Pasolini, Teorema

Se l’arte del disprezzo è ciò che si potrebbe pensare come l’arte che dovrebbe essere insegnata in questa epoca tanto fastidiosa quanto radicalmente perbene, tale arte è ciò che, meno che mai, potrebbe essere resa materia di insegnamento; perché riguarda ciò che, per istinto, deve essere posseduto fin dall’inizio – cioè ciò che permette a ciascuno di distinguere fra salute e malattia, vale a dire ciò che permette di indicare ciò che deve essere eliminato senza porsi il problema della confutazione, poiché la malattia è proprio ciò che non deve essere confutata, ma eliminata.

Siamo qui per parlare del meticciato. Non si tratta di interpretare un testo (meno che mai il romanzo Teorema del meticcio italiano Pier Paolo Pasolini), ma di indicare come una forma di disprezzo verso il meticciato, e verso i prodotti culturali del meticciato, in questo caso verso il romanzo Teorema del meticcio italiano Pier Paolo Pasolini, possa prendere forma.

Se il meticciato è quella cosa che tutto spiega, ma della quale non è possibile parlare, allora impostare la chiave di lettura sul meticciato è fare riferimento a ciò che non ha fondamenta, e quindi abbandonarsi al gioco per cui meno che mai il gioco vale la candela.

Il meticcio vuole l’estinzione. La degenerazione della razza è sempre il fenomeno esteticamente più interessante (come aveva indovinato Lovecraft) e l’arte degenerata ne è l’esempio estremo. Guai, dico io, a celarne i tardivi frutti. Gobineau ha scritto in merito cose notevoli.

Non mi piace pensare che i meticci, in quanto qualcosa di biologicamente vicino agli animali, si chiamino stando appesi da un ramo all’altro dell’albero del tempo al fine di corrispondersi con fastidiosi richiami. Mi piace pensare che la brutta musica del meticcio russo Šostakovič chiami la brutta musica del meticcio italiano Rossini, sul ramo del tempo attratto tanto prima di lui.

Per togliere loro la vita, è importante giungere a capire come i meticci giungano a presentare se stessi come ciò che ha diritto di negare il principio di vita indegna di vivere, che è appunto ciò che deve essere ripensato.

Con i nostri sparuti occhi d’Occidente vediamo un medesimo sacchetto di spazzatura che si gonfia attraverso gas diventato loco comune. Perché ciò che deve essere pensato, cioè ciò che porta alla separazione, è la degenerazione – che noi, sotto i nostri occhi dell’Occidente, ci ostiniamo a non volere più vedere.

Qual è la posizione di Teorema, il romanzo del meticcio italiano Pier Paolo Pasolini che ci tiene qui allacciati, attorno a questo sacchetto di vecchia immondizia dove troviamo molte cose frettolosamente rinchiuse per essere gettate?

Il romanzo Teorema si compone di quarantasette capitoli divisi in due parti, rispettivamente di ventotto e diciannove capitoli – più l’Appendice alla prima parte, costituita da cinque poesie. Abbiamo pertanto quarantadue capitoli in prosa e quattro capitoli in poesia (più l’Appendice alla prima parte). Considerate le proporzioni, non si può dire che questo romanzo mischi prosa e poesia, ma si può dire che la poesia vi giochi un ruolo costante, strategico, cristallino, nascosto all’interno di un qualcosa delegato alla prosa – che concerne il sacchetto della spazzatura e la raccolta differenziata dei rifiuti.

Questo però non dice niente, perché noi siamo qui per parlare del meticciato, che è appunto ciò di cui questo romanzo non dice niente. Il romanzo Teorema non parla del meticciato.

Ma ecco la mia convinzione: Pasolini era un meticcio; Šostakovič era un meticcio bello e stracciato, autore di uno stantio fior fiore di arte degenerata.

Però il meticcio italiano Pasolini era incomparabilmente più geniale del meticcio russo Šostakovič. (Questo nessuno lo può negar!)

A malincuore lo sostengo, perché i meticci italiani non li ho mai potuti soffrire. Ma un meticcio è un meticcio, spazzatura chiusa in un sacchetto da gettare.

Come no!

C’è un piano di smaltimento dei rifiuti che contempli lo smaltimento del meticciato?

Non mi risulta che un meticcio sia qualcosa da smaltire in qualche contenitore apposito – per ora.

Confrontiamo le facce burbere di questi due meticci: nelle fotografie vediamo che Šostakovič ha una faccia impensierita (non si tratta di una faccia pensierosa, ma di una faccia impensierita), infatti la sua musica non è una musica che chiama il pensiero, ma soltanto una musica impensierita. La fotografia di questo volto burbero rimanda lo schizzo sgraziato di ciò che musica era e che come musica salta addosso, prima di tutto al suo creatore, alieno singhiozzo, poi che salta addosso a colui che ha la sfortuna di porsi come il suo più povero ascoltatore – infatti la musica di Šostakovič è un tempo buio che deve essere percorso dai suoi ascoltatori –; Pasolini ha la faccia che si perplime secondo una accanita rete di rughe. Le rughe sono strade che allacciano percorsi che si bloccano. Nel meticcio italiano Pier Paolo Pasolini non c’è niente da pensare, solo vie da sterrare.

Il meticcio è una cosa che deve essere eliminata.

Infatti questo è importante ogni tanto: far sapere, per capriccio, a un meticcio, che è un meticcio. Per il resto vale sempre la regola del carro bestiame.

Notare, dico, come i capitoli incrinino il rapporto di causa/effetto, fondamentale in ciò che per noi determina la narrazione. Questo è sufficiente a mettere in discussione la temporalità, cioè il fatto che un avvenimento, raccontato all’interno di questo romanzo, avvenga prima o dopo di un altro avvenimento raccontato in questo romanzo. Che cosa vuole dire, quindi, questo modo di allestire un romanzo? Che le frasi non sono allacciate da un rapporto di causa-effetto, ma hanno valenza di frammenti; e, nel caso dei versi, di aforismi. Questo è uno dei punti di forza del romanzo Teorema, che così si pone dal punto di vista dell’opera frammentaria o aforistica, cosa che invece non si può dire della brutta musica del meticcio russo Dmitrij Dmitrjievič Šostakovič, che non ha mai segnato niente di nuovo, ma ha sempre solo segnato il brutto passo sgraziato del suo paese di meticci.

In Teorema questo caso è riassunto nella figura sgraziata del cronista, che pone delle finte domande (non è un caso che la parte del cronista, nel film Teorema, sia stata affidata a Cesare Garboli), domande che contengono già in sé le risposte, e infatti nessuno degli intervistati si piglia la briga di rispondere. Cosa riguarda queste domande? ineluttabilità della rivoluzione e missione del proletariato.

Ma questo è proprio quello che permette a Pasolini di impiantare il suo romanzo.

Per questo noi ci siamo trovati qui per parlare del meticciato. Il discorso di Pasolini deve essere bloccato nella misura in cui egli pensava di parlare del popolo italiano, mentre invece è del meticcio italiano, cioè del meticciato italiano, di cui si deve parlare. E di cui Pasolini, come già d’Annunzio, ha vittoriosamente accennato a parlare.

L’ospite-Cristo è presentato con quella serenità dell’idiota indicata da Nietzsche come modo di essere di Gesù nel mondo. Ma un bastardo di italiano è sempre un bastardo di italiano. L’ospite-Cristo è il personaggio meno tematizzato tra tutti quelli di cui tratta questo romanzo. Sono invece tematizzati gli altri, sconvolti dall’incontro avuto con lui. Quello che è discutibile è avere chiuso l’incontro con il divino (si potrebbe dire qui soltanto un cristianesimo alla Jesus Christ Superstar) corretto secondo la piccola ideologia dei soviet, che era quanto, allora, un meticcio italiano di sinistra poteva permettersi di chiacchierare. Si ripete che ciò non toglie che il finocchietto di sinistra, e meticcio italiano, Pier Paolo Pasolini, in quell’occasione, sia andato oltre anche solo per un minimo.

La prosa viene utilizzata nel suo massimo ventaglio per indicare un referente qualunque fra i possibili (può essere primavera o autunno, il giorno prima o il giorno dopo); la poesia nella unicità della parola intesa come suono.

Il capitolo 27 della prima parte, «Gli Ebrei si incamminarono…», è invece una via di mezzo tra prosa e poesia. Proietta su un piano mitico una vicenda individuale, pur rimanendo essa stabilita nella prosa.

Così Teorema non affronta una soluzione diversa, ma rimane in una impostazione umanistica ideologicamente delimitata.

La questione è tra rappresentazione (prosa) e non rappresentazione (poesia)? il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini c’è andato vicino, ma poi ha sempre evitato di giocare sul problema – che vuole dire: trattare il problema.

La questione è la terra in quanto problema che pone la questione del “teorema” come questione della terra con cui si ha a che fare. Che è ciò che il romanzo Teorema non affronta. Ma questo voleva dire togliere la terra sotto i piedi del meticcio italiano Pier Paolo Pasolini; cioè togliergli la sua falsa terra, perché un meticcio è sempre ciò che non ha mai terra dove poggiare. Cosa che egli, finocchietto com’era, mai avrebbe potuto fare.

La poesia è ciò che non ha bisogno di rappresentazione, mentre la prosa è ciò che vediamo qui chiamata ad una rappresentazione straniata. Questo è il colpo di genio.

Ma ipotesi da avanzare: se Teorema fosse stato scritto da uno scrittore di razza bianca, anziché da un meticcio, come il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini è stato, sarebbe venuto fuori un capolavoro? L’opera d’arte geniale non è mai intralciata dalla razza. Solo un meticcio poteva scrivere la Commedia di Dante; il caso ha voluto che fosse un meticcio italiano a scriverla; ma nessun poeta di razza bianca avrebbe mai potuto scrivere quella cosa disgustosa che è la Commedia di Dante, richiedendo essa, sempre, un meticcio in funzione di autore.

Che cosa blocca il meccanismo Teorema che abbiamo, vale a dire la carcassa che ci rimane fra le mani, cioè quel tale romanzo ingombrante? La carcassa del meticcio è ciò che sporca la terra. La terra è ciò che deve essere sollevata dal peso del meticciato. Solo così potremo parlare di una terra alleviata.

Il narratore di Teorema mette a punto il suo spazio scenografico.

Questo spazio è solo scenografia rappezzata alla meno peggio; che spetta al narratore descrivere, cioè trasferire in forma narrativa facendone lo sfondo per la rappresentazione del teorema in questione.

Quando i fatti di Teorema vengono narrati, non sembra di seguire una narrazione, quanto di avere a che fare con la descrizione di una scenografia.

È rilevante il fatto che i personaggi non parlino, non si scambino battute di dialoghi, ma comunichino tramite un gioco di posture.

Il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini crea il falso spazio che è la falsa terra giusto acconciata per lui. Il primo a non credere in questa falsa terra è proprio il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini. Infatti il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini delega al cronista le domande-palafitta che egli stesso ha composto come le domande che non chiedono risposta. Ma che cosa è la domanda che non chiede risposta? è il nuovo Cristo, cioè la nuova immagine del vecchio Cristo che il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini ha impalato nella figura dell’ospite.

È un Cristo un po’ bambolina vudù che vediamo irrompere in quello scenario appena appena rappezzato dal teatro moderno. È il Cristo new-age.

Un bastardo di italiano è sempre un bastardo di italiano, direte voi.

E noi siamo qui per parlare del meticciato. Cioè dell’arte di mettere insieme le bamboline vudù.

Il piccolo linguaggio comune è quello che Genette ci mostrava appartenere a Balzac come livello medio tra il massimo rispetto delle norme sociali e il massimo disprezzo delle stesse, e che mostrava Balzac spiegare le azioni dei suoi personaggi ricorrendo al richiamo di una teoria scientifica tramite «tristi ritornelli» volti a spiegare il modo di agire di una zitella, di una cortigiana, di una duchessa (e infine, possiamo dire noi, di un meticcio italiano sgradevolmente finocchietto e di sinistra).

Come si costruisce lo spazio del romanzo Teorema? Ponendo lo spazio del discorso in cui espressioni come “borghese”, “lotta di classe”, “rivoluzione”, hanno il più profondo significato, cioè creando lo spazio che non esiste – al di fuori di quei personaggi. Il narratore può così chiamarsi in causa. Egli ha un piccolo circolo di riferimento terminologico. È il discorso della sinistra del meticcio italiano anni Sessanta-Settanta, preziosamente sintetizzato nelle bamboleggianti domande del cronista.

Questo è lo spazio minaccioso in cui il narratore di Teorema avvia la sua ninnananna di parole e il cronista quella delle due sue inchieste (quella sulla santità e quella sulla donazione della fabbrica), dove appunto pone le domande.

La minaccia che caratterizza questo spazio militarizzato è lo stesso di quello che regola lo spazio sonoro della musica di Šostakovič. Questa minaccia può essere esibita a livello di interpretazione (come faceva il meticcio russo Kondrašin), o fatta suonare, come faceva Mariss Jansons; ma non nascosta, come faceva Bernhard Haitink.

È importante il tono del linguaggio usato in questo straccio di romanzo, cioè la descrizione straniata: non la narrazione, ma la descrizione di una messa in scena. Il romanzo Teorema ha preso avvio in contemporanea al film omonimo. Ha importanza?

Nel meticcio italiano Pier Paolo Pasolini è fondamentale l’impegno, che è ciò che costituisce la severità della sua prosa (sempre, per questo, autenticamente boccaccesca – cioè scadente) e del suo sguardo pungente e maligno, che vediamo rilanciato dalle fotografie che lo ritraggono e ce lo pongono davanti. Maleficamente, con quel suo piccolo muso di meticcio italiano. Ricorda perfettamente una delle tante descrizioni dei musi dei meticci fatte da Lovecraft nelle sue lettere: «asiatici dal muso di topo e dai piccoli occhi lucenti».

Pasolini organizza lo spazio di Teorema nello stesso modo in cui Šostakovič organizza lo spazio delle sue sinfonie.

Il passaggio della banda festosa in Mahler diventa la banda militare minacciosa in Šostakovič. Se un meticcio è ciò che non ha terra, è anche ciò che ha modo per trovare ad essa il più triste surrogato. L’unico compositore italiano veramente geniale è stato Monteverdi, ma ciò non toglie che anche Monteverdi non fosse altro che un meticcio. Perché un meticcio si conferma nella terra come quella cosa che non ha terra. L’Autore è colui che si dà tanto da fare per farsi notare vivo, quando invece è colui che dovrebbe darsi da fare per fare la parte del morto nel gioco.

Dietro Šostakovič ci sono le orde mezze mongole del meticciato slavo; dietro Pasolini, le orde del nordafrica del meticciato negro-semitoide. Per questo l’Europa non sarà mai l’Europa, in quanto terra della razza bianca d’Europa, finché non avrà mandato via da sé le due branche meticce che da sempre l’hanno soffocata: il meticciato slavo e il meticciato latino.

L’arte del meticcio Pier Paolo Pasolini è una questione di degenerazione della razza. Ma per non parlare più dell’arte del meticcio italiano Pier Paolo Pasolini bisognerà farla finita con il meticciato. Avremo mai il coraggio di dire che il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini era solo un viscido, squallido finocchietto di sinistra – e bastardo di italiano? Cioè uno dei tanti viscidi personaggi del Decameron?

Noi sappiamo che l’impegno si verifica tramite l’intruppamento. L’intruppamento è il tratto che avvicina la bruta prosa del meticcio italiano Pier Paolo Pasolini alla brutta musica del meticcio russo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič. Nel meticcio russo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič l’intruppamento si ha attraverso le brutte marce militari, rozze quanto minacciose, che percorrono le sue quindici volte inutili sinfonie, musica per orde mongole chiamate a caracollare e distruggere qua e là; nel meticcio italiano Pier Paolo Pasolini tramite l’impegno, che il narratore, i personaggi (primo fra tutti il cronista delle due inchieste) pongono in forma di formule o di domande rivolgendosi indirettamente al lettore. In entrambi i casi, questi due meticci hanno bisogno di uno spazietto falso dove dare l’impressione di muoversi con disinvoltura.

Pier Paolo Pasolini e Dmitrij Dmitrievič Šostakovič minacciano il mondo creando opere minacciose. Questi due meticci realizzano un piccolo spazio artificiale dove la loro azione viene teatralmente composta grazie al Verfremdungseffekt. Per il meticcio russo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič sono le linee astratte che richiamano altri mondi sonori; per il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini è lo spazio straniato dove avviene l’azione di Teorema. Ma, in entrambi i casi, la cosa funziona fiaccando la possibilità nell’ascoltatore, o lettore, di un altro modo di intendere.

La musica di Dmitrij Dmitrievič Šostakovič è un periodo che deve essere affrontato – con la speranza di rigettare, non di ignorarlo, finora, perché questo è una lunga epoca buia, che porterà a diverse epoche buie. La musica del meticcio russo Šostakovič ha il suo posto nella musica così come ciò che deve essere affrontato per andare oltre; né più né meno di quanto accade per il meticcio russo Dostoevskij per la letteratura. Avremo a che fare con opere di meticci italiani, di meticci russi, di indios, di negri, di semiti, perché ciò che ha fatto la razza bianca sarà ignorato.

Ciò che il meticciato ha fatto nel mondo è ciò che deve essere cancellato, ma non ignorato. La possibilità della degenerazione è infatti qualcosa che è tra noi e che dobbiamo affrontare.

C’è un racconto di Lovecraft, The Shadow Over Innsmouth, che mostra come la degenerazione razziale sia qualcosa che ci riguardi, perché radicata tra noi, raggiungibile acquistando un biglietto d’autobus – che chiede poco del nostro tempo per mostrarci come noi, infine, finiamo per essere parte consenziente di ciò che prima aborrivamo.

La creazione dell’opera è, per entrambi i due meticci (il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini, il meticcio russo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič), la creazione di uno spazio fittizio, dove il destinatario, lettore o spettatore che sia, viene zittito – in quanto Altro che sta nello stesso luogo per un caso, come luogo dove deve nascondersi. Vale a dire come ciò che sta in un non luogo.

Se la domanda che, nelle opere di questi due meticci, non suona mai, è del tipo: “Che cosa è la terra?” allora la terra è ciò che non viene più presa in considerazione come suono della domanda che deve essere posta.

Il meticcio è ciò che non ha terra, ma che, in alcuni casi, avverte la mancanza di terra come vergogna del suo scorrere la terra, oppure vergogna del suo occupare la terra.

Questo è ciò che accomuna due parolieri italiani così diversi come il meticcio italiano Gabriele d’Annunzio e il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini.

Il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini ha mostrato questa vergogna, solo indirettamente, indicando la domanda, che egli non avrebbe mai avuto il coraggio di impostare, ma domanda che può essere condotta a suonare da altra parte. Questo è ciò che divide le opere del meticcio italiano Pier Paolo Pasolini dalle opere del meticcio russo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič. Cioè le opere che permettono di impostare la domanda, il cui testo è stato impostato per eludere. È questa la differenza che si pone tra i due meticci, il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini e il meticcio russo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič.

Per il resto un meticcio equivale a un altro meticcio, perché sono due cose che concorrono a sporcare la terra, e che, in quanto cose che sporcano la terra, andrebbero rimosse dalla terra che sporcano. Perché solo tramite la rimozione del meticciato si avrà la terra come terra in quanto terra alleviata, cioè come luogo aperto all’abitazione. Che sarà l’abitazione della terra da parte della razza bianca.

Tutto ha inizio da un attimo di tempo disponibile, giusto il tempo di ascoltare la musichetta del meticcio russo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič. La musichetta del meticcio russo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič è ciò che suona per sua natura come musichetta da sempre già ascoltata. Si potrebbe dire che questo è il modo in cui la brutta musica del meticcio russo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič si insinua, malefica forbicetta, nell’orecchio dell’ascoltatore, chiamando, a complemento, la prosa – comunque più sofisticata –, del meticcio italiano Pier Paolo Pasolini. Anche la prosa del meticcio italiano Pier Paolo Pasolini si insinua in una piega. La creazione di uno spazietto per un esperimento mentale. Il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini crea il suo spazietto e dà il titolo di Teorema all’opera che mostra ciò che avviene in quello spazietto; il meticcio Dmitrij Dmitrievič Šostakovič crea le sue onde sonore e poi si ferma lì. (L’ho detto che il meticcio russo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič è inferiore al meticcio italiano Pier Paolo Pasolini, pur essendo, tutti e due, nient’altro che due disgustosi meticci.) Se è un esperimento mentale di cui si tratta, l’esperimento mentale ruota attorno alla frazione infinitesimale in cui il soggetto dell’esperimento è per una frazione infinitesimale di tempo vivo e morto nello stesso tempo.

Spazietto che i meticci si ritagliano = spazietto in cui i meticci che vi si muovono possono essere chiamati “meticci”. Quindi spazio mentale che chiama l’esperimento mentale.

Ma proviamo ad applicare la serie di sopra a Pasolini. Otteniamo quattro punti principali che vediamo non servirci: 1) Pier Paolo Pasolini era un finocchietto viscido di autentico stampo italiano; 2) Pier Paolo Pasolini era un disgustoso meticcio italiano; 3) Pier Paolo Pasolini era un piccolo marxista malignetto perfettamente stampato in 3D dal Partito Comunista Italiano; 4) Pier Paolo Pasolini era un cattolico piccolo ed ipocrita di stampo meticciato italiano, viscidamente e tradizionalmente cattolico. Il tratto comune di questa viscida cosa, comunemente chiamata Pier Paolo Pasolini, è la meschineria, che accomuna quella viscida cosa che è stato il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini alla meschineria del meticciato italiano, alla quale, quella viscida cosa (comunemente chiamata Pier Paolo Pasolini) è stato sempre il degno e sugoso paroliere, fornitore indefesso di parole e polemiche lungo tutta la misera sua vita di meticcio, frocio e paroliere italiano.

Un popolo può giungere ad avere uno scrittore; un meticciato non può avere altro che un paroliere: lo scrittore giunge alla lingua di un popolo in quanto tesoro della razza a cui egli mai può attingere; il paroliere usa la parola della lingua in quanto sacco di parole dell’alingua, di cui egli può fare legittimamente man bassa quando vuole.

Come interviene, il pruriginoso, nel testo di Pier Paolo Pasolini? Pier Paolo Pasolini avverte solo la presenza del pruriginoso, ma quando si tratta di rappresentarlo, ricorre sempre alla scena straniata. Si può parlare di scelta – cioè di uso organizzato del pruriginoso? Che cosa ha rubato, il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini, dal bauletto del Verfremdungseffekt? Come uno zingaro, un meticcio italiano è sempre un ladro, tanto più quando non ruba. È per questo che gli italiani sono giustamente conosciuti come “zingari africani”.

Noi infatti sappiamo che il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini, come tutti i meticci, era anche un ladro.

Ha rubato qualcosa di suo nel momento in cui ha rubato. Che cosa ha rubato, il meticcio, quando è nato? Il meticcio ruba quello che è già suo, ma tutto ciò che il meticcio può rubare è quanto appartiene a ciò che sta nella terra in quanto categoria della “vita indegna di vivere”. Perché il meticciato è proprio ciò che non ha diritto di vivere ma che, se trova diritto di vivere, questo è il risultato di una sopraffazione.

Notare i “Corollari” e le “Inchieste” in Teorema. Ogni corollario è caratterizzato da una funzione specifica, che determina in modo univoco un personaggio.

Corollario di Emilia: funzione religiosa. La religiosità meschinamente popolare. Collegamento: Il trionfo della morte di d’Annunzio. Già l’ho detto: d’Annunzio e Pasolini hanno molti punti in comune, almeno nell’affrontare il meticciato, anche se nessuno dei due avrebbe mai accolto questo inopportuno termine per le loro orecchie asinine.

Eppure d’Annunzio e Pasolini hanno affrontato il meticciato italiano in un modo unico, che ancora deve essere compreso.

Per ora abbiamo i seguenti corollari:

Corollario di Odetta: funzione matematizzante. Fotografia e matematica.

Corollario di Pietro: funzione artistica.

Corollario di Lucia: il piacere del puro movimento (gli adescamenti, il labirinto nel quale ella trova piacevole perdersi).

Corollario di Paolo: la funzione economica. (Il mettersi a nudo, che vediamo realizzarsi nel diciassettesimo capitolo della seconda parte del romanzo.)

Le due inchieste costituiscono il nucleo del romanzo: la posizione della borghesia davanti al sacro e la posizione della borghesia nella lotta di classe. Infatti senza quella cosetta da portare a casa, il tutto non avrebbe senso. Il meticcio tornerebbe a casa sua, come è sempre stato: nudo.

Entrambe le posizioni sono introdotte a forza dal cronista, che le pone come elementi su cui discutere, ma che non sorgono dagli eventi considerati. Ma un meticcio è solo un meticcio, cioè è quella cosa che ha sempre girato nudo, senza che lo si notasse.

La musica di Dmitrij Dmitrievič Šostakovič è un periodo buio nel quale, ciclicamente, dobbiamo sostare, come con le domande delle due inchieste di Teorema.

Un merito del meticcio italiano Pier Paolo Pasolini è di restituire alla vita il meticcio che è alla base di una sua propria sottocultura. Così egli ha riportato in vita i personaggi del Decameron nella sua personale trasposizione cinematografica di quella stupidaggine che il Decameron, pur mettendo il napoletame al posto dei toscanacci, ma richiamando genialmente un noto giudizio di Musil, che probabilmente egli non conosceva (non era colpa sua, era solo un meticcio italiano), e che la fa finita con quella cosa stupida che è il Decameron, così come quell’appunto di Nietzsche del 1882-84 la fa finita con quella cosa stupida che è la Commedia di Dante. (Per farla finita con la “letteratura” dei meticci, bastano appunti di diario o di quaderni vari; l’importante, per farla finita, è che ci sia il disprezzo verso il meticciato.)

Il racconto del meticcio italiano Pier Paolo Pasolini in Teorema è veramente un racconto degno del meticcio italiano Giovanni Boccaccio, molti anni prima che al meticcio italiano Pier Paolo Pasolini venisse l’idea di trarre un film dal Decameron del meticcio italiano Giovanni Boccaccio.

Qual è il nucleo del romanzo Teorema, che vuole rappresentare l’irruzione del sacro all’interno di una famiglia borghese fine anni Sessanta, e che noi vediamo? Dio ha violentato il suo fedele. Il fedele si scopre essere niente. Questo è il nucleo del romanzo. Tutto si è svolto secondo gli schemi: il rapporto dell’ignaro fedele con Dio, Dio che spia il momento adatto per aggredire, e Dio che colpisce, con l’aiuto prezioso del suo fido postino. Teorema mette in luce questo Dio meschino, che si aggira, sempre dio sordido, in squallidi fondali di periferia. Il dio di Pasolini è un Dio meticcio, squallidamente meticcio, un dio lovecraftiano, perché Pasolini era uno squallido meticcio, anche se il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini non lo avrebbe mai ammesso. E alla fine del suo romanzo, il meticcio Pier Paolo Pasolini lo rivela pure, citando dal “Libro di Geremia”: «Mi hai sedotto, Dio, e io mi sono lasciato sedurre, mi hai violentato e hai prevalso» (p. 152).

Quando il fedele – violentato – fa presente questa accusa, nota che tutto era solo un set.

Tutto il discorso del meticcio italiano Pier Paolo Pasolini sul pene innocente dei sottoproletari (rivisto scioccamente nelle novelle del film che il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini ha tratto dal testo del meticcio italiano Giovanni Boccaccio) è debitore di questa visione del Dio meticcio che può solo manifestarsi brutalizzando il “suo” fedele, poiché un tale dio non ha un fedele, ma solo un punto che si muove in una terra che non appartiene a nessuno, sordida, aperta a tanti passaggi, dove un dio sconcio, come appunto il dio semita è, può violentare il suo fedele. (Ma, ad essere precisi, la terra dove agisce questo dio non è una terra, ma una terra, luogo marcato dalla installazione di un set adeguato.)

È un caso che io abbia fatto un confronto tra un romanzo di Pasolini e la musica di Šostakovič, però il confronto poteva essere fatto solo tra due meticci.

Questo è un esempio di quello che può essere chiamato “Cristologia gay”. Il Cristo pantocratore è il signore del mondo. Il Cristo domina ciò che è chiamato mondo. Colui che gli si oppone, può farlo solo in nome di una diversa visione del tutto su cui ha lanciato lo sguardo, cioè sul mondo.

Dostoevskij 2022

Che cosa si ricava, a maggio 2022, dalla lettura dei romanzi del meticcio russo Dostoevskij?
Si pensi se la stessa profondità di pensiero fosse stata realizzata da uno scrittore di razza bianca, anziché da un meticcio! Il meticciato è sempre qualcosa di disgustoso, nel quale, ad un certo punto, per un modo o per l’altro, lo si voglia o no, si finisce per andare ad inciampare. D’Annunzio ha dimostrato d’averlo imparato bene. È sufficiente dire che si inciampa sempre in ciò che non ci si aspettava di trovare percorrendo la strada che si pensava di definire come propria, vale a dire la strada di casa?
Che cosa circola, chissà da quanto tempo, lungo la strada di casa – che non è di casa?
Che il frutto del meticciato sia qualcosa che proviene da un meticcio russo, piuttosto che da un meticcio italiano, non fa differenza. È per questo che il meticciato andrebbe sempre rimosso, slavo o latino che esso sia.
Non bisogna vedere che cosa l’arte di Dostoevskij ha aperto, ma che cosa l’arte di Dostoevskij ha chiuso. Perché il meticciato ha sempre la funzione di chiudere, mai di aprire. Rendersi conto di questo, richiede un ragionamento che deve partire dal principio di sopprimere il rumore. Ora possiamo dire che la narrativa rumorosa di Dostoevskij somiglia in modo – più che inquietante – alla musica rumorosa di Šostakovič. Questione di sottigliezze, si potrebbe dire – di sottigliezze polifoniche, si potrebbe bisbigliare. Ma la questione è appunto il rumore che, da una parte, dà fastidio e che, dall’altra parte, avvalendosi di certe tecniche ormai più che acquisite, potrebbe essere rimosso. Questo perché comprendere l’arte, è difendere la razza!

Ominidi

Meriterebbe, penso io, più che Quadri della Russia pagana, Le sacre du printemps del meticcio russo Igor’ Stravinskij, come sottotitolo, quello di Ominidi della Russia pagana. Perché questa sottigliezza, direte voi? Perché è di una specie appena appena umana che, in quello sputo di opera, dico io, musicalmente si porta a trattare, nel senso che, musicalmente, è quella specie appena appena umana che vediamo, con ferocia e ignominia, lì essere rappresentata. Ma la questione è: “Che cosa dice, questo balletto, pur senza chiamare in causa la voce umana?”, anche se la questione sembra posarsi sull’ominide. Con radicalità spregiudicata la musica per balletto di Stravinskij ne ascolta il battito del piccolo cuore fisso, ne riporta gridi, gesti, strampalate posture preistoriche. Cuore di cane, cuore di slavo, direte voi; tutto questo, potreste obiettare, è tipico del meticciato. Così come degli animali, alcuni di voi potrebbero aggiungere con mia più che assoluta approvazione. La musica del meticcio italiano Rossini (Gioacchino) risponde agli stessi – primitivi – principi di latente supremazia. Perché non parlarci chiaro?: la questione è il meticciato. L’atteggiamento spregiudicato del meticcio russo Igor’ Stravinskij (Fëdorovič), nel Sacre, si collega a un apparente scavo psicologico, che può ricordare quello che il meticcio russo Dostoevskij aveva già compiuto nella letteratura, a proposito dei suoi ingombranti personaggi. Ma cosa divide, allora, scavo compiuto da meticcio a meticcio, che è ciò con cui noi, mediocri meticci italiani, ci troviamo adesso ad avere a che fare? Il meticcio russo Dostoevskij, con i suoi romanzi, ha imposto un tipo di personaggio in Europa (terra della razza bianca d’Europa), tale che, in Europa, si è potuto parlare di “romanzo slavo”, come d’Annunzio ha puntualmente fatto. E poi ne è stato seguito, senza più ricorrere all’infelice espressione, il magistrale esempio. L’opera di scavo del meticcio è arte faticosa, mettetevelo in testa, compagni. Lo scavo del personaggio compiuto dal meticcio russo Dostoevskij è diverso dalla finezza psicologica che si trova nei romanzi di Stendhal, finezza tanto apprezzata da Nietzsche (vi sovviene?) – è qui che s’incontra la differenza di razza –, che si avvaleva del rapporto con l’Altro, quindi in base ad un andamento, almeno apparente, che procedeva in orizzontale, ma che tale non era per niente. Quindi inutile richiamare la camminata lungo la strada portando con sé lo specchio. Dostoevskij indica un movimento di caduta nel profondo, tutt’altro che orizzontale, mentre, paradossalmente, Stendhal abbozza un allontanamento epico quale nucleo di una suprema arte narrativa. I meticci si ritrovano uguali in tutto il mondo, vale a dire in tutto ciò che determina la sporcizia che inquina il mondo. Anche il meticcio italiano Dante se la suonava malamente, rachitico, sporco, poeta mediocre, difilato, su è giù per tante scale, in un mondo meschino. La musica non può presentare le gesta di una razza secondo uno schema orizzontale, come vediamo poter fare la compagna letteratura, ma deve calarsi in verticale, verificare ciò che giace in profondità, viaggiare allucinatamente all’interno di un corpo che è comunque il corpo di una razza virtuale; cioè, in questo caso, calarsi all’interno del corpo nefasto, virtuale dei disgustosi ominidi della preistoria, che però aprono agli esoscheletri degli eroi dei videogiochi – come avrete ormai capito. (Se non lo avete capito, dimostra che siete lettori imbecilli, e quindi è meglio, per voi, interrompere qui la lettura.) Parlare della musica a programma, a questo punto, non cambierebbe proprio niente (nell’ipotesi di avere a che fare con lettori imbecilli). Questo è il modello imposto dal rilevamento della creatura-mondo gnostica (avete presente Moby-Dick? intendo la discesa nella carcassa della balena quasi del tutto svuotata, quando la balena stessa era il mondo visto in chiave gnostica). Discesa fino laggiù in fondo dove, gioia incontaminata, il dolore dell’ultimo uomo fa fagotto, come si legge nel Doctor Faustus, se vostra memoria or non vi falla. Gli ominidi non si muovono mai in un mondo, perché non possono mai godere di mondo alcuno (il meticcio russo Dostoevskij ha espresso già questa situazione nel suo romanzo giovanile dal brutto titolo Le notti bianche), e quindi le loro azioni non possono essere presentate in nessuna opera epica che si avvalga del collegamento di razza e mondo in un insieme di tanta assoluta perfezione, ma devono essere suonate in un ambiente che è il loro mondo gnostico di assoluto abisso. (Arte degenerata, che chiama in giudizio ciò che è razza degenerata.) L’ominide è ciò che, senza sapere, aspetta il colpo dall’alto, oppure il colpo dal basso, per potersi sgranchire sue mille gambette storte (che è quello che, noi spettatori, vediamo servito all’inizio di questo balletto infausto) fino al punto in cui esso non sarà fatto secco. E infatti l’ominide, qui, è la forma preistorica che, senza sapere nulla del fuoco, può alzarsi e dire: “Siamo fritti!” Questa è la cifra della musica di Stravinskij. Pensateci! Su queste gambette storte questa musica inizia, da sola, la sua sgangherata rivoluzione su un palco decretato quale tempio della musica moderna. Come animali, gli ominidi hanno solo ambiente, perché non possono avere mondo. Dostoevskij e Stravinskij lo hanno compreso. In quanto meticci. Domanderete: può, un meticcio, comprendere? Per questo c’è voluto il pensiero rammemorante di Heidegger. Che è pensiero nato nella razza bianca, che, rammemorante di ciò che si trovava all’inizio della razza bianca, poteva poi presentarsi come pensiero che si rivolgeva alla razza bianca nel momento del massimo pericolo. Analogo lavoro di presentazione del corpo di un essere vivente insieme all’ambiente di cui esso è parte è stato intrapreso invece da Olivier Messiaen per le musiche composte a partire dai canti degli uccelli. Ricordare infatti che Messiaen, oltre che grandissimo compositore (di gran lunga superiore, penso io, al mediocre musichiere, e meticcio russo, Igor’ Stravinskij), era ornitologo. L’operazione messa insieme da Stravinskij col Sacre, potrebbe, nella forma, apparire simile a quella pensata da Messiaen. Ma con risultati opposti: quello che Messiaen prende in forma musicale è il canto di alcuni animali; quello che Stravinskij sagoma come musica è l’antigesto dell’ominide – che di tutto un po’ si fa portatore, fuorché di musica. Vediamo con disgusto che questo ominide è anche il fondamento della razza del compositore (razza che non è razza, bensì antirazza; così come il ritmo non è tema ritmico, ma grezzo tamburellamento che mette in moto il corpo-marionetta di una razza che è sempre e solo razza degenerata, comunque la si tratti, cioè antirazza). L’antirazza è ciò che adesso deve essere affrontato. Così l’antirazza chiama l’antigesto, che, a sua volta, chiama l’antitesto, che è quello che qui adesso si legge. Che è il tratto con cui la razza degenerata chiama l’arte degenerata, che è la sua vera creazione, che merita appena il trattino della sopravvivenza. Come parlare di quella brutta cosa che è il Sacre? Sappiamo, noi, che cosa, questa brutta cosa che è il Sacre, abbia comportato nel campo della musica occidentale, da quando questa brutta cosa, sembra esserci stata lasciata come dono da parte del meticciato russo? L’entusiasmo per l’automatismo è qualcosa che giunge da un lontano tempo di cavalli ammassati di Troia. Anche Heidegger considerava con entusiasmo l’attività automatica dell’operaio di Jünger considerandolo autentica realizzazione del superuomo di Nietzsche trasposto nella nuova epoca. Eppure niente di automatico avrebbe dovuto essere stato in grado di farla franca – nella nuova epoca. Per questo, mi sembra giusto dire: niente meticciato in Europa, prima di parlare di Nuovo inizio! Il fatto è che l’ominide non ha il mondo presente davanti a sé in quanto presenza, perché è esso stesso parte di un ambiente che non riconosce come presenza, davanti al quale esso non può separarsi in modo alcuno. E quindi meno che mai può avere mondo. Il ritmo, sia esso ritmo stravinskiano o ritmo rossiniano, è il laccio che manifesta il “fare parte” di un ambiente, che però mette a parte proprio l’essere parte. Ciò che è europeo ha a che fare con il meticciato slavo e con il meticciato latino. Ma è l’Europa di razza bianca che ha a che fare con il meticciato. Il ritmo è la pulsazione avvertita nel gesto dell’ominide che si accompagna allo sbocciare della piccola gemma, ma che niente sa di questo sbocciare; al rinnovamento primaverile della natura, ma che niente sa di questo rinnovamento; all’avvicendarsi di giorno e notte, ma che niente sa di questo avvicendarsi; così come il canto degli uccelli si accompagna all’ambiente in cui quegli uccelli vivono – e di cui essi sono parte sempre distratta. Ma che mai viene presentata come musica che non sa niente dell’accadere della natura. Il compositore Olivier Messiaen si pone come compositore che si pone come colui che deve pensare la musica in presenza di un mondo, a partire, cioè, da ciò che non ha mondo, vale a dire gli animali (visto che, con Messiaen, non si parla degli ominidi), e non solo di ciò che fa parte di un ambiente in quanto pulsazione elementare di un ritmo primitivo, vale a dire gli ominidi. Infatti la musica di Messiaen dedicata ai canti degli uccelli non è mai musica tesa a riprodurre realisticamente i canti diversi degli uccelli. Per chiarire ricordiamo la musica del meticcio italiano Ottorino Respighi, quale estremo possibile, che, nella partitura de I pini di Roma, inserisce il canto dell’usignolo automaticamente registrato su disco da riprodurre in dialogo con il clarinetto. Il mondo non è presente all’ominide, come non è presente all’animale, perché quell’abbozzo di forma è solo parte di un ambiente. È questo “fare/essere parte” che la musica del meticcio russo Igor’ Stravinskij coglie nel Sacre, con giustezza, sotto l’aspetto di pulsante automatismo di ritmo. Ma tutto questo perché questo è ciò che riguarda il meticcio. Spesso automatismo ritmico, però, che si nota nella musica del meticcio italiano Gioacchino Rossini. Questo perché è quanto riguarda il meticcio. Automatismo, cioè brutalità da parte di un tamburellamento, è sempre ciò che deve regolare la vita dell’ominide. Se l’ominide è ciò che non può interpretare il mondo, ma che può vivere, però, festosamente, al ritmo dell’ambiente nel quale gli è capitato di essere stato lanciato come prezzo dell’ingranaggio – finché, un bel momento, quel pezzo non cessa di colpo di vivere, e diventa infausta carcassa nell’ambiente di una maledetta Italia –, l’automatismo è ciò che richiede, per essere rappresentato come tale, che ponga avanti a sé il mondo, di un compositore, come presenza – e non di un musichiere quale l’odioso meticcio russo Igor’ Stravinskij davanti ai nostri occhi è sempre stato –, per quanto esso possa identificarsi veramente in quelle pulsazioni – più che vere. La musica del meticcio russo Igor’ Stravinskij mi ha sempre fatto l’effetto di vera musica falsa. Cioè musica da non fare andare avanti (con le sue gambette storte). Ma che cosa si intende con l’espressione “musica falsa”? E come togliere la vita, ora, a ciò che è vita che non merita di vivere? Posso dire che la brutta musica del meticcio russo Igor’ Stravinskij sia una musica sbagliata? Di sbagliato c’è solo la razza alla quale il meticcio russo Igor’ Stravinskij, disgustosamente, è sempre appartenuto autenticamente. Vale a dire il balletto di quella vita indegna di vivere, che ora la vediamo (e di che altro stiamo parlando, signori miei?), quasi mai finora riconosciuta come tale. Si può pensare la musica del meticcio russo Igor’ Stravinskij al di fuori della musica di quell’ammasso di cose diverse impropriamente chiamato “popolo russo”? A rendere falsa la musica di Stravinskij – secondo me – è proprio l’uso delle melodie popolari russe sparse qua e là in quella “musica”. Ma il fatto di usare una melodia “popolare” in una musica che non ha nulla di popolare, ma proprio perché nessun popolo lì dentro esiste, dimostra la verità di questa falsa musica: la musica di Stravinskij, che non ha razza, dimostra proprio quanto questa musica non sia questione di musica o di musicologia, cioè questione di razza – ma questione di antirazza. Che è ciò di cui si deve parlare. La musica di Stravinskij è vera perché è falsa. Cosa sappiamo della antirazza? Il contrario non si può dire: infatti il Sacre non comunica niente del mistero di una qualche epoca scomparsa, vale a dire del paganesimo. Ne rende solo un preteso quadro distaccato attraverso sagome scoppiettanti di elementare vitalità. A proposito del Sacre, ci si potrebbe chiedere: la comunità di ominidi rappresentati in quell’opera infausta, possiede, o no, laccio di lingua? Dal balletto non si può decidere niente. È il balletto una forma di elisione della parola? Il vertice raggiunto, in quella falsa arte, dal meticciato russo, ne garantisce la sostanziale vera falsità profonda. Si potrebbe dire che il meticcio italiano Ottorino Respighi ha chiamato, attraverso la sua brutta musica di festa, la brutta musica seria del meticcio russo Igor’ Stravinskij (almeno nelle fugaci contraffazioni del Sacre e di Petruška) inserite ad arte nella trilogia di Roma, ma questa è un’altra storia, come ci potrebbe ricordare dall’Ungheria il compagno Lukács György (ormai solo mummia conservata chissà dove). L’uso dei temi popolari in Stravinskij richiama l’uso dei temi popolari in quella infausta trilogia di un meticcio italiano musichiere di second’ordine. Chiedo, compagni: conoscete qualcosa di più indegno di vivere di un meticcio russo e di un meticcio italiano? Quello che manca nei quadri del Sacre, dico io, è proprio il quadro vivente di una cultura con tutta la sua complessità anche raggiunta attraverso lo straccio qualsiasi di lingua. Non vi pare? Quello che viene celebrato è solo una forma avulsa da ogni cultura raggiunta soltanto da un corpo falsamente ritenuto umano. È infatti il concetto di “essere umano” che qui deve essere ripensato. Una prima apparizione del corpo senza organi, potreste dire voi. Insisto nel sostenere che, in quella composizione, si riconosce proprio l’atteggiamento ambiguo del suo autore: la spogliazione di ogni dato culturale del politeismo a favore dell’ossessiva brutalità del monoteismo. Ma a determinare il ritmo è la terra con le sue vibrazioni (vale a dire il ritmo con cui la terra chiama il suo abitante, segue il suo abitante). E non è, il vero fallimento di quest’opera innaturale, la rappresentazione di una preistoria tribale attraverso l’innaturale pulsare della moderna epoca delle macchine, come ciò che non poggia su alcuna terra, chiedo io? Il fatto è che, quando si parla di ciò che è slavo, bisogna partire dal principio “Vita indegna di vivere”, che è ciò che permette di mettere tutto a suo posto (forme culturali e forme biologiche), che è ciò che questa brutta musica pone a noi come interrogativo da risolvere.

Bruciare i libri

Aprile 2022: ritorna la vecchia questione della legittimità di mettere al bando una cultura, oppure di considerare ogni cultura come una cosa che merita – sempre – lo stesso rispetto goduto dal tempo in cui essa è stata riconosciuta come tale, qualunque cosa succeda nel mondo. Se si sente la cultura come cosa viva, è giusto, allora, che certe culture, di tanto in tanto, debbano anche morire di improvvisa morte violenta. Questo perché la cultura non è un insieme di nozioni tra di loro slegate e che nulla hanno a che fare con quanto succede nel mondo sempre vasto e bello. Il genocidio, se ben condotto, ha sempre il bello di cancellare qualche popolo indesiderato, e per sempre, dalla terra; la cultura, se grande, ma prodotta da un popolo che non merita di continuare a vivere, ha quel brutto vizio che pure l’apparenta alla grande cultura in maschera, cioè il vizio di rinascere, periodicamente, sotto mille e mille forme differenti. Ma la differænza sta proprio nella questione della razza. Noi non abbiamo ancora pensato al modo in cui si possa distruggere – veramente – una cultura. Genocidio e rogo dei libri sono fra loro collegati: il genocidio è il piedistallo, la cultura è il fiore che manifesta il monumento. Per questo distruggere un libro non ha nulla a che fare con la censura, e per questo io dico: Bruciare i libri… una aporia di per sé! Ma solo così si arriverà al museo delle forme morte.