il Vuoto. Il tradimento è la cifra del vuoto, ma se il tradimento è effettuato nel Vuoto, allora si ha la cifra del “tradimento di tutti”, che è la cifra della parola che il teatro della crudeltà di Artaud riscatta come parola-oggetto fatta suonare nella cornice del rebus del sogno intravisto da Freud, chiamato da Artaud, rilanciato da Derrida, come formula della parola nella interpretazione dei sogni.

Lo scrittore italiano ferma, in un istante di grazia, il male che l’Italia è sempre stato nel mondo.

Si possono richiamare qui 2 libri: Un paese senza eroi (2015) di Stefano Jossa e La letteratura e il male (1957) di Georges Bataille. Il primo libro non tratta la figura di Duca Lamberti, per quanto avrebbe anche potuto farlo, per questione di tempo; il secondo libro non avrebbe comunque, per questioni di tempo, potuto trattare la figura di Duca Lamberti, mentre si potrebbe immaginare una stampante 3D in grado di inserire la figura di Duca Lamberti (e la sua visione del mondo) in entrambi i libri.

Ciò che gli altri tre romanzi del ciclo evocano appena, questo romanzo lo presenta nella forma di un personaggio preciso: il personaggio che si occupa della vita indegna di vivere – e che si occupa del lavoro che nessuno vuole svolgere: liberare il mondo dalla presenza della vita indegna di vivere. Il riconoscimento della vita indegna di vivere è il pensiero che la nostra modernità deve riconoscere come pensiero che porta alla rimozione della vita indegna di vivere, ma compito che spetta allo Stato di un paese che ha preso la terra e ha formulato una ideologia che comprende anche l’eliminazione della vita indegna di vivere.

Questo può portare a parlare di DL4. Il Vuoto è il vuoto che i viaggi aerei trascorrono. La distanza tra Stati Uniti e Italia è un vuoto che un aereo può ormai facilmente trascorrere, perché l’Italia è il Vuoto che ha portato in tutto il mondo come spazio agevole da percorrere, mentre l’Italia, come luogo raggiungibile, permane solo come terriccio dove nascondersi o compiere azioni che devono restare nascoste per sempre, perché perpetrate in un terriccio che non è terra, ma è terriccio: è terriccio indegno di vivere, così come gli italiani sono vita indegna di vivere.

Questi quattro romanzi di Giorgio Scerbanenco compresi nel ciclo di Duca Lamberti rappresentano il peso di vivere in quel vuoto che da sempre è stato vivere nella maledetta Italia, dove si espande la Mafia, per chi ha avuto la sfortuna di nascere nella maledetta Italia.

Parlare di uno scrittore italiano è accettare di parlare del meticcio italiano, oppure accettare di non parlare del meticcio italiano; ma è sempre qualcosa che chiama in causa il meticcio italiano, l’essere più disgustoso.

Pensare la letteratura come ciò che chiama il pensiero è pensare alla letteratura italiana come quella cosa che meno che mai potrebbe presentarsi come cosa che chiama il pensiero; così l’Italia non può avere un poeta, perché non poggia su una terra che è stata presa, ma può avere dei leggiadri parolieri, dei creatori di slogan al limite del buffonesco, forma della quale il meticcio italiano d’Annunzio è stato l’annunziatore più che perfetto: d’Annunzio è il creatore di una “poesia” come ronzio d’accostamento di parole, ronzio che è ronzio di motori d’aereo, la nuova forma di guerra, che d’Annunzio incarna in pieno; se d’Annunzio può infiammare la folla tramite il discorso, come dimostrato dal ricordo del discorso interventista nel Notturno, dove il “poeta” (cioè il meticcio italiano Gabriele d’Annunzio) forgia la folla dal Fuoco, così come aveva fatto la miserabile spoglia di Stelio Èffrena, è solo tramite l’aeroplano che il meticcio italiano d’Annunzio può presentarsi nella forma del nuovo guerriero vero, cioè come colui che sta nel vuoto e che dal vuoto del terreno è stato sollevato al vuoto dell’aria. In quanto genio del vuoto, il meticcio italiano d’Annunzio non era altro che un ciarlatano, un funambolo, un cantambanco, un più che serissimo buffone: un paroliere, un paroliere di quella antirazza di quell’antipopolo che, ben piantati nel terriccio d’Italia, costituiscono l’apparire degli italiani nel mondo, che è ciò che non può avere poeti, ma soltanto un mucchietto di parolieri, un bastardo di italiano che mette insieme un patetico mucchietto di parole che stanno bene insieme per quello che bisogna riconoscere come ciò che può essere chiamata opera di poeti.

Ogni scrittore d’Italia deve confrontarsi con il vuoto che è l’Italia, cioè con il terriccio e la polvere che è l’Italia – in quanto l’Italia è solo terriccio, polvere e fango di frane che restituisce fango al fango, quando, di tanto in tanto, il maledetto terriccio d’Italia… frana, restituendo fango al fango.

Si legge per imparare l’arte del disprezzo. Se esiste la Terra del Sacro, allora deve esistere la terra che deve essere alleviata dalla presenza di ciò che è vita indegna di vivere, che occupa la Terra del Sacro senza averne diritto – ma proprio il diritto di ciò che è vita indegna di vivere è ciò che non deve più essere considerato.

Chiusura

Leggere è avere a che fare con tutte le parole del mondo, che è appunto ciò che richiama alla differenza tra la parola e la lingua.

Così lo scrittore è colui che viene snidato in ciò che si era annidato in un nido sempre inconsistente di parole, sempre più accerchiato dalle giovani parole della critica, sapendo che la critica è ciò che collega l’Autore a tutte le parole del vasto mondo che ha sempre avuto intorno. Nel momento in cui si riconosce che l’Autore è solo un fuoco d’artificio.

Il sacro è ciò che unisce l’umano e il divino, gli umani e gli dèi. Questo è ciò che Hölderlin ha presentato in ciò che ha scritto.

Il meticcio è ciò che non pensa, ma ciò che, partendo dalla formula del meticciato, si è potuto stabilire come la formula del meticciato, che appunto lo definisce come azione. “Pensare” il meticciato è il modo di non pensare, che è il nodo che caratterizza la nostra epoca – epoca tanto triste quanto epoca sonora di diversi rumori, mi trovo io a constatare giunto infine a questo punto gramo. Nell’epoca in cui la razza non pensa, il meticcio simula con più che attenta strategia il pensiero. La simulazione del pensiero è il campo gravitazionale nel quale ci troviamo a orbitare tutti quanti noi, quando ciò che è alto si abbassa, apparendoci come il futuro comunque diverso.

Soltanto tornando a pensare per razze si potrà avere il pensiero della razza, così come la poesia che sarà, allora, in rapporto all’abitare la terra, cioè la poesia della razza – mandando via i parolieri del meticciato (è per questo motivo, vi dico chiaramente, che non ho mai potuto sopportare Giacomo Leopardi, il Gobbaccio di Recanati, con i suoi mucchietti di parole, così come non ho mai potuto sopportare d’Annunzio, il meticcio d’Abruzzo, con i suoi squallidi mucchietti di parole tanto ben composti) – fermo restando che, allora, con mio piacere, sarà tutto un po’ diverso, in quel campo.

Il personaggio di Calandrino del Decameron è il doppio del meticcio italiano Giovanni Boccaccio, che altri non era che un vecchio meticcio italiano (ma Fantoccio del principio dell’Autore, da sempre crepato nato): ciò che la critica deve mettere in gioco è allora il gioco sempre mutevole del disprezzo che corre lungo la vera narrativa postmoderna (lasciate stare i romanzi dell’eco d’Umberto, eccolo!), che pure ha chiamato in gioco la figura dell’Autore, nonostante le clamorose conferme di collasso suo assoluto, cioè morte (default – stop – andato. Crepato).

In tutta la sua vita disastrosa, Hölderlin manifesta il genio della razza; in tutta la sua vita vittoriosa, d’Annunzio manifesta lo sgorbio che è la forma dell’antirazza (cioè dell’antipopolo, il disgustoso meticcio italiano, questo scarafaggio africano che ha impestato tutto il mondo) che è alla base del meticciato che ha impestato tutto quanto il vasto mondo, riempiendolo del suo vuoto, che è il Vuoto – che è ciò che ha ragione di essere disprezzato, per essere infine bruciato in una festa di bambini, di adulti che non pensano più di tanto, come vediamo nella piccola festa locale di Guy Fawkes, piccolo fuoco, a suo modo celebrato, nel romanzetto di Len Deighton, che qui ho voluto ricordare, permettendomelo l’epoca – nella speranza di sempre tanti nuovi fuochi di gioia, adesso impensabili, perché noi vediamo la pena di morte solo come un tranquillo gioco di bambini, appena un poco tanto rumoroso – e infatti molti pensano di proibire persino i botti di quelle feste di bambini, richiamando anche il terrore che i botti generano negli animali – e Funerale a Berlino comincia con la notizia di un gatto scomparso, di nome Confucio, che aveva smarrito la via di casa, lo avevate notato? Ma, grazie a qualche Dio nascosto della razza bianca, al mondo non ci sono solo quei bastardi di italiani. Se Joseph Conrad è l’autore che ha aperto per la prima volta il romanzo alla tematica della morte del personaggio, allora c’è una frase di Conrad che deve essere pensata lungo tutto il romanzo moderno, che è la frase che riguarda uno dei suoi più enigmatici personaggi, il Mr Kurtz di Cuore di tenebra (Heart of Darkness), e che è la frase che giunge a noi consegnata da Marlow, da oltre un limite che noi non riusciamo ancora a vedere: «Exterminate all the brutes!».

 

 

Giorgio Scerbanenco

          Venere privata (1966), La nave di Teseo, Milano 2022 [DL1]

          Traditori di tutti (1966), La nave di Teseo, Milano 2022 [DL2]

          I ragazzi del massacro (1968), La nave di Teseo, Milano 2022 [DL3]

          I milanesi ammazzano al sabato (1969), La nave di Teseo, Milano 2022 [DL4]

Gian Franco Orsi (a cura di), Il ritorno del Duca, Garzanti 2007 [GFO]

Len Deighton, Funerale a Berlino (1964), traduzione di Grazia Griffini, Garzanti, Milano 1976

Stefano Jossa, Un paese senza eroi. L’Italia da Jacopo Ortis a Montalbano, Laterza, Roma-Bari 2015

Georges Bataille, La letteratura e il male (1957), traduzione di Andrea Zanzotto, Edizioni SE, Milano 2006

Gianluca Burgio, Della porta. Indagine su un oggetto ordinario, Meltemi, Milano 2023

Pier Paolo Pasolini, Trilogia della vita, Garzanti, Milano 2014

Aleksandr Isaevič Solženicyn, Arcipelago Gulag, traduzione di Maria Olsùfieva, riveduta e integrata da Maurizia Calusio, 2 volumi, Mondadori, Milano 2001

Leonardo Sciascia, Breve storia del romanzo poliziesco, in Id., Cruciverba, Adelphi, Milano 2021

James Hillman, Presenze animali, traduzione di Alessandro Serra e David Verzoni, Adelphi, Milano 2016

Peter Davidson, The Idea of North, Reaktion Books, London 2007 [PD]

Maria Teresa Orsi, La storia di Genji, Einaudi, Torino, p. lvi. [MTO]

Hilda Roderick Ellis Davidson, The Road to Hel. A Study of the Conception of the Dead in Old Norse Literature, Greenwood Press, New York 1968

Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano, I e Frammenti postumi (1876-1878). In Id., Opere, IV/2, versione di Sossio Giametta, Adelphi, Milano 1977

Egils saga Skallagrímssonar, Íslenzk fornrit 2, Reykjavík 1933 [ESS]

Larry McMurtry, Le strade di Laredo

Lonesome Dove e Le strade di Laredo di Larry McMurtry rappresentano le due forme tipiche del romanzo: il romanzo epico e il romanzo psicologico. Il romanzo epico è la forma di romanzo che spiega la formazione di uno stato di cose – ponendo in relazione passato e presente e mostrando come le cose stanno insieme, che è il compito fondamentale del romanzo; mentre il romanzo psicologico è la forma di romanzo che è seguita alla forma del romanzo epico, senza porre la domanda dell’Origine, ma mostrando le relazioni psicologiche che si tracciano tra tipi diversi che si trovano ad occupare uno stesso ambiente, assunto come mondo intorno al quale non si pone la domanda dell’Origine. Ma il romanzo psicologico si trova ad avere a che fare con la questione della vicinanza, che è la questione che riguarda il meticciato. Infatti il romanzo psicologico affronta la vicinanza di tipi psicologici diversi ma che si trovano poi ad essere vicini. Così noi, lettori del romanzo Le strade di Laredo, passiamo da un personaggio all’altro, potendo saltare da personaggi di “razza bianca”, a personaggi che sono meticci messicani e meticci indiani. Questo non toglie che i due romanzi siano pensati secondo ottiche diverse. Se il romanzo epico è la forma naturale del romanzo quale evoluzione dell’epica, il romanzo psicologico è il frutto di una alleanza tra componenti di razze diverse, che ha nella vicinanza tra le cose il suo risultato meno mediato.

Tipi psicologici L’animale messicano Maria Garza è ciò che mette al mondo i mostri. Il “mostro” è, in questo romanzo, ciò che mostra la grandezza di Dio, che tutto può fare, nella sua riconosciuta e assoluta incomprensibilità. Tre tipi di mostri mette al mondo la perfetta creatrice di mostri Maria Garza: il mostro che deve essere abbattuto (il bandito Joey); il mostro che deve essere sopportato (l’idiota Rafael, simpatico a tutti nella sua perfetta ebetudine); il mostro che può essere parzialmente recuperato (il cieco Teresa, che Woodrow Call vuole mandare, infine, a proprie spese, in una scuola per ciechi, ora che tali istituzioni sembrano essere disponibili) da parte della “razza bianca”, che si riconosce ormai operante in quanto ideologia del compromesso. Woodrow Call, che in questa opera, inevitabilmente sbilenca, rappresenta la razza bianca, sarà vittima del primo mostro (Joey Garza), mentre ignorerà il secondo mostro (l’idiota Rafael), ma si farà carico del terzo mostro, il mostro cieco Teresa, permettendo a quel mostro, probabilmente, una vita dignitosa, molto meglio di quanto la propria origine di razza non avrebbe permesso. È questa genealogia di mostri che mostra che la stirpe dei mostri è ciò che deve infine essere considerata come vicinanza, al fine di essere accettata – in base al principio che il mostro non è il mostro che deve essere allontanato. Il meccanismo di Laredo accentua quello già presente in Lonesome Dove. Questo meccanismo è ciò che ha sempre mostrato il meccanismo dell’Eneide, probabilmente la prima opera della vicinanza. La perfetta creatrice di mostri Maria Garza è colei che mette al mondo Joey Garza, ma è anche colei che, ad un certo punto, quando si è resa conto che il mostro Joey Garza voleva togliere la vita alle altre due specie di mostri cui ella aveva dato vita (il mostro Rafael e il mostro Teresa), lo colpisce con un coltello e viene a sua volta colpita a morte da lui. Questo conferma il ruolo della Casa-rifugio, Clara favorisce il matrimonio di Lorena con Pea Eye, come si viene a sapere in Le strade di Laredo, spingendo Lorena a prendere l’iniziativa: «– Guarda che dovrai farti avanti tu con Pea Eye, – disse Clara. – Lui non ha la minima idea che lo vuoi. Secondo me non gli è mai passato per la testa, di poter aspirare a una bellezza come te.» (p. 23); Clara muore alla fine di Le strade di Laredo. Ingenuamente, Lorena considera la possibilità che anche uno dei suoi figli possa diventare un mostro. Maria ha messo al mondo un mostro (in realtà ne ha messi al mondo tre, ma Lorena, nella sua ingenuità, non se ne accorge, perché, come “mostro”, considera solo il primo tipo di mostro, cioè il mostro come sinonimo di “cattiveria”, non il mostro come sinonimo di “meraviglia”): «Che pena tremenda, avere un figlio traviato, non riuscire a riportarlo sulla retta via né sapere perché era diventato così. Si chiese [Lorena] come avrebbe potuto vivere se uno dei suoi figli fosse arrivato a odiarla come Joey sembrava odiare Maria.» (Le strade di Laredo, p. 417). Ma la creazione di mostri è proprio ciò che caratterizza il meticciato e ciò che la razza bianca deve pensare a proposito del meticciato, cioè a proposito del mondo che comprende anche il meticciato, al fine di allontanarlo, anziché di farsi carico della sua vicinanza. Pensare questa differenza è una conseguenza del pensiero della distanza, che separa una razza, mentre pensare la eventualità è una possibilità del pensiero della vicinanza.

Il Mostro (Digressione). Per mostro si intende qui l’essere straordinario la cui presenza è la manifestazione di un aspetto ambiguo della potenza divina. Abbiamo tre potenze estreme che manifestano la potenza divina, fra loro in aperto contrasto: potenza di Dio come violenza assoluta (il criminale Joey); potenza di Dio come silenzio assoluto (l’idiota Rafael); potenza di Dio come enigma assoluto (Teresa vagolante nella sua cecità verso l’altruismo). I tre figli-mostro di Maria Garza funzionano pure come la manifestazione assoluta del Male (Joey), dell’Indifferenza (Rafael), del Bene (Teresa).

Il mito I meticci messicani, quando sanno che il ranger Woodrow Call è presente nel luogo dove ha la sua tana il meticcio messicano Maria Garza, raggiungono il luogo del meticcio messicano Maria Garza per sputare addosso al ranger di “razza bianca” Woodrow Call, che molti banditi messicani ha impiccato, in quanto ladri di cavalli, lì ora casualmente presente. Ma questa cosa, che richiama il passaggio di alcuni meticci messicani, che non contano nulla, richiama comunque la mitologia della razza bianca, che è il mito della creazione della bevanda che permette la contaminazione delle razze – che adesso è la soluzione Eneide. Cioè la contaminazione estrema del mito con l’intervento del meticciato latino. Questo perché un meticcio non crea niente, e quello che un meticcio può fare è solo quello che un meticcio può fare facendo ciò che ha racimolato qua e là rubacchiando – alla razza bianca.

Presenza indiana (Famous Shoes, Ben Lily). La presenza indiana è ciò che si incontra percorrendo la terra. Meridiano di sangue (1985) di Cormac McCarthy presenta il principio della presenza indiana come presenza che la banda di Glanton deve sopprimere quando la incontra, girando a vuoto nel territorio dove è ancora possibile avere a che fare con la presenza indiana, cioè con i rimasugli della presenza indiana, vale a dire di ciò che aveva occupato la terra, prima che l’intervento della razza bianca ponesse la questione della presa della terra. La razza bianca pone sempre la questione della “presa della terra” perché è l’unica razza che può porre la domanda della terra e la questione dell’abitare la terra. Mentre il meticciato occupa solo la terra, oppure scorre la terra – ma il fatto di occupare la terra, oppure di scorrerla, non pone la questione filosofica dell’abitare la terra.

Il principio della vicinanza. Si può parlare di un principio della vicinanza perché non c’è più un principio della distanza fra le cose del mondo. Ogni cosa è diventata vicina all’altra. Così noi vediamo che la narrazione può scorrere dal cacciatore di taglie di razza bianca Woodrow Call al meticcio messicano e bandito Joey Garza, e poi al meticcio indiano Mox Mox, perché tutti questi tre esseri sono uniti a partire da uno stesso principio, che non è più il principio della distanza – ma è invece il principio della vicinanza di tutti gli esseri umani fra loro (principio che ha in sé la sua fallacia, così come l’arte del romanzo ha qui la sua fallacia in quanto arte del romanzo). Che cosa comporta l’arte della vicinanza? Il fatto che Joey Garza riconosca la propria origine di razza come razza che deve essere disprezzata, ed infine eliminata, in vista di un progetto globale di eliminazione del meticciato, cosa che egli, nel corso della propria carriera criminale, ha sempre fatto, disprezzando la madre, pensando di togliere la vita ai propri fratelli minorati e infine colpendo la madre a morte, quando ella voleva impedire l’uccisione degli altri due mostri. Dare voce al meticciato è permettere al meticciato di esprimere, in un modo o nell’altro, qualunque sia la forma scelta, l’odio verso la propria razza, che è antirazza – che è il punto più alto che il meticciato possa raggiungere.

Le carcasse del meticciato La carcassa di Joey Garza è trasportata lungo lo squallido villaggio messicano di Ojinaba da alcuni meticci messicani, che volevano appropriarsi la gloria di avere posto fine alla carriera di bandito del meticcio messicano Joey Garza. Il meticcio è antirazza, non si riconosce come razza. Alla base di ogni meticcio c’è Calandrino, personaggio-Pierino mirabilmente rappresentato dal meticcio italiano Giovanni Boccaccio nella sua fiction-panettone intitolata Decameron. Il meticciato messicano, come ogni forma di meticciato, deve sempre tendere alla autosoppressione.

Macchine per uccidere (Esempi di macchine per uccidere: Woodrow Call, Joey Garza, John Wesley Hardin, Mox Mox; in Lonesome Dove sono invece i fratelli Suggs a occupare questa posizione). In Meridiano di sangue la macchina per uccidere è presentata dalla banda di Glanton, che, ipnoticamente, gira il paese alla ricerca di indiani da uccidere (presenza indiana), essendo pagati un tanto a scalpo di indiano presentato, cioè di indiano fatto fuori.

La Macchina per uccidere Gus McCrae e Woodrow Call sono colpiti in modo irreversibile ad una gamba. Gus McCrae sceglie di morire e di non chiedere la vendetta sui meticci indiani che lo hanno condannato a morte. Quando, in Lonesome Dove, Call chiede a Gus se vuole che uccidano gli indiani responsabili della sua morte, Gus risponde. «– Oh no, Woodrow. Abbiamo vinto più del dovuto con gli indiani. Non ci hanno invitato qui, sai. Non c’è bisogno di essere vendicativi. Non ci provare, o ti rovino l’appetito [Call sta mangiando].» (Lonesome Dove, pp. 862-63). Questa è una risposta che nasconde il pensare per razze. Pensare per razze vuole dire andare oltre gli individui. Call sceglie di continuare a vivere, sceglie l’amputazione per poter continuare a uccidere, a uccidere il meticciato, a uccidere “il ragazzo messicano” – cioè il giovane meticciato messicano, perché il tempo del meticciato era allora ancora un tempo tutto nuovo: «Lorena si sentì disgustata. Quell’uomo [Woodrow Call] era più morto che vivo, forse sarebbe morto tra meno di un giorno, o meno di un’ora. Bisbigliava appena, aveva un braccio distrutto e una pallottola nel petto che lo faceva respirare come se russasse. Eppure voleva ancora uccidere. La compassione che aveva provato per la sua sofferenza svanì. Non tutta, ma quasi.» (Le strade di Laredo, pp. 346-47). Ma anche Call non pensa per razze. Un meticcio indiano, un meticcio messicano, un meticcio italiano, un meticcio slavo è sempre la stessa cosa sporca: è meticciato che deve essere tolto dal mondo, costi quel che costi, ad ogni costo perché è una cosa sporca che occupa il mondo, ogni forma di meticciato è vita indegna di vivere. Rappresentare la necessità di togliere la vita al meticciato, sia un meticcio indiano, sia un meticcio messicano, sia un meticcio italiano, sia un meticcio slavo, è l’impresa che la nuova epica, l’epica della distanza, deve celebrare nel nuovo racconto, che sarà allora il nuovo dire della razza. Call è la Macchina per uccidere. Mentre Joey Garza, Mox Mox e John Wesley Hardin sono il risultato di scelte compiutamente formulate da parte di degenerati, che scelgono di rappresentare la degenerazione della razza. Il problema di uccidere si pone solo da parte della razza che si pone il problema di rendere abitabile la terra. Non si pone dalla parte della antirazza, che invece si accontenta di scorrere la terra, oppure di occupare la terra. Questo perché il meticciato non abita la terra, ma occupa la terra, oppure scorre la terra.

Soluzione Eneide I meticci messicani di Ojinaga vanno nella casa del meticcio messicano Maria Garza per sputare su Woodrow Call nel momento in cui egli non può rispondere agli insulti. Ricordare che che Joey Garza ha visto Woodrow Call nella tana della madre, ma Woodrow Call non aveva la forza di prendere la pistola e ucciderlo. Ma proprio nella casa messicana del messicano Maria avviene la soluzione Eneide, cioè la fusione della razza bianca con l’antirazza e l’antipopolo (che qui è rappresentato dal messicano e dall’indiano). L’essere del meticcio è ciò che porta il meticcio a essere quel meticcio che è sempre stato. La soluzione Eneide pone la questione di ciò che porta la “razza bianca” ad accettare il meticcio Teresa, e i personaggi di “razza bianca” Lorena, Pea Eye, Charles Goodnight, a celebrare i funerali delle due cose messicane, la cosa Maria e il suo figlio mostro 1 Joey (il primo tipo dei tre tipi di forme mostruose che Maria Garza ha messo al mondo), e, prima ancora, Charles Goodnight a seppellire le carcasse dei meticci messicani e dei meticci indiani che facevano parte della banda di Mox Mox e la carcassa dello stesso Mox Mox, quando egli ha trovato quelle diverse carcasse. Questi seppellimenti costituiscono il disconoscimento della terra, cioè l’atto di violentare la terra, consistente nel che conficcare, a forza, dentro la terra, le carcasse di ciò che invece dovevano essere espulse dalla terra, affinché la terra torni ad essere quello che è sempre stata: la Terra della razza bianca. Che noi non riconosciamo più ciò che deve essere scacciato dalla terra, ma vediamo la fratellanza di ciò che giace sulla superficie della terra, dipende dal fatto che non crediamo più nel potere della terra di chiamare il suo abitante. Ma il meticciato è sempre ciò che si determina come ciò che deve essere espulso dalla terra. La dilogia di Larry McMurtry ribadisce una soluzione del tipo Eneide. Questo perché noi non abbiamo ancora un’epica della razza – mentre abbiamo, nella migliore delle ipotesi, il vecchio romanzo che informa sulle razze che si trovano a scorrere, occupare o abitare la terra. E abbiamo, quasi me ne dimenticavo, un mondo che è stato impestato dal meticciato più disgustoso fra tutti – cioè dal meticciato italiano (perché là dove il meticcio italiano non c’è, il meticcio italiano c’è), questo è ciò che deve guidare ogni lettura dei romanzi dell’Origine. La storia, la saga, è degenerata a racconto di tutti quanti indiscriminatamente presenti in un certo territorio, in un dato periodo di tempo (messicani, ranger, scout; non ci sono più gli indiani perché gli indiani sono stati sconfitti): se il genocidio non è stato possibile, è stato possibile la visione futura di un modo diverso di abitare la terra – nella filosofia di Nietzsche.

La Casa-rifugio La Casa-rifugio di Lorena e Pea Eye in Le strade di Laredo funziona come la Casa-rifugio di Clara Allen in Lonesome Dove, limitando la funzione di rifugio per Woodrow Call e per il Mostro 2 e il Mostro 3. Woodrow Call avrà solo la morte come uscita dalla Casa-rifugio, mentre il Mostro 2 e il Mostro 3 avranno un’uscita parziale.

Avviso per i Lettori Chiunque abbia letto i due romanzi della dilogia di Larry McMurtry deve avere sempre presente che il meticcio indiano Cherokee Jimmy Cumsa è l’unico personaggio della banda del meticcio indiano Mox Mox ad averla fatta franca e riconosciuto, da tutti i personaggi del romanzo, come il meticcio più pericoloso di tutta quella banda di meticci. Il meticcio indiano Cherokee Jimmy Cumsa era conosciuto col soprannome di “Jimmy lo Svelto”, perché lo si trovava sempre pronto a colpire alle spalle. Persino il meticcio indiano Mox Mox aveva paura del meticcio indiano Cherokee Jimmy Cumsa e della sua abilità di comparire sempre alle spalle «Mox Mox seguiva sempre i meccanismi fra i suoi uomini, durante uno scontro. A sei di loro riusciva a star dietro [la banda in questione era composta da sette meticci], ma Jimmy Cumsa – Jimmy lo Svelto – era così lesto che Mox Mox non riusciva mai ad anticiparne le mosse. Un minuto prima se lo vedeva davanti e quello dopo se lo ritrovava alle spalle.» (p. 212). Adesso, guardarsi le spalle dal meticcio indiano Cherokee Jimmy Cumsa è solo questione che riguarda il lettore che, forse incautamente, senza sapere a che cosa andava incontro, ha letto i due romanzi di Larry McMurtry, Lonesome Dove e Le strade di Laredo, – infatti non credo che un rappresentante dell’editore potrebbe rispondere ai danni eventualmente lamentati da parte di un lettore che, sentendosi danneggiato dalla presenza del maledetto meticcio indiano Cherokee alle sue spalle, dopo la lettura del romanzo, potrebbe fare presente all’editore (nel senso di chiedere all’editore di risolvere, in un modo o nell’altro, la presenza del meticcio indiano Cherokee Jimmy Cumsa); per come vanno le cose nelle questioni di razza e di antirazza adesso, penso proprio di no: qualunque danno è, quasi certamente, a carico completo del lettore, che a questo punto può essere indicato come lettore incauto. Mentre il meticciato, si tratti di un meticcio messicano, indiano, slavo, italiano, è sempre ciò a cui deve essere tolta la vita.

 

Larry McMurtry, Le strade di Laredo, Einaudi, Torino 2018, traduzione di Margherita Emo e Cristiana Mennella

Larry McMurtry, Lonesome Dove, Einaudi, Torino 2017, traduzione di Margherita Emo

Skräpkonst

Ogni tanto è bene interrompere, questo perché l’interruzione ci permette di comprendere in che cosa consista “l’Interruzione” – quando noi non riusciamo ancora a sistemare la cosa che è l’interruzione in un suo luogo proprio, appunto come luogo soltanto di stucco e stacco tra cose che ci appesantiscono come può essere il compito assillante di dover fare qualcosa che meno che mai dà accesso a ciò che è la Cosa. È infatti importante comprendere la natura di ciò che costituisce l’interruzione, prima di ciò che costituisce la natura di ciò che viene interrotto. Così la skräpkonst potrebbe essere lo spiraglio giusto per individuare questo luogo lungo l’attimo di sospensione: in che cosa consiste la skräpkonst? nella particolarità di certa street art (ritengo infatti che queste due forme d’arte possano essere accomunate) di creare manufatti artistici che si confondono con la normale immondizia, che si incontra in punti della città, come angoli delle strade, oppure parchi nei dintorni dove risulta stabilita la città. Niente, infatti, è più nascosto, tra le forme delle arti spontanee, come la skräpkonst. Noi avvertiamo il luogo che questa forma estrema di arte reclama, quando per caso la incontriamo, ma non siamo in grado di avvertirla ancora interamente come arte, appunto perché la confondiamo con ciò che è l’immondizia, ciò per cui non abbiamo occhio alcuno. Confondere ciò che non è arte con ciò che viene chiamato ad essere rilevato come arte è ciò che presenta il romanzo di Jünger Le api di vetro, che presenta la prima forma di skräpkonst – almeno che io sappia. Ma come si presenta, in questo romanzo, la skräpkonst? Nella forma, appunto, di “api di vetro”, cioè di quelle api che svolgono il normale lavoro delle api naturali, ma che il protagonista del romanzo, scorgendo quel movimento del tutto naturale delle api, capisce che non sono api vere, cioè forme naturali, ma api create a partire da un progetto che si vuole sostituire alla natura in nome della modernità, cioè “api di vetro” costruite in laboratorio, ma che non ha nulla a che vedere con la skräpkonst. Le api non sono spazzatura, ma da qui alla riproduzione “artistica” della spazzatura il passo è breve – e lo spasso anche, come mostra l’episodio del romanzo di Jünger, che consiglio di leggere, essendo esso, di suo, spassosissimo (i riferimenti alla fine del post). La successiva, non pubblicizzata, skräpkonst, secondo me debitrice al romanzo di Jünger, eleva a livello artistico la spazzatura, così come, in un certo modo, le api di vetro superavano le api naturali nel romanzo di Jünger, presentando la spazzatura come oggetto dove è possibile incontrarla, ma che non è il rifiuto di uno o più processi, ma un oggetto autenticamente pensato per essere classificato come spazzatura, che però non esclude che l’oggetto artistico che ci troviamo davanti sia autenticamente, e trionfalmente, spazzatura (= immondizia) a tutti gli effetti (mi capite?). Il problema è: che cosa distingue la spazzatura da un oggetto d’arte che simula la spazzatura (ciò che appunto determina così come crea la Skräpkonst)? Nel momento in cui vediamo accanto ad una panchina, in un parco cittadino, un sacchetto di patatine vuoto e una lattina di birra abbandonati lì accanto, oppure, in un gita “fuori porta”, i rimasugli di un picnic, non sappiamo se ci troviamo di fronte a semplice spazzatura abbandonata da persone qualunque, oppure all’opera di un artista (skräpkonstnär) che ha creato quel particolare oggetto d’arte per collocarlo infine, di nascosto, nello spazio ad esso più adeguato – cioè il luogo che più attiene all’immondizia che non è stata recuperata alla questione del ritiro della spazzatura, e nemmeno alla raccolta indifferenziata, quindi nel pieno rispetto di un ordine, essendo egli un componente della skräpkonst. Il fatto è che la skräpkonst consta di immagini, in questo caso di immagini di immondizia vera quanto varia, senza essere in alcun modo immondizia; è per questa ragione che, essa, a pieno diritto, appartiene alla civiltà dello spettacolo, perché spettacolo, cioè immagini colte al volo in movimento, che può raggiungere il suo pieno effetto nel movimento, che è illusione del movimento – e non dimentichiamo che, nelle Api di vetro, il creatore delle medesime api di vetro è pure il titolare di una imponente vittoriosa casa di produzione cinematografica. Ma ciò che caratterizza questo rimasuglio come opera d’arte è il fatto che non avrebbe senso quello spazio intorno, così come non avrebbe senso la sua presenza in un bidone della spazzatura – tra la spazzatura. Niente è infatti più fuori posto per quell’oggetto artistico “lattina di birra” inserito nel bidone Plastica/Metallo per la raccolta differenziata, anche se nessun particolare distingue l’oggetto artistico “Lattina di birra” dalla lattina di birra vuota che non è che semplice spazzatura – la spazzatura “non è che” spazzatura, mentre l’oggetto d’arte classificato come skräpkonst, è spazzatura, che non è spazzatura a tutti gli effetti, consistendo esso in spazzatura che non è spazzatura (perché è oggetto d’arte che è però tutt’uno con la più autentica spazzatura) ma che dice di essere spazzatura. L’autentica spazzatura è ciò che non chiede di essere riconosciuta come tale, poiché richiede solo di essere sistemata nel luogo ad essa più adatto per lo smaltimento; la spazzatura come oggetto d’arte (skräpkonst), è ciò che richiede lo sguardo che lo riconosce come tale per essere disposto nel luogo ad esso più consono – che non è il museo ma è il luogo aperto che, a partire da quel reperto isolato di Skräpkonst, diventa un luogo che non è un museo così come un museo che non è un luogo. Questo deve essere chiaro, perché qui sta la differenza: l’opera d’arte che simula la spazzatura non è destinata al contenitore della spazzatura, ma a ciò che non contraddistingue la spazzatura per sua natura, cioè l’abbandono in un luogo che non consente la raccolta della spazzatura; così come a determinare la differenza è la destinazione d’uso: il pacchetto di patatine e la lattina di birra, gettate infine sul terreno vicino alla panchina, prevedono l’utilizzo di un vero pacchetto di patatine, che prima di essere svuotato era stato un sacchetto di patatine pieno, che chiunque poteva acquistare e consumare, per poi smaltire adeguatamente come rifiuto o abbandonare selvaggiamente nella natura e la stessa cosa vale per la lattina di birra – così come per i rimasugli del picnic nel prato “fuori porta”. Quindi questa forma d’arte è comunque “fuori luogo”, perché non rinnega la propria forma, quanto un luogo in cui essa possa essere raccolta. Allora di che cosa si tratta? Di una cosa che traccia difforme traiettoria, che noi, ancora, non possiamo far affiorare a tutti gli effetti. Nel caso dell’opera d’arte nessuna destinazione d’uso ha creato l’usabilità di quei diversi prodotti, che, una volta, consumati, si sono trasformati in rifiuti, mentre nel caso della skräpkonst essi sono sempre stati opera d’arte, accettata o no, perché solo come opera d’arte quelle cose sono nate, così come, se fossero stati depositati nei relativi contenitori per la raccolta differenziata dei rifiuti, sarebbero stati comunque abbandonati fuori luogo; l’opera d’arte è creata in tutti i suoi aspetti in quanto “rifiuto” (l’unto sul sacchetto, il residuo di birra nell’interno della lattina), che non prevede smaltimento alcuno, bensì un abbandono in luoghi deputati per mai accogliere la spazzatura, perché spazio che si fa luogo dove la spazzatura non deve essere abbandonata. Allora la nozione di “spazzatura” si confonde con quella di “rovina”, cioè di oggetto che viene prodotto non in base alla sua piena conformità di oggetto pienamente utilizzabile in quanto cibo o bevanda, ma in quanto forma di rimasuglio (accontentatevi anche qui, come nel caso di Jünger, dei riferimenti alla fine del post, vedetevela poi tra voi): così quel sacchetto di patatine non è mai stato pieno di patatine da mangiare e quella lattina di birra non è mai stata piena di birra da bere; nessuno ha mai consumato quei prodotti per abbandonarli infine dove qualcuno li avrebbe furtivamente consumati, ma l’artista li ha prodotti come oggetti d’arte esistenti con quella specifica modalità (cioè come rifiuti, rovine di qualcosache pure, a quel punto, non sono rifiuti, tantomeno rovine) e in quanto tali, cioè rifiuti che non sono rifiuti/rovine, li ha collocati nello spazio (paradossalmente ormai orma museale – che però non può mai essere condotta in alcun museo) ad essi più consoni, che richiama il pensiero a ciò che è l’incongruenza del “museo”, perché se la skräpkonst sembra non consistere nella natura è proprio ciò che esiste in essa, perché è la natura ciò che chiama la skräpkonst e che è in grado di renderla tale. Il fatto che questa “spazzatura” non possa presentarsi come rovina, rimanda a ciò che manca a ciò che è il mondo in grado di produrre rovine così come spazzatura. In fondo quello che la skräpkonst sembra volerci ricordare, attraverso la sua cerimoniosa, di una quasi hölderliniana modestia, è che noi, forse per la prima volta nella nostra storia, ci riconosciamo come non essere in grado di produrre autentica spazzatura. E non è, questa, in fondo, la condanna che aspetta alla nostra appena modesta modernità, non essendo noi veramente moderni, se un attimo appena ci si pensa? – eppure, rimango dell’idea che questa cosa, cioè questa spazzatura che non è spazzatura, è tutta ormai tra noi, perché è giusto sia così. Ma questa cosa che si fa spazzatura, pur non essendo spazzatura a tutti gli effetti, ma che non può essere in alcun modo distinta dalla vera spazzatura, di cui ho difficoltà a parlare, non vi richiama qualcosa alla mente? È per questo che penso che ogni tanto faccia bene “interrompere”.

 


Ernst Jünger, Le api di vetro, traduzione di Henry Furst, Guanda, Milano 2020
Johann Chapoutot, Il nazismo e l’antichità, traduzione di Valeria Zini, Einaudi, Torino 2017