Cristologia gay

Si può parlare di una “Cristologia gay”? Consideriamo questi due romanzi: Querelle de Brest di Jean Genet, Teorema di Pier Paolo Pasolini, e, dai possibili tratti comuni, determinare ciò che potrebbe presentarsi come “Cristologia gay”. La Cristologia gay sarebbe allora basata su una ricezione della figura del Cristo, che non comprende, anzi esclude, le varie forme del Cristo gnostico, cioè del Cristo che non era chiamato a salvare tutti, ma del Cristo che si pone, scandalosamente, come figura che garantisce l’amore portato alle sue estreme conclusioni; vale a dire come l’amore diffuso in tutte le sue forme, verso ogni essere umano, senza distinzione di genere.
Questo impasto bizzarro di amore caratterizzerebbe, appunto, la venuta nel mondo di un Cristo rispondente a questa possibile “Cristologia gay” (dico io).
Ma la questione è che la sagoma del Cristo (al di fuori dello gnosticismo) è sempre qualcosa di disgustoso, come disgustoso è sempre la sagoma del meticciato, da cui il Cristo ha tratto la sua sorgente primaria. In questo L’anticristo di Nietzsche è il testo di riferimento. Inutile pensare qui alla interpretazione di Reich, dico io.
È possibile che il tema “Cristologia gay”, a proposito di Pasolini, coinvolga anche il progetto di Petrolio? In questo caso il progetto dell’opera-mondo richiamerebbe l’immagine del Cristo Pantocratore. E qui saremmo nei guai.
La conoscenza assoluta del mondo passa, qui, attraverso Cristo; perché il mondo diventa – qui – qualcosa di comprensibile attraverso un qualcosa come l’opera d’arte. (Questa figura della conoscenza è importante per la ripresa della sagoma del Cristo.)
Ricordate la battuta finale che Pasolini attore si è riservato nella sua messa in scena di quella cosa scassata che è il Decameron del meticcio italiano Giovanni Boccaccio?
Il tema può essere collegato alla Esegesi di Philip K. Dick: dove, non solo Cristo è, spesso, scandalosamente indicato come donna, ma dove anche il fedele stesso viene, occasionalmente, trasformato, da maschio che era, in donna – con il suo, più o meno esplicito, consenso.
È chiaro che il cristianesimo tende a svirilizzare l’uomo. Nella breve parte pubblicata della sua lunga esegesi, Philip K. Dick insiste molto sul tema della trasformazione del fedele cristiano, uomo, in donna. Tema pure presente nelle memorie di Schreber.
Ricordare quello che diceva Musil nei Diari (Einaudi, p. 924), secondo il quale il cristianesimo avrebbe valenza omosessuale, perché basato sulla figura del Dio che violenta, possiede con la forza il suo fedele piombandogli addosso dall’alto.
La piaga della pedofilia nel cristianesimo potrebbe allora derivare dalla persistenza di questa immagine archetipica (inconscia, senz’altro, nella maggior parte dei casi; ma che la letteratura sembra avere intravisto, bene, un po’ qua, un po’ là), che non può essere tolta via di colpo, perché proprio cosa che deve essere pensata. Ma che può essere rimossa solo rimuovendo l’immagine del Dio semita che ne sta alla base.
La figura del Cristo sarebbe allora qui il surrogato di una superiore figura divina (e, dall’altra parte, di ciò che deve essere spedito via), che chiama all’amore indistinto fra tutte le creature per poi farsi carico, teatralmente, delle colpe del Padre suo.
È chiaro che questo riguarda allora il meticciato, e il maledetto meticcio italiano prima di tutto – insisto io.

Decameronizzazione

Sostengo che il film di Ettore Scola La più bella serata della mia vita (1972) equivalga ad una completa e riconosciuta decameronizzazione del racconto Die Panne (1956) di Friedrich Dürrenmatt.
Vediamo che l’attribuzione del soggetto a Friedrich Dürrenmatt compare nei titoli di coda del film, subito poco dopo l’inizio della lunga risata del meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi, che ci accompagna quando quel sordido personaggio precipita nel vuoto con la sua Maserati color aragosta, omologa della Studebaker guidata dal povero Alfredo (Traps) del racconto. Ogni decameronizzazione non è casuale, bensì obbligo di razza. Che cosa trascina il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi – infino a quel punto?
Si può dire che Boccaccio abbia “decameronizzato” tutto il mondo, così come Borges ha “gaucizzato” la letteratura di tutto il mondo. In che cosa consiste la differenza tra l’impresa del meticcio italiano Boccaccio e l’impresa del sudamericano Borges? Il meticciato è sempre tutto uguale dappertutto, si potrebbe dire, come tutta uguale è l’aristocrazia – ad ascoltare Nietzsche.
Cominciamo dalla caccia alla donna. È presente tanto nel racconto quanto nel film. Ma possiamo dire che il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi si comporti come Alfredo Traps di quel racconto? Fra le due forme è avvenuta la decameronizzazione del mondo. Ad opera dei meticci italiani – che hanno invaso il mondo.
Ho detto che Alfredo Traps si comportava come la persona che, secondo Artaud, andava a teatro così come il borghese andava al bordello [https://www.terradellasera.com/nord/letteratura/friedrich-durrenmatt-la-panne.html].
Però possiamo adesso dire che il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi insegue la motociclista in un modo del tutto diverso da come il borghese di Artaud andava a teatro, così come andava al bordello. O da come il povero Alfredo (Traps) pensava di avere a disposizione le donne di quei piccoli paesi nei quali si era trovato a fermarsi a causa di una panne. Perché? Perché in mezzo c’è la decameronizzazione del mondo ad opera del meticcio italiano (= meticciato italiano), che, appunto, ha creato quel triste vocabolo, che io qui propongo: “decameronizzazione”.
In che cosa consiste la decameronizzazione del mondo ad opera del meticcio italiano? In un costante rimpicciolimento del mondo. Rimpicciolimento del mondo a livello del piccolo meticcio italiano (che in questo film è rappresentato dal piccolo meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi.) Vediamo che al meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi è stata data l’occasione di andare a teatro così come prendere parte allo spettacolo del teatro della crudeltà nel teatro del castello del film La più bella serata della mia vita. Il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi è sempre al centro di quello che poi si rivelerà essere stato nient’altro che uno spettacolo (ma a suo inganno). Lo spettacolo gli ruota attorno nella forma del castello-albergo che lo accoglie, della cameriera Simonetta e del boia cameriere Pilet che girano ossequiosi e formali sempre attorno a lui per servirgli i tanti diversi piatti; nella motociclista che compie diversi giri con la sua moto intorno al patibolo dove gli si sta per staccare la testa dal busto. Appunto come intendeva Artaud il suo teatro: teatro di forti emozioni. E, infatti, quando al meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi viene presentato il conto, c’è la specifica “forti emozioni”. Ma perché scomodare il teatro della crudeltà di Antonin Artaud per presentare uno spettacolo il cui pubblico è rappresentato dal più sempliciotto fra tutto ciò che può costituire pubblico, cioè dal meticcio italiano, quando noi sappiano che il meticcio italiano è proprio quel pubblico che va a teatro così come va al bordello (e quindi è il pubblico che non sceglierebbe mai di andare al teatro della crudeltà di Antonin Artaud, ma che, meno che mai, Antonin Artaud avrebbe voluto come pubblico del suo teatro della crudeltà?)
Il fatto è che noi vediamo, in questo film, il tipo del meticcio italiano che, per la prima volta nella sua triste vita, va a teatro, così come per la prima volta va al bordello.
Intanto vediamo che il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi non ha solo l’occasione di andare a teatro (al teatro della crudeltà di Antonin Artaud), ma anche di andare al bordello. Da qui la vicenda con l’avvenente creatura biforme Simonetta/Motociclista.
Eppure proprio da questo episodio possiamo vedere che il film è costruito in base a due principi diversi: lo spettacolo del teatro della crudeltà, che ruota intorno al meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi, l’inseguimento da parte del meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi della motociclista, che non ha nulla a che vedere con il teatro della crudeltà (inteso come spettacolo che ruota intorno al suo spettatore).
Per adesso vediamo solo il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi che insegue la motociclista con stile autenticamente italiano (vale a dire di meticcio italiano), che Ettore Scola sembra avergli malignamente suggerito; cioè con tutta la grettezza del meticciato, in questo caso del meticcio italiano, tengo a rilevare, visto che il film è un film del meticciato italiano (inteso come film pensato da meticci italiani). Per cui dopo “malignamente” verrebbe voglia di metterci un bel punto interrogativo (= ?).
Eppure i personaggi di questo film sembrano essere tre: 1) il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi che parla e gesticola nella sua lingua natia di meticci italiani; 2) la motociclista che si fa inseguire, insegue, sorpassa ma non parla mai (capisce la lingua del meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi, lingua con la quale questo meticcio italiano si rivolge insistentemente a lei, che non lo considera?); 3) il giardiniere/boia muto, ma che alla fine, quando chiede la mancia, si scopre non solo non essere muto, ma comprendere benissimo la lingua del meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi.
Il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi insegue la motociclista sulle strade della Svizzera così come, nel sogno, il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi sarà portato dalla motociclista lungo i corridoi, le stanze del castello, i dislivelli fra sala e sala fino ad uscire dal castello e raggiungere lo spiazzo del patibolo, davanti ai pochi gradini che il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi deve salire tutto solo, nella sua camicetta braghetta da notte. In quanto ospite del castello, il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi sale in alto; la motociclista che lo accompagna al patibolo deve infatti scendere piccoli dislivelli dall’alto in basso – per lo più. Il grande dislivello in senso contrario, dal basso verso l’alto, deve essere percorso da solo dal meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi, che equivale alle scalette che il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi deve salire per arrivare al punto dove ricevere la sua giusta ricompensa di razza: la pena di morte.
La motocicletta pone fine allo scorrere la terra da parte del meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi. Infatti è qui che si ha la prima comparsa della motociclista (e, in quel momento, si ha l’identificazione del meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi come elemento allogeno che era stato riconosciuto degno di essere soppresso, e quindi di essere condotto al suo giusto patibolo – che tanto lo aspetta quanto gli spetta).
Il patibolo che attende il meticcio italiano è sempre una cosa squallida. Nient’altro che una interruzione di strada, un cantiere che apre ad un viadotto in costruzione, portandolo sulla strada con lo scopo di lanciarlo fuori di strada, ma di portarlo sulla strada giusta che compete alla sua razza, cioè alla condanna a morte.
La terra ferita è la costruzione del viadotto dove si interrompe la strada.
För min del ho avuto una impressione delle strade che si interrompono solo in Groenlandia, quando le strade che partivano dai piccioli centri abitati, di colpo si bloccavano, lì nel pieno di una montagna e non andavano più avanti. Non c’era mai il salto nel vuoto.
Sopprimere il meticciato è, purtroppo, cosa che deve essere tuttora fatta di nascosto.
Però, mi viene da dire, che brutta fine ha fatto il mondo in mano al meticcio italiano.
Quando il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi fa cenno a un vigile lì vicino con l’intenzione di far rimuovere la moto che lo blocca, il vigile gli risponde con una frase che rivela l’avvenuta decameronizzazione del mondo ad opera dello scorrere la terra da parte del meticcio italiano (scorrere la terra che ormai avveniva da tempo), ma di cui il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi è parte integrante. Infatti il vigile svizzero risponde come un qualunque meticcio italiano potrebbe rispondere ad un altro meticcio italiano in una occasione del genere: “Non rompa i coglioni. Quando avrò tempo, sarò da lei.”
L’avvenuta decameronizzazione del mondo è perfettamente riconosciuta dal meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi, nel sottotono che compete a un meticcio italiano che ha a che fare con un altro meticcio italiano, ma in divisa: “Ho capito, avrai ragione anche tu, però, porca Madonna, intanto questo mi blocca. In Svizzera mi sarei aspettato un atteggiamento diverso.”
Si pensa infatti mai a quella cosa, fatta per non pensare, che in ogni angolo d’Europa e del mondo, è il meticcio italiano? Io penso proprio di no.
Ma il problema è: chi è che condanna a morte, nel momento in cui la condanna a morte è stata abolita, tanto in terra svizzera, quanto nel posto da dove, scarafaggiosamente, schizzano i meticci italiani? (Tanto il racconto quanto il film sottolineano, da parte dei due diversi personaggi, l’abolizione della condanna a morte, così nella terra di Alfredo Traps quanto in loco di mestizo italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi.) E – soprattutto – perché questo strano tribunale si ostina a condannare a morte?
Perché questo tribunale di vecchi si ostina a condannare ad una pena così vecchia come la pena di morte?
Vediamo due condanne a morte: una nel racconto Die Panne di Friedrich Dürrenmatt, l’altra nel film di Ettore Scola La più bella serata della mia vita. Notare che questa battuta, “La più bella serata della mia vita”, nel racconto è pronunciata, amaramente, da uno dei quattro vecchi; nel film, è pronunciata, vittoriosamente, dal protagonista, il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi, quando ormai aveva avuto piena visione di ciò che gli era capitato.
La questione è che, ciò per cui una volta si condannava a morte, e ora non si condanna più a morte, non può più essere ciò per cui, adesso, bisogna tornare a condannare a morte.
C’è un particolare, in questo film, che avvicina questa aula di tribunale alle aule che Kafka aveva fissato, nel Processo, su nelle soffitte: penso lo abbiate notato, il momento in cui il pubblico ministero sfoglia le riviste erotiche, richiamando Il processo di Kafka (e richiamando a noi, adesso, l’interpretazione dell’episodio che Deleuze e Guattari forniranno nel 1975 in Kafka. Per una letteratura minore: momento geniale dell’arte della lettura). Un piccolo wormhole, devo ammettere, a tutto favore di questo film, che è del 1972, film di questi fastidiosi meticci italiani, che instancabilmente scorrono e sgretolano tutta la terra intorno a loro.
Vediamo che tanto Alfredo Traps quanto il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi vengono condannati a morte, ma le risposte da parte di Alfredo Traps e di Alfredo Rossi/Alberto Sordi suonano diverse a partire dalle radici dei due personaggi.
Il fatto è – dico io – che la condanna a morte (ripristinata in modo tanto stravagante in quel tribunale nella sala da pranzo) sembra chiamare il principio della vita indegna di vivere per confermarsi come tribunale in grado di ripristinare a pieno diritto la pena di morte. Ma in quale modo? La cosa sconcertante è che questo principio venga riconosciuto proprio nel film italiano, che decameronizza il racconto Die Panne di Friedrich Dürrenmatt (se tocca a me, mi permetto di far notare: un film di meticci italiani che decameronizza in forma italiana un testo scritto in lingua tedesca, non pare, a loro, un tantino strano, per non dire strampalato? La decameronizzazione del mondo è comunque un autentico successo. È, se vogliamo, quel continuo successo che il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi vuole depositare al più presto in una banca svizzera nella forma di cento milioni del peso di tredici chili che riempiono la borsa vuota che aveva portato dall’Italia apposta per quello scopo.)
Concentriamoci sulla presa in giro del vicino.
Alfredo Rossi, in quanto cittadino italiano, cioè in quanto cittadino radicato nel posto confinante con la Svizzera, non solo scorre la terra svizzera, ma prende in giro il suo vicino, che abita quella terra. Lo prende in giro continuamente, con i suoi mormorii, i suoi sfottò, i suoi atteggiamenti, il suo utilizzare in modo maccheronico una lingua che non conosce e che meno che mai vuole conoscere, mischiandola con la sua lingua madre di meticcio italiano, appunto con i suoi mormorii che non hanno senso. (Insomma, con il suo essere, con orgoglio, niente di più che quello che niente altro, semplicemente, egli è: un meticcio italiano, un meticcio italiano, un meticcio italiano.)
(Possiamo allora dire che questo meticcio italiano possiede una lingua? Mi sembra proprio potere dire di no.)
È soltanto un modo di fare cucina che permette di trarre da lì la figura del Conte ospite del castello. Infatti quando il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi viene introdotto nel castello, il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi viene introdotto nelle cucine del castello.
Come si raffronta, questo suo borboglio (borboglio di meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi), questo rimasticamento della lingua italiana, che è l’alingua italiana (nell’apostrofo consiste la lingua del meticciato) in quella terra dove predomina la lingua tedesca (cioè una lingua della razza bianca)? Sostanzialmente in due modi: con individui che non comprendono quella “lingua” (la motociclista, il boia), con individui che comprendono invece l’alingua italiana e che la padroneggiano perfettamente, non solo in quanto lingua (primo tempo), ma soprattutto in quanto l’alingua (secondo tempo), vale a dire i quattro vecchi che, nel castello, metteranno in scena il subdolo processo. Che, giustamente, doveva spacciare quel meticcio italiano.
Coloro che non comprendono l’alingua del meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi hanno a che fare direttamente con la sua condanna a morte (la motociclista lo conduce ben due volte al patibolo: nel sogno, la prima volta; nella realtà, la seconda volta); coloro che padroneggiano l’alingua italiana hanno a che fare indirettamente con la sua condanna a morte, limitandosi a presentargli la sentenza di condanna di morte e il conto dei vari servizi offerti.
Giunti a questo punto, io sostengo, di non parlare più oltre de la lingua italiana, bensì de l’alingua italiana. Ma chi mi ascolterà mai, mi chiedo, tra lor signori?
Racconto e film presentano simmetrie che non possono essere lì per un caso maldestro. (Anche se il meticcio italiano, voi mi potreste far notare, è solo quella cosa che ad un certo tempo si trova ad essere lì per un men che amaro, più che amarissimo, cazzo di caso.)
L’utilizzo “maccheronico” di una lingua deriva da “maccheroni”, che insieme agli spaghetti sono il tratto che unisce quel disgustoso meticciato presente nella triste e falsa penisola italiana. Infatti il grandioso banchetto del film viene concluso dal grande piatto di spaghetti al pomodoro.
Il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi è il meticcio italiano che scorre la terra. Il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi scorre la terra per i suoi traffici tanto occulti quanto redditizi – prima di tutto, vediamo nel film, redditizi per lui.
Ma anche la Svizzera comincia a comprendere che il modo di scorrere la terra da parte del meticcio italiano è fonte di ricchezza, non solo per i meticci italiani, ma anche per gli svizzeri. E a questo impegno la terra si conferma come terra della sera, cioè come terra che dà addio al mondo. Non solo la Svizzera ha imparato ad arricchirsi osservando il modo di fare dei meticci italiani, ma ha imparato anche l’arte di prendere in giro coloro che le capitano anche per caso maldestro sotto tiro (che è quello che io, in uno dei primi esametri di questa epistola ho definito come “decameronizzazione”).
Il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi sa che i suoi connazionali (i meticci italiani) scorrono la Svizzera rendendo quella terra sempre meno sicura di quanto quella terra non fosse prima. E lo ripete apertamente. Gli autori di questo film (tutti meticci italiani) confermano che la Svizzera è una terra resa meno sicura per opera di persone che non abitano la terra, ma che scorrono la terra (persone di origine italiana: meticci italiani, come appunto gli autori di questo film sono, meticci italiani).
Gli autori di questo film tradiscono il racconto di Friedrich Dürrenmatt quando il racconto parla di persone che scorrono la terra, ma rimangono estremamente fedeli a Friedrich Dürrenmatt quando Friedrich Dürrenmatt parla di un pericolo che deriva dal non essere stati attenti a ciò che avveniva sotto i loro occhi sopra la loro terra (mi riferisco al romanzo di Friedrich Dürrenmatt intitolato La promessa).
Stare attenti a ciò che avviene sulla terra è tenere d’occhio ciò che scorre la terra.
Il meticcio è quella cosa che non abita la terra, ma che ha in dono l’arte di scorrere sempre terra altrui.
Scorrere la terra è caratteristica del meticcio, così come occupare la terra è altra caratteristica di meticcio. Questo perché il meticcio non abita la terra. Il meticcio scorre la terra, oppure occupa la terra; ma il meticcio non abita mai la terra.
La difesa dal meticcio è la pena di morte restaurata.
Ma la pena di morte non deve più riguardare l’individuo, bensì la razza. Appunto il meticciato. Dobbiamo passare da Delitto e castigo a qualcosa d’altro che comprenda il genocidio come tema da pensare e assolvere. Ma questo non riguarda il racconto, bensì l’epica. Non vi sembra?
Tanto il racconto quanto il film parlano di un ripristino della pena di morte da parte di quei quattro vecchi.
Sappiamo che l’effetto di questo scorrere la terra è la decameronizzazione del mondo.
Un meticcio semina sempre e solo meticciato. Il Decameron del meticcio italiano Giovanni Boccaccio ha seminato meticciato (anche se solo nella letteratura). Così come prima aveva fatto la Commedia del meticcio italiano Dante Alighieri.
Quando il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi è pronto per lasciare il castello, il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi scopre che quel castello era in realtà un albergo di lusso, i cui servizi prestati gli vengono adesso fatti presenti nella forma di un conto da saldare.
Il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi non sapeva di essere entrato in un albergo, pensava di essere ospite, come appunto un ospite è sempre stato il povero Alfredo (Traps) nel racconto Die Panne, a cui non sono mai stati presentati conti da pagare; il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi non sapeva niente di tariffe, fino a quando non ha visto ogni importo riportato in su lo conto.
Ma proprio in questo consiste la decameronizzazione del mondo. La Svizzera si è adeguata a tempo e spazio di meticciato, si è fatta terra che dal confine si lascia scorrere dai posti che stanno acquattati lungo il suo confine, così come l’avvenente Simonetta si mette a disposizione dei clienti di quell’albergo (non di tutti i clienti, solo di quelli che le sembra abbiano un certo fascino, come nel caso del meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi).
Ma in che cosa consiste il fascino che Simonetta avverte nei confronti del meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi? nel fatto di ciò che l’incontro espande in due momenti diversi: segmentizzazione e puntualizzazione. Vale a dire nella perfetta realizzazione della condanna a morte del meticcio italiano che scorre la terra.
Dopo che la Svizzera è stata trascorsa dai meticci italiani, la Svizzera è stata decameronizzata, vale a dire ha imparato a fregare chi le capita a tiro, a metterlo in burla, a fargli provare forti emozioni, a raggirarlo e poi a presentargli il salatissimo conto finale (come in una novella del Decameron rabberciata da un qualunque follower del meticcio italiano Boccaccio su un qualunque social network. Come a dire: “Beccati questa bella boccacciata dove meno te l’aspetti. Tiè!”).
Un meticcio non sa niente della terra. Un meticcio non abita la terra. Un meticcio ha uno spazietto dove stare, dove nascondersi. È quello che vediamo che fa il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi quando si rincantuccia nel piccolo letto messo a sua disposizione nel grande castello con il nome di Stanza dell’Imperatore.
Quando scorreva la terra svizzera, quel meticcio italiano era a suo agio; ma adesso sono frollature acide, disquisizioni su frollatura e putrefazione, come abbiamo subito sentito proferire nel momento in cui quel meticcio italiano era stato introdotto nella cucina del castello, dopo che quel meticcio italiano era stato bloccato, a causa di una panne. Noi vediamo il nostro meticcio italiano che si rincantuccia, si nasconde, fa fatica a coprire tutto quanto il suo piccolo maldestro ingombrante corpo malfatto di meticcio italiano in quella stanza di un castello costruito chissà quando, chissà da chi, da meticci, sopra la terra svizzera.
È cosa disgustosa, un meticcio. Un meticcio italiano è cosa mille volte più disgustosa. Ma ogni meticcio è una cosa che dovrebbe essere soppressa.
Die Panne è il racconto scritto dal punto di vista di colui che abita la terra; La più bella serata della mia vita è il film composto da coloro che scorrono la terra.
Il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi si tuffa nel lettuccio, si sistema a malapena le coperte e poi il sogno striscia lungo su sopra di lui come una tela di ragno. Un sogno chiaro, limpido, non qualcosa che chiama in gioco il meccanismo del sogno (come potrebbe essere, che so, Et drömspel di Strindberg nel progetto di Artaud), ma un sogno e basta, un sogno degno di un meticcio italiano che ha mangiato, pisciato e bevuto a volontà: un sogno che comprende una bella figa, una fica (che Dio tutta calda la benedica), una fessa, una fessurina sbirciata appena dalla fessura di una porta, una patatina, una topa, una santa bernardina che lo chiama, lo fa ritto, lo fa rizzare ritto in piedi, dalla bianca braghetta del letto, nella bianca braghetta della sua camicia da notte, appoggiare e strusciare a volontà – lui meticcio di italiano.
Se il processo aveva condannato a morte il meticcio italiano, il sogno esegue la condanna. Alfredo Traps non aveva avuto il tempo di sognare, essendosi ucciso poco dopo essere entrato in camera, completamente ubriaco. Il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi ha smaltito sua sbornia con solitaria pisciata ne la stalla; non ha bisogno di uccidersi, trascinando da solo la sedia in mezzo a la stanza come il povero Alfredo (Traps), perché viene condotto in pompa magna al patibolo, non per impiccagione, ma per decapitazione.
Il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi deve essere steso in orizzontale in su la terra che, in quanto meticcio italiano, trascorreva e offendeva con moto orizzontale soltanto con suo trascorrere (un meticcio offende sempre la terra), deve essere steso orizzontalmente in modo da neutralizzare il movimento orizzontale che egli aveva esercitato in su la terra: al mostro deve essere separata la testa dal busto con un colpo dall’alto.
Un meticcio violenta la terra. Dal meticcio ci si difende separandogli la testa dal busto. Come questo film mostra e dovrebbe insegnare.
La testa che deve essere separata dal tronco è nient’altro che la borsa vuota che il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi trasportava dall’Italia alla Svizzera (vuota nel tragitto Italia-Svizzera; piena nel tragitto Svizzera-Banca Svizzera). Il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi che viaggia dalla maledetta Italia alla Svizzera con la borsa vuota è una caricatura del tema folklorico del Cacciatore selvaggio che percorre la terra portando la sua testa recisa sotto il braccio nel tempo in cui gli è dato di ritornare a percorrere quegli isolati segmenti di terra. Questo perché un meticcio italiano può solo mettere in ridicolo ciò che trova, questo perché un meticcio italiano non crea niente.
Alfredo Traps è arrestato dal colpo verticale che, in Die Panne aveva il suono (di quinta vuota?) di fulmine divino, e da cui si riscattava, poi, impiccandosi, appendendosi in verticale, cioè rispondendo, con movimento opposto, al fulmine che gli era stato lanciato dall’alto. Ma nella realtà presentata da questo film le cose vanno diversamente: il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi si sveglia con la sua testa tutta bella intera sul collo. Scopre che il castello è un albergo. Deve pagare 524.000 lire (vecchie lire dei meticci italiani). I soldi non gli mancano, e quindi paga.
Entrare nella terra ferita vuole dire, avendo a che fare con il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi, entrare nella terra inquinata dallo scorrere la terra da parte del meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi. Il meticcio inquina la terra. La terra ferita è la terra inquinata dal meticcio italiano, cioè la porzione di terra che deve essere ritagliata nella terra per costruire il patibolo del meticcio italiano (affinché il meticcio italiano smetta, una volta per tutte, di scorrere la terra). Che è appunto il cantiere aperto che noi vediamo in questo film, dove il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi la prima volta si ferma, e la seconda volta riceve la giusta condanna a morte. Infatti il tempo della condanna a morte è il tempo della lettura del racconto di Friedrich Dürrenmatt. La lettura chiama l’arte di leggere, altrimenti leggere non serve a niente. La porzione di terra adibita a patibolo del meticcio che scorre la terra non diventerà mai più terra per coloro che abitano la terra, cioè terra come era la terra prima che il meticciato trovasse il modo di scorrere la terra. In questo è la questione della terra ferita. Il meticcio sporca la terra, la inquina e non la rende mai più terra abitabile. Il meticcio può essere soppresso, come dimostra questo film, ma la bellezza del mondo, che c’era prima che il meticcio avesse modo di scorrere la terra, non potrà mai più essere restituita nel mondo. Il meticcio italiano è quella cosa che non avrebbe mai avuto diritto di comparire nel mondo. Noi non siamo più in tempo per togliere la vita a questo meticcio, ma possiamo fare in modo di impedire a questa forma di comparire nel mondo.
Infatti il caso nell’arte narrativa di Friedrich Dürrenmatt ha la funzione di quinta vuota. Il film La più bella serata della mia vita recepisce in pieno la nozione di quinta vuota, ma mette in scena le quinte vuote come spazio teatrale ai lati del palcoscenico, lasciato penzolante. È ciò che vediamo quando la motociclista trasporta il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi dalla sua camera nel castello al patibolo nel cortile del castello.
La motociclista si pone come la mediante assente in un accordo di quinta vuota.
Nel mondo decameronizzato dalla sua razza (i meticci italiani), dove ognuno frega la persona che gli capita a tiro, cioè nella legge che il meticcio italiano ha imposto in tutto il mondo, il meticcio italiano non può dire niente. È la legge che egli stesso, in quanto meticcio italiano, bene orgoglioso di essere meticcio italiano, ha fatto valere in tutto il mondo: quindi, da bravo meticcio italiano… il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi che cosa fa? salda, sfotte e fa fagotto.
Ma non è qui che il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi diventa lo zimbello degli autori del film (a loro volta meticci italiani)?
Si è più volte detto che gli autori di questo film sono meticci italiani. Certo, ma che cosa succede nei punti vuoti?
Il personaggio di Simonetta si presenta in due modalità antitetiche: segmentale come motociclista, quando si fa inseguire per condurre il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi al punto della panne, prima, e al punto del precipizio, dopo; puntuale come cameriera, quando, radicata nel castello, non solo provvede alla grande cena del giudizio, ma soprattutto fa in modo che il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi si fermi a cena, in modo da avviare il processo e arrivare alla sentenza di morte, che porrà il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi in balia della motociclista (quindi la motociclista si conferma come punto attorno a quale lo spettacolo ruota). Il fatto di seguire la motociclista non è sufficiente per finire nel precipizio; porta soltanto ad una panne. Il salto nel vuoto avviene solo dopo che la sentenza di morte è stata emessa e consegnata, poiché solo quella sentenza provocherà il salto nel vuoto – anche se nella forma di bloccare il pedale del freno. (Chiaro, no?)
Eppure la sentenza di morte individuale non è sufficiente a bloccare il male che sta invadendo la Svizzera, almeno dai posti vicini, come dalla maledetta Italia.
Alla domanda perché non sia venuta di notte nella stanza, come d’accordo, da parte del meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi, Simonetta risponde: “Sono venuta, ma lei non c’era!” Dove era andato, il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi? Presumibilmente era in sella alla moto diretto al patibolo nel cortile del castello. Abbiamo in pratica due storie: la storia dell’inseguimento della motociclista da parte del meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi (Storia 1), la storia del processo nel castello (Storia 2) istituito nei confronti del meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi. Le due storie procedono in parallelo, senza darsi fastidio, ma la Storia 1 esegue delle intromissioni nella Storia 2. La vicenda di Simonetta cameriera, che entra nella camera dell’ospite, quando Simonetta motociclista stava conducendo l’ospite al patibolo, è appunto una di queste intromissioni – è l’intromissione nell’universo del multiverso.
Questo contrappunto fra due storie non è assolutamente presente nel racconto di Friedrich Dürrenmatt, che semmai deve essere dipanato a partire dalla strana denominazione “Parte prima” e “Parte seconda”.
Il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi è atteso due volte nel punto in cui (nel film) or convien che per lui suoni la panne: la prima volta quando la sua potente macchina (Maserati color aragosta) si blocca, a causa appunto di una panne; la seconda volta quando l’astuccio contenente la sua condanna a morte si incastra per un (fortunato) caso sotto il pedale del freno, impedendone il funzionamento nel momento in cui il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi voleva frenare per impedire la sua caduta nel vuoto. Il tempo fra i due movimenti è il tempo di rilettura del racconto Die Panne, vale a dire il tempo che permette di passare dal racconto Die Panne di Friedrich Dürrenmatt al soggetto del film La più bella serata della mia vita di Ettore Scola, che è ciò che permette di passare da un popolo che abita la terra ad un gruppo che, partendo da un luogo confinante con la Svizzera, deve giustificare la sua presenza al di sopra di quella terra; terra che, per il meticcio italiano è solo terra da scorrere. Vediamo un modo diverso di dire la stessa cosa, ma vediamo un modo di dire una cosa che non si sarebbe mai pensato di dover dire.
Ma bisogna dire che questo tempo passato in una rilettura ha più che dato i suoi frutti. In quale modo? Ve ne accorgerete tra poco.
Vale a dire il tempo che ha impiegato il meticcio italiano a percorrere quello spazio, cioè quel tempo che equivale allo spazio della decameronizzazione del racconto. Il colpo che inchioda il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi è lo stesso che ha inchiodato il movimento a serpentina che l’esercito romano di meticci inviato da Roma a invadere la Germania (terra di razza bianca) si è trovato a compiere a sua disfatta nella terra durante l’invasione bloccata da Arminio, trovandosi insaccato in un punto morto, senza via d’uscita (così come un punto morto è il punto in cui il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi si trova bloccato per ben due volte nel film di cui si sta amabilmente così tanto discorrendo. Fateci caso, vedrete che il meccanismo è lo stesso). Il ripensamento del fatto storico della “Battaglia di Arminio” è ciò che è stato indicato come una delle possibili origini della leggenda di Sigurðr fafnisbani: il movimento dell’esercito romano sopra la terra germanica, colto da un drone, ha lo strisciare del serpente. Sigurðr scava una fossa nel punto della traiettoria che sa essere percorsa dal serpente (antico nordico: ormr) Fafnir e quando il mostro striscia sopra la fossa su cui egli è disteso, Sigurðr lo colpisce con un colpo di spada vibrato dal basso verso l’alto. La prima volta è un sogno, la seconda volta è un salto nel vuoto. L’avvenente Simonetta è la húsfreyja di quella terra, che è l’ultima casa accogliente per la razza bianca, così come è la prima trappola destinata a ogni meticcio che scorre quella terra. Noi non sappiamo se solo un meticcio italiano, come il meticcio italiano Alfredo Rossi/Albero Sordi, possa confondere una húsfreyja con una puttana. Stando a questo film di meticci italiani, solo per un meticcio italiano una húsfreyja può fare finta di essere una puttana allo scopo di farsi seguire docilmente e portarlo al punto in cui il meticcio italiano è raggiunto da ciò che gli compete: la condanna a morte, in quanto meticcio italiano. Quello che è bello è che noi sappiano che un meticcio italiano è un meticcio italiano che deve essere raggiunto dalla sua condanna a morte. Infatti la differenza tra racconto e film è giocata proprio qui sopra: Alfredo Traps riceve la condanna a morte in quanto individuo: il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi riceve la condanna a morte in quanto vita indegna di vivere (da qui lo sdoppiamento della figura del boia nel film, mentre il boia del racconto era una figura estremamente semplice, come del resto le altre tre figure dei giudici, che non avevano bisogno di sdoppiamento alcuno). Noi vediamo il corpo del meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi sistemato per la decapitazione; noi non vediamo la carcassa decapitata del meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi. Il racconto non si difendeva dalla razza che scorreva la terra, come invece sembra dovere fare il film. Da qui la chiamata in causa del meticciato italiano lungo tutto il film.
Sia chiaro: su quello che dicono gli italiani ci cago sopra. Tutti noi sappiamo che il meticcio italiano meritava la stessa sorte toccata a zingari ed ebrei: carro bestiame e canna fumaria. Per il resto non ho assolutamente niente contro gli italiani, purché prendano il loro Dante di merda e se ne tornino in Africa, da dove vengono.
Su quello che dicono gli italiani, Dante o non Dante, ribadisco che ci cago sopra.
Sì, però bisogna ribadire la questione di partenza: perché al meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi viene tirato il triste gambino italiano? Si comprende il motivo per cui Alfredo Traps si toglie la vita nel racconto Die Panne; ma non si comprende il motivo per cui il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi debba morire alla fine di questo film di sì gagliardi meticci italiani (film di meticci italiani, ricordo – nel caso qualcuno di lor signori lo avesse dimenticato).
Il tema “Vita indegna di vivere” fa a pugni con l’ideologia umanistica. Friedrich Dürrenmatt ha fatto ricorso a forme brevi, racconti lunghi più che romanzi veri e propri. Romanzi di impianto novellistico e testi teatrali perché un tale tema poteva essere trattato solo a livello novellistico, cioè in forma ristretta quanto distretta. Trattarlo in una vera forma epica avrebbe voluto dire attaccare l’ideologia umanistica, cosa che egli non ha mai inteso fare. Solo una grande opera epica potrebbe affrontare il tema della vita indegna di vivere con la profondità che merita, vale a dire sganciandolo dal caso, e presentando invece la necessità della sua comparsa nel mondo. Friedrich Dürrenmatt ha volutamente fatto ricorso a forme brevi, dove il tema “vita indegna di vivere” poteva entrare solo come caso; evitando la grande forma epica, dove il tema “vita indegna di vivere” sarebbe entrato non come caso, ma come necessità.
La “storia ancora possibile” (evocata nel racconto La panne) si determina grazie all’intervento del caso (il guasto meccanico che blocca la potente macchina di Alfredo Traps). Questa possibilità (vita indegna di vivere) viene vista possibile solo all’interno di un caso, facile da smentire, una cosa bizzarra, una novella, non certo un’opera collettiva che comprende tutto uno sforzo epico.
Il racconto Die Panne affronta il discorso della razza in quanto richiamo possibile al pericolo che sta correndo la lingua in quanto tesoro della razza in via di estinzione, ma niente di più [https://www.terradellasera.com/nord/letteratura/friedrich-durrenmatt-la-panne.html]; il film La più bella serata della mia vita presenta il pericolo che corre la terra ad opera del meticciato che scorre la terra, ma in più, a sorpresa, propone la difesa: la soppressione del meticciato tramite la condanna a morte, che però non deve più essere una semplice sentenza di morte emessa in una sala da pranzo al termine di un più che lauto banchetto tra un ospite, un padrone di casa ed alcuni amici, ma deve suonare come autorizzazione di genocidio in ciò che unisce interno (cioè punto dove agisce Simonetta come cameriera – e dove il tribunale si riunisce in quanto ciò che difende la terra e stabilisce la condanna) ed esterno (il segmento di terra che percorre Simonetta come motociclista in quanto spazio di terra offeso dallo scorrere la terra da parte del meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi per eseguire la condanna). Vale a dire ciò che conferma la difesa della terra.
Tanto Alfred Ill (ne La visita della vecchia signora, 1955), quanto Alfredo Traps (ne La panne, 1956) ricevono una condanna a morte: diretta per il primo (la vecchia signora è infatti disposta a pagare un miliardo se qualcuno lo ucciderà); indiretta per il secondo (Traps si convince di meritare la morte per il suo modo di avere agito). Questo è appunto il tema del “povero Alfredo”.
Alfred Ill aveva distrutto una vita per salvarsi senza pensare alle conseguenze del suo gesto. “Alfredo” è qui colui che viene portato da una forza sconosciuta a fare quello che, concretamente, non avrebbe mai voluto fare. Alfred Ill non prende il treno alla fine del secondo atto perché è convinto che qualcuno lo avrebbe fermato, Alfredo Traps si impicca perché è convinto sia giusto fare così. Per entrambi gli Alfredi è presente la stessa forza che li spinge a fare qualcosa indipendentemente dalla volontà.
Solo un motivo (penso io) determina la necessità della morte del meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi – motivo che a me fa anche molto piacere. Per come la penso io, che cosa devono fare gli italiani? nient’altro che prendere il loro Dante di merda e tornarsene in Africa, da dove vengono.
Dal personaggio Alfred Ill (La visita della vecchia signora) al personaggio Alfredo Traps (La panne) c’è il film La più bella serata della mia vita, che crea il personaggio del meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi. (E, porca madonna, se quei meticci italiani ci hanno azzeccato!)
Tutto questo scaffale mi è venuto in mente pensando ad una delle cose più ignobili che troviamo a disposizione sugli scaffali delle nostre meticce librerie, grandi o piccole che siano: il piccolo Decameron del meticcio italiano Umberto Boccaccio (mi correggo… Giovanni Boccaccio; quello era solo un estremo falso, un Eco, un rimbombo giuntomi chissà da quando, da dove, sempre sgradevole in quella testa che se lo trova a inseguire, acchiappare e poi – si spera – spiaccicare).
A proposito di testa: nessuno mi toglie appunto dalla testa che nel film La più bella serata della mia vita il meticcio italiano Alfredo Rossi/Alberto Sordi sia stato giustamente condannato a morte in quanto… vita indegna di vivere dai suoi stessi compaesani, tutti quanti festosi meticci italiani, che hanno cominciato a capire di essere vita indegna di vivere. (A me fa piacere pensare sia stato proprio ma proprio così. Voi che ne pensate?)
Cosa ne penso io?
Cosa ne penso io? io scrivente, io eresiarca e mio eresiologo, perfido fabbro del paterno discorrere, sorrido intanto su le imagini che noi tutti ricordiamo de le carrozze che portavano via le carcasse degli italiani, e rimango in attesa di risposte a la mia domanda.
Eppure avevo in mente un altro finale, che è diverso da questo… Ah sì, eccolo qui: “su ciò che è italiano, carcassa o non carcassa, ci cago sopra. Su tutto ciò che è italiano, nella forma di ciò che è italiano vivente o è italiano nello stadio di carcassa, ci cago sopra.” Questo non dovrebbe più lasciare dubbi su come la penso.

Friedrich Dürrenmatt, “La panne”

L’impegno ad una storia ancora possibile chiama ad una critica ancora possibile. Se alla base del romanzo c’è una forma in cui tutto si collega a tutto, allora alla base della critica del romanzo deve esserci un pensiero che collega tutto a tutto.
C’è un curioso racconto di Friedrich Dürrenmatt che porta il titolo La panne.
Compito dello scrittore è incuriosire verso alcune parole della lingua dove lo scrittore ripropone – a coloro che lo leggono – l’impatto con la lingua comune che collega lingua di uno scrittore e lingua dei lettori.
Sappiamo che, nella maledetta lingua degli italiani, con la parola “panne” si intende qualcosa relativo ad un arresto improvviso da parte di un veicolo a motore.
Lo scrittore Friedrich Dürrenmatt costruisce un racconto sulla parola “panne” che potrebbe sembrare riguardare – appunto – l’arresto improvviso di un veicolo a motore.
Leggendo il racconto La panne di Friedrich Dürrenmatt si ha l’impressione di leggere un racconto riguardante il personaggio Alfredo Traps che si trova bloccato in un punto del territorio da lui in quel momento trascorso per ritornare a casa, dopo una giornata di lavoro, a causa di un arresto improvviso della sua automobile (automobile di gran lusso, che – statisticamente – non avrebbe dovuto subire un arresto improvviso come quello causato da una “panne”). Ma l’arte cocciuta di Friedrich Dürrenmatt si accapiglia proprio in quel punto.
Compito dello scrittore è incuriosire su alcune parole che ogni parlante della lingua dello scrittore utilizza ormai per abitudine acquisita, senza più dovere più essere portato a pensare nel momento in cui utilizza quella o altre parole di quella lingua. Vale a dire: esente da alcun dovere. Questo perché? La lingua è qualcosa che deve dare l’opportunità di filare liscio come con una automobile di lusso lungo un territorio conosciuto (che si presume di potere possedere appunto perché lo si può scorrere con monotona regolarità), senza tollerare impatto come quello provocato da una panne. Anche se, bisogna ammettere, un arresto improvviso a causa di una panne può sempre essere possibile.
Lo scrittore interviene quando tutti si comportano come fosse possibile continuare a parlare continuando ad attingere dal tesoro della lingua – che è il tesoro della razza, nel momento in cui, proprio sulla razza, è stato messo il bando (il bavaglio) a pensare, cioè ad attingere, anche quando ciò che rimane è solo il fondo dei luoghi comuni. Lo scrittore è così colui che, unico fra tutti i parlanti quella lingua, si rende conto di un pericolo che corre la Lingua.
La Prima parte del racconto è costituita da un unico paragrafo senza divisione in capoversi, che comincia con la domanda: «Gibt es noch mögliche Geschichten, Geschichten für Schriftsteller?». È interessante la seconda parte della domanda, “Geschichten für Schriftsteller”, perché pone il collegamento fra Geschichten e Schriftsteller. Se la nostalgia per la mancanza di una storia come Geschichte ancora possibile, rimanda al paragrafo 74 di Essere e tempo, la divisione del racconto in due parti rimanda invece alla divisione più generale che Essere e tempo pone fra Geschichte e Historie. Il racconto di Dürrenmatt parla soltanto di Geschichte (senza richiamare mai la possibilità di una Historie), ma pone una differenza fra le due parti, che richiama la differenza fra Lingua e Parola.
Come primo traduttore italiano di Essere e tempo, Pietro Chiodi ha risolto la differenza fra le due parole tedesche come differenza tra storia vissuta (parola tedesca Geschichte, resa con la parola italiana “storia”) e storia riportata da altri (parola tedesca, ma importata nella lingua tedesca, perché di origine latina, Historie, resa con la parola italiana “storiografia”).
Ma la Prima parte di questo racconto pone altresì un interessante collegamento con quello che diceva Artaud: si va a teatro come si va al bordello. (E infatti Alfredo Traps vede quella sosta come un invito al bordello, cioè come ad un incontro con ragazze facili da abbordare, che in quei piccoli paesi è molto facile trovare.) Indipendentemente da Alfredo Traps, noi sappiano che la letteratura tende a diventare confessione psicologica. Eppoi, indipendentemente da Alfredo Traps, la confessione psicologica tende a diventare “letteratura bell’e buona”, cioè cosa di mercato, buona per le grame analisi di mercato di Umberto Eco (il meticcio italiano Umberto Eco), e le grame scorribande narrative del mercato frequentato da Umberto Eco (il meticcio italiano Umberto Eco), cioè puro intrattenimento (chiacchiere di mercatanti, bifolchi che si congiungono al mercato sfregandosi le mani). È a questo punto che lo scrittore potrebbe dire che non c’è più nulla da raccontare. Il pericolo che corre la Geschichte è infatti la minaccia rappresentata dalla Historie. Quale differenza nasconde la differenza tra Geschichte e Historie? Io proprio non lo so, forse perché non mi occupo delle chiacchiere del mercato. Ma so di un pericolo che minaccia la razza, ad opera del meticciato.
Però si sa che, come nota FD anche in questa occasione, per chi trascorre la modernità non c’è più un dio che minacci, ma solo incidenti che accadono così, tanto per caso. Il destino non è più ciò che avviene sulla scena, ma ciò che è intento a passeggiare fra quinte vuote. Infatti il dio-destino sta abbandonando la scena della letteratura per mettersi a passeggiare lungo le quinte vuote della paraletteratura (come lo vedremo anche fare in altri testi di Friedrich Dürrenmatt).
C’è una lettera di Nietzsche (datata 2 gennaio 1886) che dice come niente di grande possa essere realizzato nella vicinanza alla sporcizia degli italiani. Forse è il caso di mantenere viva questa “sporcizia degli italiani”, ora che il mondo tende a cancellare le differenze. Mantenere viva la “sporcizia degli italiani” è un modo per segnalare ciò che nel mondo deve essere soppresso, in modo da cominciare a pensare finalmente ad una terra alleviata. Cioè ad una terra che merita di essere alleviata. Questo è un giro del mondo che si può fare solo unendo critica e romanzo. Allora: Viva il romanzo saggio! Ben venga il romanzo saggio, il romanzo enciclopedia, l’opera mondo (se non sbaglio)!
Il dio che passeggia ora fra le quinte della paraletteratura ha allora qualcosa in comune con il protagonista che occupava prima la scena – non vi pare? È da questa prospettiva che si può immaginare il protagonista del racconto La panne, che è colui che trascorre la modernità. Ma la storia che allora se ne deduce non può che essere il resoconto riflesso dal monocolo di un ubriaco. Questo è appunto l’avvertimento che Friedrich Dürrenmatt ci rivolge.
Lo scrittore è colui che non ha altro che la Parola a sua disposizione, quando la Lingua è però ancora il tesoro della razza. In quel momento lo scrittore è colui che ha il privilegio di passare dalla Parola alla Lingua. Ma è anche colui che ha la responsabilità di portare oltre la lingua in qualcosa che riguarda solo il tesoro della razza. Lo scrittore violenta la lingua che ha a disposizione, e in alcuni momenti raggiunge la Lingua.
Pensare per razze è ciò che adesso fugge e fiuta con la paura di scatenare la caccia. Questo è il motivo per cui un pensiero di questo genere deve lasciare meno tracce possibili – per i tanti cani lanciati sulle piste di quella magra caccia. È infatti una questione di piste su cui si deve essere più che pronti sempre a pensare. (Non vi sembra?) Come nel caso di un racconto sì tanto sbilanciato in due parti. Che tuttavia non nasconde la domanda fondamentale: che cosa vuole dire “pensare per razze”, quando solamente la parola “razza” è la cosa a cui è stato messo il bando?
Cosa vuole dire toccare il meccanismo del romanzo poliziesco, dappoiché il romanzo poliziesco si basa su lo squilibrio provocato dal diritto che ha un individuo qualunque alla propria vita, avendo ogni individuo diritto a sua propria vita?
C’è (mi sovviene) un romanzo poliziesco che capovolge mirabile struttura di romanzo poliziesco: il delitto turba no equilibrio alcuno; il delitto non è commesso da un assassino ai danni di una persona che aveva tutto suo pieno diritto di continuare a vivere; il detective non consegna il miserabile responsabile dell’omicidio alla giustizia affinché ottenga suo più che giusto punimento, perché il detective rinuncia a consegnare alla giustizia il criminale che, in virtù di sua più che attenta perizia, ha incontestabilmente trovato come essere l’artefice di quel delitto, perché quell’omicidio non turba equilibrio alcuno, ma, a lo contrario, restaura equilibrio ben più profondo. Questo perché la vita, che quell’omicidio ha troncato, era vita indegna di vivere. Ma nessuno pensa più a qualcosa come vita indegna di vivere.
Sto parlando, messeri, di Assassinio sull’Orient Express di Agatha Christie.
Passare dalla Parola alla Lingua è passare dalla storia che delimita un qualunque individuo all’arte di pensare per razze.
Nel romanzo La promessa Friedrich Dürrenmatt si pronuncia sulla terra: se si fosse stati attenti a coloro che, da tempo, avevano preso l’abitudine di scorrere la terra, questi assassini, che adesso sporcano la terra con i loro delitti, non avrebbero mai avuto occasione di esserci stati, vale a dire di esserci passati. Perché queste cose non avrebbero avuto modo di scorrere la terra. Infatti si tratta di “cose”, non di esseri umani. E questo la dice lunga sul tipo di enunciati con cui sarebbe bene non avere più niente a che fare.
Quello che l’arte narrativa di Friedrich Dürrenmatt sembra volere cominciare a fare, è richiamare l’attenzione su diversi comportamenti di essere sulla terra, nella forma di: 1) abitare la terra; 2) scorrere la terra; 3) occupare la terra.
Il tempo della cupa occupazione della terra è il tempo in cui il romanzo poliziesco viene ripensato da Friedrich Dürrenmatt in quanto arte dello scrittore, cioè arte che chiama il rapporto fra Lingua e Parola. È il tempo in cui non si può pensare nuova forma alcuna (vale a dire nuova forma epica) ma in cui uno spogliamento della vecchia forma del romanzo può essere… (come posso dire?) di nuovo riproposto.
Scrittore è colui che ha il compito di sorvegliare la lingua in quanto tesoro della razza.
Nel racconto La panne, Friedrich Dürrenmatt stabilisce una strana forma divisa in una prima parte, che riguarda il Pericolo, e in una seconda parte che riguarda uno svolgimento di quello che è stato presentato come possibile pericolo occasionale, provocato appunto da una panne. Ma che rappresenterà il pericolo estremo per il personaggio capitale di quella storia (che solo in quella prospettiva di pericolo poteva presentarsi).
Quando si parla di un pericolo bisogna parlare di carcasse portate via di nascosto in tutta fretta. Magari a causa di un contagio che minaccia una lingua, come in questo caso – mi sembra di capire (non siete d’accordo?)
Noi non sappiamo che cosa sia il pericolo. Sappiamo che quello che Friedrich Dürrenmatt ci invita a pensare, in questo suo racconto, riguarda un pericolo. Che è il pericolo che corre la razza.
Nella Prima parte del suo racconto, Friedrich Dürrenmatt parla solo di un pericolo che corre la lingua. Ma nel momento in cui la corsa, individuata come corsa della lingua, si interrompe – a causa di una panne – il pericolo è ciò che corre l’individuo (e che lo impone come protagonista di un racconto che deve essere, in numero di parole, più lungo, dovendo portare in causa un insieme attento di molte psicologie – la psicologia è infatti ciò che adesso fornisce la base del racconto).
Nella Seconda parte del racconto, Friedrich Dürrenmatt parla di un pericolo che sembra correre Alfredo Traps. Ma di che tipo è il pericolo che corre l’individuo Alfredo Traps, in confronto al pericolo presentato nella Prima parte del racconto? O meglio: il personaggio protagonista della Seconda parte del racconto, corre veramente un pericolo?
La Prima parte del racconto presenta il pericolo che la lingua corre; la Seconda parte presenta il pericolo che l’individuo trascorre, nel momento in cui è solo la parola a sostenere l’individuo (avendo la lingua fatto fagotto completo lungo la Prima parte).
Che cosa è, allora, il pericolo che corre la razza? È la perdita della possibilità di creare storie. Infatti il sottotitolo del racconto precisa: “Una storia ancora possibile”. Pericolo che riguarda l’impoverimento della lingua. (Il pericolo di creare storie è allora il pericolo di creare storie in cui il pericolo corso dalla parola permetta di salvare il pericolo corso dalla lingua. Per questo l’individuo Alfredo Traps può diventare sostituto del pericolo che corre la razza.)
Una storia è ancora possibile. Storia ancora possibile che lo scrittore fornisce… ad una condizione.
Abbiamo visto che la Prima parte è più o meno qualcosa che suona come una “Nota dell’autore”: non è un racconto. La Seconda parte presenta invece una storia a tutti gli effetti: vale a dire il caso del povero Alfredo Traps bloccato a causa di una panne in un villaggio, dove rimedia un posto dove passare la notte.
Sembrava una notte tranquilla, e invece no. Segniamoci, per comodità, che la Prima parte riguarda qualcosa che ha a che fare con la lingua; mentre la Seconda parte riguarda qualcosa che ha a che fare con la parola, e andiamo avanti – anche se si potrebbe pure dire che non è così.
Qual è il punto fondamentale della Seconda parte, quello che scatena tutta l’azione? È senz’altro il momento in cui Traps ammette di aver “fatto fuori” il suo superiore Gygax, subentrandogli poi a tutti gli effetti.
È a questo punto che la macchina interpretativa si mette in moto. Il pubblico ministero Zorn fiuta puzza di omicidio, ma di un omicidio molto, molto ben nascosto. Un omicidio che, a rigor di logica, non è nemmeno un omicidio; un omicidio che, in fondo, appena appena potrebbe essere classificato come omicidio, ma che tuttavia, per noi, in quanto lettori, non possiamo che sapere essere un omicidio. Nessun cadavere presente in un libro puzza mai di morto. Questo ne fa in tutto un omicidio bene accolto da noi lettori.
Perché questa è la faccenda, cioè la cosa da fare. Heidegger lo ha sfiorato nella conferenza Il pericolo. Faye lo ha fermato (facendolo poi insieme tanto infuriare).
La “cosa”, in quanto riunione di più cose diverse, è la nuova nozione su cui deve essere formulata la nuova nozione di essere umano. Che non ha niente a che fare con la vecchia cosa che adesso, di tanto in tanto, sembra sempre chiamare aiuto per essere ripristinata.
Faye aveva perfettamente compreso quello che, per lui, era il pericolo che aveva fermato nella formula “l’introduzione del nazismo nella filosofia”, avvenuto tramite il pensiero di Heidegger. Che equivale a dire: l’introduzione del pensiero del nazismo nella filosofia. Un pensiero diventa pericoloso quando si rivolge contro ciò cui fino a quel momento costituiva la normalità dell’essere umano. Ma se il pensiero è la caratteristica più vertiginosa dell’essere umano, perché rinunciare allora alla vertigine del pensiero, se il pensiero si pone, infine, a pensare la soppressione di qualche parte di quello stesso genere umano, andando quindi oltre ciò che fino a quel momento aveva costituito la normalità dell’essere umano? È un pensiero apertamente contro una parte dell’umanità, cioè un pensiero che non considera più l’uguaglianza di tutti gli esseri umani come valore imprescindibile, secondo le direttive del cristianesimo, appunto perché si richiama ad un pensiero diverso. È un pensiero non più antropomorfo, come ha detto Klossowski dopo avere letto Sade. Un pensiero che deve sprofondare la vecchia nozione di essere umano, affinché una diversa nozione di essere umano possa comparire come un Nautilus a navigare in superficie. Noi non sappiamo se questa nuova nozione di essere umano potrà essere migliore della precedente, ma diversa lo sarà senza dubbio. (Per quanto mi riguarda, l’importante è che questa nuova epoca non abbia più niente a che vedere col meticciato; e – sempre per quanto mi riguarda – preciso, col meticcio italiano. Da qui l’importanza del nazismo e l’importanza del pensiero di Heidegger, pensiero che ha avuto la fortuna della sincronia con il momento storico in cui si tentava la trasformazione della nozione di essere umano. Il giudizio che poi si può dare sul nazismo è irrilevante in base all’energia che quel pensiero (dico il pensiero di Heidegger) ha ricavato da esso.
Nietzsche è stato il primo a teorizzare l’importanza della pericolosità del pensiero in rapporto alla comparsa di un pensiero nuovo, cioè ad una pratica di pensiero che finora non era mai stata tentata. Il Superuomo è appunto una di queste vie nuove imboccate da quel pensiero, che non ha nulla a che vedere con un soggettivismo anarchico scatenato, tipo l’artista del Fuoco di d’Annunzio o il Mafarka di Marinetti, semmai con l’allevamento di un tipo diverso di uomo (come notato da Sloterdijk): vediamo allora che è solo il vecchio umanesimo che deve pacificamente finire di crollare. Deve fare fagotto affinché non ci si trovi più a doverne parlare.
La commedia di Dürrenmatt I fisici tratta il tema della pericolosità del pensiero. O meglio, il tema “la pericolosità del pensiero” viene trattato, nella commedia I fisici, proprio come il tema che non deve essere trattato, ma scartato come cosa “da pazzi”, relegata in una struttura simil-manicomio. Indirizzare la pericolosità del pensiero vuole dire intravedere un nuovo tipo di essere umano, che però si può raggiungere solo con un adeguato progetto di allevamento, che deve essere portato avanti tramite lo sforzo dello Stato. Il superuomo non nasce per caso. Così il testo de I fisici mostra proprio questo (per difetto). Quello che la nuova epoca deve accettare di pensare è la frantumazione di milioni di cocci, fino ad allora ritenuti esseri umani: cioè pensare il genocidio come primo passo per abitare la terra. Che è quello che porterà la liberazione. Cioè la terra come terra alleviata, che potrà allora essere abitata. Quanto siamo distanti da una nuova letteratura… Più o meno quanto tanto siamo distanti da un nuovo pensiero (non vi pare?).
Ma perché? Noi lettori abbiamo intanto l’impressione di seguire gli stravaganti ragionamenti di quattro pazzi e condividiamo intanto, trepidanti, i tentativi di difesa del povero Alfredo. (Ci chiediamo: riuscirà a uscire vivo dalla trappola in cui questi quattro pazzi lo vogliono chiudere per farlo secco? È questa la trappola che attende noi in quanto lettori, se consideriamo il meccanismo messo a punto da FD solo come trappola per topolini – mouse trap, si dice a proposito dell’Amleto – della Seconda parte, che prevedono lo spettacolo di un topolino preso in trappola.)
Ma che cosa sta succedendo, proprio sotto i nostri occhi, nelle righe che, incantati, noi lettori, seguiamo con i nostri occhi? Stanno succedendo due cose: il senso figurato viene inteso come senso reale; il senso reale, così invaso, torna indietro verso colui che ne aveva sancito la nascita solo in quanto senso figurato.
Ma soprattutto succede che quello che noi leggiamo è “letteratura”, cioè è un racconto, una storia divenuta ancora una volta possibile. Che è quello che noi volevamo, che il testo proponeva e che noi abbiamo cercato mettendoci a leggere il racconto. Però è letteratura solo perché preceduta dalle considerazioni della Prima parte breve. Il pericolo è quindi che la letteratura non venga più riconosciuta come letteratura.
La macchina giudiziaria, difensiva e accusatoria, che si mette in movimento in quel punto, costruisce sempre di più su quel senso figurato preso per senso reale. Noi sappiamo che sono menzogne, ma ci piace leggere quelle menzogne perché sappiamo che sono menzogne e perché sappiamo che quelle menzogne (solo in quel momento) costituiscono quella cosa che è la letteratura; noi ci divertiamo, ogni nuovo castello di menzogne predisposto dal pubblico ministero Zorn ci entusiasma e vorremmo che quella proliferazione di menzogne non avesse mai fine. Perché tutto quello è letteratura. Era quello che volevamo nel momento in cui ci siamo messi a leggere un racconto, cioè un testo di narrativa, sapendo che quello che avremmo letto era finzione, castello di menzogne, perversione di quel linguaggio che usiamo ogni giorno per entrare in contatto con la gente che sta intorno a noi; parodia di quel linguaggio da noi usato; presa in giro di quel linguaggio per noi indispensabile; questo perché, nel momento in cui volevamo la letteratura, eravamo tutti d’accordo a volere la letteratura, sì, ma la letteratura come menzogna. Nel momento in cui abbiamo accettato di leggere un testo di narrativa, siamo stati al gioco che imponeva di vedere in Traps un assassino. Pur sapendo che Alfredo Traps non esiste, perché è una cosa pensata per fare funzionare un meccanismo letterario, cioè un meccanismo che esiste solo come finzione di un meccanismo che lo contiene e lo produce di volta in volta. E perché amiamo la letteratura, ci diverte, ci fa sentire vivi con i suoi assurdi paradossi. La letteratura deve essere una menzogna, un insieme articolato di menzogne, menzogne divertenti da leggere, che si ascoltano con piacere, che si vorrebbe non avessero mai fine. Più un libro è assurdo, più lo adoriamo; proprio perché assurdo.
Ma se il campo della letteratura non deve essere invaso, meno che mai la letteratura deve invadere il campo altrui.
La Prima parte avverte di un pericolo: il pericolo che corre la letteratura nel momento in cui inclina verso il giornalismo, cioè verso una socializzazione delle frasi, verso il rispetto di una verità a tutti i costi, statisticamente determinata anche solo in base al buon senso, cioè ad una promozione determinata dal sociale, che sempre più si vuole oramai solo social. Questo è ciò che minaccia la letteratura e che finisce poi per strangolarla.
La letteratura può essere tale solo nel momento in cui innalza i suoi castelli per aria in aria libera perché non liberal. Meno che mai senza avere a che fare con il political correct stabilito dai social.
Così la letteratura non implica la responsabilità dell’autore. La letteratura è infatti un gioco che deve essere giocato rispettando le regole di quel gioco: più ci si inoltra nelle campate di quel gioco, più ci si avvicina alla soglia in cui il pensiero diventa pericolo. Pensare la pericolosità del pensiero è pensare oltre la soglia in cui il pensiero non coincide più con la verità condivisa dalla maggioranza.
Il pensiero è ciò che distingue la libertà della letteratura dalla letteratura come gioco frivolo. Intendo gioco del tipo OULIPO. (Sento puzza di Perec; ma ancora più sento puzza di morto… tanta puzza di Calvino, per non dire di Umberto Eco, morto da meno tempo. Ma, come che sia, sento sempre tanta puzza di morto.)
La letteratura può accedere al pensiero solo nel momento in cui pensa il compito che le è stato affidato, che non consiste nel raccontare storie, ma nel pensare gli elementi che permettono la costituzione di tante storie che, in quanto letteratura, la letteratura è chiamata a rendere conto in quanto costituzione. Questo è quello che ha fatto lo scrittore Roberto Musil.
Mi fa molto piacere vedere che questo è appunto quello che non ha mai fatto nessuno “scrittore” italiano. Se la letteratura è qualcosa della vita di un popolo, allora la letteratura italiana si conferma, una volta di più – e a tutti gli effetti – vita indegna di vivere.
Auspico una letteratura in cui il meticcio italiano sia nominato come ammasso cui spetti la stessa sorte toccata tempo fa a zingari ed ebrei: carro bestiame, canna fumaria.
La panne vera è ciò che si verifica nella Prima parte del racconto; la panne descritta alla vettura di Alfredo Traps, all’inizio della Seconda parte, è invece ciò che l’arte del racconto definisce come “panne”, cioè come dimostrazione di quanto appena stato proposto (il caso divino che blocca una efficientissima automobile di lusso).
Allora perché lo sbilanciamento? Quello che doveva avere poca importanza, diventa invece l’elemento della massima importanza. Noi pensiamo il racconto come la cosa più importante. Per questo, dovendo riassumere il racconto La panne di Friedrich Dürrenmatt, riassumiamo soltanto la storia presentata nella Parte seconda, cioè la storia del povero Alfredo (Traps), dimenticando quando detto nella Prima parte.
Questo perché pensiamo l’individuo, cioè quanto intrappolato nella storiografia e non pensiamo più la razza, cioè la storia (Geschichte, ciò di cui noi non abbiamo ancora il dire a tutti gli effetti).
La paraletteratura è legata a un progetto di serializzazione della letteratura, così come il meticcio, che è il creatore della paraletteratura, è il prodotto di una serializzazione di un tipo razziale, cioè di una replicazione golemica. La cui replicazione, ormai bisogna accettare, è giunto il tempo di pensare di interrompere – in modo razionale.
La Seconda parte impone uno sviluppo che – a livello di struttura – deve essere sostenuto. Da qui qualunque finale disastroso, come quello che si vede. Per questo io dico, finalmente, che il meticcio italiano è quella cosa rivoltante che deve essere condannata a morte.
Friedrich Dürrenmatt si è legato alla paraletteratura, soprattutto nella forma del romanzo poliziesco (ricordate il “requiem per il romanzo giallo” stipulato intorno ad una Promessa?). La paraletteratura è un pericolo per la letteratura. Così come la forma del meticcio è un pericolo per la forma della razza.
Adesso la condanna a morte può essere stesa su una pergamena e firmata da tutti i partecipanti a quel gioco scaturito, come tante altre volte, da una panne (che prevede la forma garantista di avvocato difensore, pubblico ministero, giudice, boia), il libro può essere stampato e la prima copia del libro può essere consegnata gioiosamente al suo autore, ma quando, in questo caso, i quattro signori entrano nella stanza di Traps, si accorgono che Traps si è impiccato – rovinando la festa. Quella festa doveva essere la migliore in quanto dire della letteratura, perché Alfredo Traps aveva fornito la storia migliore. Ma dire quanto la letteratura non può essere portata a dire, è dire quello che la letteratura non può essere portata a dire e così è inevitabile rovinare la festa. Infatti si parlava di una critica ancora possibile.
Come si sono sentiti, quei quattro vecchi di merda, in quel momento? Più o meno come mi sento io, quando il vecchio Dante di merda mi slinguaccia in faccia la sua haka.

Flipper: Murakami Haruki

Non ho mai nascosto la mia scarsa simpatia nei confronti della narrativa di Murakami Haruki.

Una caratteristica di quella narrativa è l’abilità con cui tipi diversi di musiche vengono allacciati all’interno di testi diversi. La Sinfonietta di Janáček, il Don Giovanni di Mozart, il Cavaliere della rosa di Richard Strauss sono fra le prime cose che possono venire in mente, ma ci sono anche le canzoni dei Beatles e il jazz.

Pur non avendo mai avuto simpatia per l’arte narrativa di MH, posso notare che un compositore, che, io sappia, non è mai comparso, nei vari testi che compongono la narrativa di MH, per quanto potrebbe avere molto da dire, a mio modo di vedere, in quell’arte narrativa così tanto discutibile. Di chi parlo? di Dmitrij Šostakovič. In base a questo aspetto, posso solo dire che il modo in cui l’arte narrativa di MH usa la musica è solo l’adeguamento ad un aspetto dell’utilizzabilità di tutte le cose del mondo. Allora l’arte narrativa di MH sarebbe pura arte del bluff, basata sul farsi vedere ogni tanto sempre ben vestito e parlare in modo formale? (Tutte cose, queste, che possono facilmente essere messe in ridicolo, ma allora perché l’arte di MH non è mai stata smascherata? L’arte narrativa di MH ha il suo segreto nella creazione di un lettore particolare?)

Bitte, Herr Murakami, un libro all’anno…” (ma MH non è Ernst Jünger).

Che cosa è la musica, nell’arte narrativa di MH? È ciò che, per sua natura si sottrae al pensiero, ma che, proprio per questa sua caratteristica, da MH riconosciuta, permette l’aggancio ad un testo narrativo. Questo perché MH non presenta mai la sua narrativa come ciò che richiama ad un pensiero. Tutt’altro.

Allora Šostakovič avrebbe le carte in regola per entrare in quella narrativa come effetto di anamorfosi. E infatti quella narrativa è per gran parte effetto di segmenti di anamorfosi.

Prima persona singolare è un curioso racconto contenuto nella raccolta omonima (Einaudi 2021). Tratta di un uomo che ogni tanto viene preso da una curiosa particolarità: vestirsi di tutto punto – completo elegante, giacca, cravatta, scarpe di cuoio – e uscire per fare delle cose (o andare semplicemente in alcuni luoghi) che non richiedono affatto un abbigliamento di quel genere. Vestito in quel modo egli non fa nessuna cosa particolare. A volte, per modo di dire, egli è costretto a vestirsi “di tutto punto”, perché l’occasione alla quale deve prendere parte, a causa della sua professione, richiede un abbigliamento di quel tipo, cioè l’abbigliamento importante del tutto diverso dall’abbigliamento che egli solitamente predilige; altre volte, invece, non è per niente così e il suo stile di abbigliamento, che egli definisce casual, potrebbe andare benissimo; eppure – non sempre, ma ogni tanto sì – egli avverte l’esigenza di vestirsi di tutto punto e andare in un luogo dove non è richiesto un abbigliamento di quel tipo, stare un po’ lì, come l’estraneo che effettivamente è, farsi i fatti suoi, come leggere un libretto in un punto appartato, e poi alzare i tacchi. Come non ci fosse mai stato.

(Questo la dice lunga sul modo dell’arte narrativa di MH, che si biforca in due direzioni: 1) l’anamorfosi; 2) lo smascheramento dell’anamorfosi. La narrativa di MH è ciò che fa uso dell’anamorfosi; e in questa postrema manifestazione di un’arte abbiamo la parvenza dello smascheramento dell’anamorfosi.)

Il periodo dell’anno in cui il racconto prende avvio è la primavera: una bella sera di primavera in cui il narratore si veste di tutto punto, esce di casa ed entra in un bar per leggere un libro, soltanto un libretto, un testo di paraletteratura come può essere un romanzo giallo, seduto defilato a un angolo del bancone.

Noi sappiamo però che l’utilizzabilità delle cose mondo, alla quale siamo sempre stati accompagnati dall’arte narrativa di MH, è cosa che impegna – e che può suonare davvero brutti scherzi.

Volutamente il Narratore ha evitato di entrare in un bar dove è conosciuto, perché il barista gli avrebbe subito chiesto: “Come mai vestito così di tutto punto?” ed egli – piccato su quel puntonon avrebbe avuto alcun picco su cui inalberare risposta, non sapendo, semplicemente, come rispondere picche. Quel bar, invece, defilato appena dalla sua abitazione, in cui nessuno lo conosce, si dimostra perfetto al caso suo. Rientra nella categoria della perfetta utilizzabilità delle cose del mondo, ed in tale corrispondenza a quella categoria egli utilizza quello spazio che si trova a disposizione.

A un certo punto una donna gli si avvicina e gli fa notare tre cose: 1) l’inopportunità dell’abbigliamento; 2) l’inopportunità della disinvoltura in quel caso da lui esibita; 3) la sua scarsa padronanza di quel tipo di abbigliamento, infatti la cravatta volgarmente italiana, acquistata di fretta nel duty-free di un aeroporto (come il N ha precisato quando si accingeva ad indossarla), non si adatta all’insieme di quell’abito inglese.

MH ha uno stile che tiene incollato il lettore al libro da lui scritto. È una facilità di lettura difficile a trovarsi. Possiamo dire sia un pregio? Possiamo dire sia qualcosa come una cravatta volgarmente italiana acquistata nel duty-free di un aeroporto e indossata quando ci si vuole abbigliare di tutto punto per fare qualcosa che non richiede quel tipo di abbigliamento? Un caso più rilevante del suo, vale a dire di una scorrevolezza ancora più evidente, posso dire di averlo trovato solo nel ciclo di Harry Potter di J.K. Rowling. In tutti e due i casi, accanto ad una incomparabile scorrevolezza di lettura, c’è un senso assoluto di non leggere niente, o di aver già sentito da qualche altra parte quelle cose che pure si leggono per la prima volta. È un po’ come succede quando si ascolta la musica di Šostakovič.

Il personaggio si dimostra allora del tutto fuori luogo, perdendo la padronanza della situazione, cioè la padronanza fittizia che fino a quel punto sentiva di poter esercitare 1) con la caratteristica di vestirsi di tutto punto, 2) con la scelta di un luogo appropriato, e che poco tempo prima gli era stata assicurata dalla sua immagine allo specchio, 3) ma nel quale egli era entrato come luogo in cui non lasciare traccia, dove nessuno avrebbe potuto riconoscerlo, e, azzardando che, forse, “non ha il piacere di conoscerla”, cercando di alzare i sonori tacchi delle sue scarpe di cuoio per l’occasione indossate (a differenza delle scarpe casual che di solito indossa per muoversi nei luoghi dove è conosciuto), cerca di filarsela. La donna, invece, perfettamente padrona della situazione, rimarca l’espressione che egli ha usato nei suoi confronti, al fine di togliersela elegantemente di torno, (“avere il piacere di conoscerla”, cioè la fa suonare come espressione, ma gliele suona di tutto punto non toccandolo), ridicolizzandola, e invitandolo a ricordare ciò che è avvenuto sulla spiaggia qualche anno prima insieme ad una sua amica (cioè ad una amica della donna che lo sta accusando), occasione di cui egli dovrebbe vergognarsi. La donna ha qui funzione di “ombra”, ma di ombra staccata, che solo in momenti favorevoli può trovare il suo corpo, ombra che ha seguito il N per ricordargli che egli, su una spiaggia, tempo prima, ha fatto qualcosa ad una sua amica, di cui dovrebbe tornare a vergognarsi (anziché tornare a farsi vedere vestito di tutto punto in occasioni che non lo richiedono e poi in luoghi dove meno che mai è conosciuto). Se il N ha compiuto qualcosa nei confronti di una donna, certo deve riguardare qualcosa compiuto non tanto sulla donna in sé, quanto all’ombra della donna, che però ha colpito (pesantemente o no) quella donna. Vale a dire qualcosa compiuto non tanto all’ombra della donna ma sull’ombra della donna. Vale a dire qualcosa che ha portato il N a sottrarre l’ombra, o parte dell’ombra, alla sua amica seguendo un modo che egli solo sa come mettere in pratica. E di cui noi, lettori, meno che mai sappiamo qualcosa. È appunto di questa attività segreta, di cui egli dovrebbe finalmente vergognarsi.

Il racconto ha qualcosa di misterioso; non è un racconto del mistero, cioè un racconto basato su di un mistero, ma un racconto in cui tutto l’insieme ha qualcosa di misterioso – o, se non proprio, come detto, qualcosa di misterioso”, qualcosa di enigmatico. Azzardo qualcosa come la rappresentazione di un sogno, come diceva Strindberg, e aveva capito Artaud, nel progetto di messa in scena del testo che ha titolo Ett drömspel.

Che la musica sia pensiero ad una diversa velocità è ciò che non tocca mai la narrativa di MH, che utilizza la musica come sostanza che garantisce una inerzia, cioè come cosa che non è da pensare in quella cosa che è la letteratura, che meno che mai è cosa su cui deve esercitarsi il pensiero. Infatti MH utilizza la musica (nei suoi testi narrativi) in quanto opzione che non permette mai di pensare la musica. Così come, però, non pensa in generale in nessun’altra occasione (come per esempio nel caso delle anamorfosi), nel momento in cui il pensiero potrebbe sfiorare la letteratura. Il successo dell’arte narrativa di MH sta proprio nel fatto che è una narrativa che non pensa e meno che mai richiama a pensare durante la lettura.

È questa la constatazione che ha a che fare con quanto la donna del bar vuole fare presente al N? Perché no? Ma in questa letteratura basata sulla disinvoltura dell’utilizzabilità delle cose del mondo, non si può parlare di una cattiva coscienza da parte dello scrittore? Insomma: cose fatte in serie, che si distinguono da ciò che viene fatto in base ad una serie di partenza?

Allora che tipo di narrativa è questa narrativa che si presenta sempre un tantino zoppa? Il funzionamento di un romanzo di MH ha qualcosa che ci ricorda una vecchia partita a flipper, di quelle che si facevano nei bar al tempo in cui è cominciata la carriera letteraria di MH. Non è soprattutto il ruolo del protagonista a farlo notare? Se non sbaglio Hegel diceva che nel romanzo tutto si collega a tutto. L’arte di MH non mostra il collegamento fra le cose del mondo, ma mostra come varie cose del mondo possano essere sfiorate, scontrate, poste in movimento, siano sempre disponibili nella loro posizione in quanto cose sensibili, pronte a fornire risposta, squillare, fare punti, rilanciare, luccicare, fare accendere lampadine poste ad esse corona. Se la narrativa di MH non pensa, la costruzione di un romanzo di MH è basata su di una ideale partita a flipper. E quello che la lettura determina alla fine della partita è qualcosa come il punteggio di una partita a flipper. Questo è appunto il risultato di una scommessa, cioè di una decisione. Come la semplice decisione di essere in grado di scrivere un romanzo e quindi di diventare scrittore appena in un oplà (niente più).

Una caratteristica della narrativa di MH è l’abilità con cui vengono intrecciati tipi diversi di musica all’interno di un testo. Ma ci si può chiedere: a che livello compare, nella narrativa di MH, la musica?

Mi chiedo: se la musica, nell’arte narrativa di MH, avesse la funzione di distrarre? Ho appena detto che l’arte narrativa di MH è costruita in gran parte grazie ad un effetto di anamorfosi. Ma l’anamorfosi non è tanto ciò che deve distrarre, quanto ciò che non deve dare a pensare, cioè ciò su cui lo sguardo deve scivolare come qualcosa che non è da considerare, come vediamo nell’analisi del quadro Gli ambasciatori di Hans Holbein il Giovane compiuta da Baltrušaitis.

Allora quale potrebbe essere l’effetto di anamorfosi presente nella narrativa di MH?

Il procedimento di anamorfosi è caratteristico della narrativa di MH e si collega a un particolare essenziale di quella narrativa: l’usabilità delle cose del mondo. In questa narrativa non c’è mai una situazione di blocco per un personaggio, o se c’è, essa viene facilmente superata. Il protagonista è sempre colui che ha a disposizione una certa usabilità (spazio cittadino, territorio del Giappone, treni in perfetto orario, centri commerciali, donne sempre a disposizione, tutte cose che costituiscono la piena utilizzabilità delle cose del mondo).

L’oggetto in anamorfosi è quindi il trampolino di lancio per riconnettersi pienamente alla piena utilizzabilità delle cose del mondo. Per questo gli spazi di MH hanno sempre qualcosa del flipper, mentre il protagonista è la biglia che si muove scontrando i vari bersagli che incrementano il punteggio. In un racconto si è persino arrivati ad immaginare il cimitero dei flipper (mi riferisco a Flipper, cap. 22).

L’anamorfosi deve in questo caso restare sempre con le aberrazioni non corrette. Ma cosa succederebbe, mi chiedo, se queste aberrazioni venissero corrette e l’oggetto acquistasse le sue proporzioni originarie a fianco degli altri oggetti che costituiscono la normale narrativa di MH? È questa la domanda che la donna pone al N in 8, richiamandogli alla mente quanto accaduto fra lui e un’amica di lei, su una spiaggia, qualche tempo prima.

La donna gli pone una domanda precisa: “Non si vergogna?” Uscito dal bar, in una certa agitazione, il N si chiede di che cosa dovrebbe vergognarsi. Egli sa, però, che qualcosa di cui dovrebbe vergognarsi, c’è. Ma non ricorda dove; infatti la questione non si basa su “che cosa”, ma su “dove”, cioè sul dove che può essere rintracciato nella letteratura.

In quella raccolta c’è un racconto (il quinto di otto, mentre PPS è il numero otto, cioè l’ultimo) che ripercorre quanto è stato detto nella prefazione di Vento & Flipper, cioè della riedizione dei primi due romanzi di MH. Però in quella prefazione c’è un particolare di cui nel nuovo racconto non si fa parola: la decisione di diventare scrittore. Azzardo: non sarà che proprio di quella decisione il protagonista sia infine richiamato a vergognarsi (e quindi lo abbia escluso, salvo poi creare il personaggio, per eccesso di disinvoltura, della donna che si avvicina al N di 8, ecc?). Sono convinto che l’arte narrativa di MH possa essere considerata in base alla disinvoltura. Tutta l’arte narrativa di MH si è svolta all’insegna della disinvoltura; giunta alla fine, quest’arte ama, per un vezzo, confrontarsi con ciò che ne segna la fine: l’eccesso di disinvoltura.

Il procedimento sembra questo: un racconto di PPS, Antologia poetica per gli Yakult Swallows, richiama un procedimento tipico della narrativa di MH, la tecnica anamorfica. Collegando il racconto alla versione non deformata, cioè originaria, si vede che l’elemento, che è importante, è quello che qui viene lasciato cadere: cioè la decisione di diventare scrittore. La donna del racconto 8, intitolato, come la raccolta, Prima persona singolare, parla di un qualcosa avvenuto su una spiaggia, di cui il N dovrebbe vergognarsi. La Prefazione non parla di nessuna spiaggia, ma di una parte dello stadio dove si svolge una partita di baseball. Il N è sdraiato poco fuori il campo da gioco vero e proprio: «A quei tempi, al Jingū [nome dello stadio] non c’erano gli spalti per gli spettatori, solo un pendio erboso.» (p. 10), «Ricordo ancora perfettamente la sensazione che provai in quel momento: avevo afferrato qualcosa che era sceso volteggiando dal cielo. Non sapevo perché fosse venuto ad atterrare proprio sul palmo delle mie mani. Non lo capivo allora, e non lo capisco oggi. Ma era successo, qualunque fosse la ragione. Era stata una sorta di rivelazione. O forse sarebbe meglio definirla un’epifania.» (p. 11). La striscia erbosa prende il posto della spiaggia, così come il cielo prende il posto dell’acqua. In quella spiaggia/spazio erboso, apparentemente senza nessuna ragione, qualcuno prende la decisione di diventare scrittore.

Ma qual è allora la funzione dell’anamorfosi? Essa offre la possibilità di giocare con le parole del mondo. Offre un metodo gratuito di selezione, che pure, a rigore di logica, non è una selezione. Senza il principio dell’anamorfosi, si sarebbe in balia del caos, così come il principio dell’anamorfosi permette di scantonare la possibilità di scegliere le parole del mondo; permette di scantonare a ragion veduta la selezione.

L’inizio e la fine di un romanzo di MH non sembrano contenere mai molto di importante. Questa narrativa è destinata a non cominciare e a non finire. Lo svolgimento è invece affidato a forme riconoscibili solo grazie all’anamorfosi, cioè grazie a quel principio che permette di scantonare il principio di selezione delle parole del mondo. Ogni romanzo di MH è un’avventura in una montagna incantata, e La montagna incantata come anamorfosi è uno strumento fondamentale in Norwegian Wood. Sono sempre più convinto, perché ho sempre più paura che l’arte narrativa di MH debba coincidere con l’arte di un atteggiamento, con l’arte di un bluff.

Il fatto è che MH ha fondato la sua narrativa sul niente. L’anamorfosi è la tecnica che gli permette di sfuggire al niente che egli, con la sua gratuita/estemporanea decisione di diventare scrittore, si è trovato a fare i conti. Il niente che egli ha chiamato non è la mancanza di tutto ciò che costituisce l’opposto del tutto, ma la presenza del tutto come impossibilità a cui applicare una selezione, vale a dire come possibilità di scegliere quel mondo di parole che servono a dare vita a un testo narrativo dalla prima parola all’ultima.

Ciò con cui egli ha a che fare è un totale che non dice niente, ma di cui la narrativa di MH deve rendere conto.

La butto lì: è possibile dividere gli otto racconti di PPS in questo modo: 1-2, 3-4 /5/ 6-7 /8/?

A regolare la divisione sarebbe allora la presenza o l’assenza di una donna.

Quasi ogni racconto presenta infatti una donna, oppure la sua assenza assoluta.

Con la donna di 1 si ha il massimo avvicinamento (rapporto sessuale), anche se poi la donna sparisce irrimediabilmente.

La donna di 2 è una donna esistente ma assente e l’invito che ella ha inviato al N si rivela un enigma, qualcosa su cui pensare senza arrivare ad una soluzione, come un cerchio con molti centri ma nessuna circonferenza.

In 3 la donna è assente.

In 4 la donna è presente e rivela la sua forza come fidanzatina in seguito suicida.

In 5 la donna è assente.

In 6 la donna è presente con la sua grande bruttezza e sarà assente a seguito del suo arresto per truffa.

In 7 la donna è presente in quanto indeterminatezza (le varie donne parzialmente senza ombra create dalla scimmia).

In 8 la donna è presente solo come accusatrice (accusa che riguarda un’altra donna del tutto assente). Nell’ultimo racconto si ha quindi il massimo allontanamento, così come nel primo si aveva il massimo avvicinamento.

5 è un punto di svolta, non c’è una donna, ma c’è la raccolta di poesie che MH ha composto in onore degli Yakult Swallows. Si tratta di un libro autoprodotto che ricorda il libro autoprodotto dalla ragazza di 1.

La donna di 7 è una donna alla quale è stato sottratto il nome. La scimmia di 7 confessa di avere sottratto il nome a 7 donne. La donna di 7 potrebbe essere allora l’ottavo caso che allaccia queste sette donne. Quindi è dalla donna di 8 che bisogna partire per comprendere le altre donne che l’hanno preceduta nella raccolta.

La donna di 6 (nel racconto Carnaval, denominata nella finzione come F***) è una donna presentata dal N come di grande bruttezza. Il N può incontrarsi tranquillamente con lei senza suscitare la gelosia della moglie. La moglie definisce F*** “la tua girl-friend”, cioè “la tua fidanzatina, la tua ragazza”. “La mia ragazza” è l’espressione che il N di 4 (With the Beatles) usa per Sayoko. Sapremo questo nome quando per caso verrà usato dal fratello di lei, mentre il fratello sarà definito, nel racconto, come “il fratello della mia ragazza”, però ad un certo punto, il personaggio presentato come “il fratello della mia ragazza” userà il nome Sayoko per definire il personaggio che prima di allora era sempre stato presentato dal N come “la mia ragazza”. “F***” è la formula (non proprio semplice) che il N usa per raccontare la storia che la riguarda. In entrambi i casi (racconto 4 e racconto 6), a queste due donne è stato, in un modo o nell’altro, sottratto il nome: nascosto del tutto dal N nel caso di 6, usato con reticenza da un personaggio nel caso di 4. Il personaggio “Sayoko” e il personaggio “F***” sono apertamente lo stesso personaggio, sospinte in scena in due momenti diversi della stessa composizione in otto movimenti. Sono lo stesso personaggio con due allacciamenti diversi con tutte le cose del mondo, che li fa quindi comparire come due personaggi diversi perché trovati in due segmenti di tempo diversi (racconto 4 e racconto 6). Per una nostra abitudine a identificare il personaggio di una narrazione con la nostra abitudine a identificare una persona con qualcosa che può essere spiegata tramite una psicologia.

Quasi me ne dimenticavo: nel romanzo La fine del mondo e il paese delle meraviglie di MH si parla di un personaggio che accetta di cedere la propria ombra, ombra che verrà da quel momento ad avere un propria vita indipendente da colui che prima la possedeva.

PPS si basa su qualcosa che è stato fatto ad una donna, e di cui il responsabile dell’azione dovrebbe a questo punto vergognarsi. A fianco di questa situazione abbiamo due episodi: il furto del nome (e dell’ombra) fatto ad alcune donne; l’identificazione di un uomo, apparentemente innocuo, come il responsabile dell’azione compiuta contro la donna qualche tempo prima su di una spiaggia e che egli non sembra minimamente ricordare. Consideriamo gli otto racconti come otto segmenti relativi al “fattaccio”. La mancanza di poter ricordare il fatto realmente compiuto è ciò che determina l’isolamento delle otto situazioni. Quindi ciò che determina la stesura del testo attraverso otto racconti autonomi anziché attraverso un unico racconto lungo o un solo romanzo breve.

La donna di 8 permette di comprendere le altre donne che compaiono nella raccolta. Ciò che abbiamo compreso della donna di 8 permette di comprendere meglio le altre. Fra questi elementi c’è un rapporto di entanglement. Quando, con la comprensione, modifichiamo l’immagine della donna di 8, anche le altre immagini di donne si modificano.

Gombrowicz è il signore dell’arte di allacciare le parole del mondo in grado di far parte di un romanzo. Lo dimostra il finale perfetto di Cosmo: «E per cena, pollo lesso.» Ma MH non è Gombrowicz. Karen Blixen diceva che solo quando si tolgono le maschere si è in grado di vedere la verità… della maschera. Ma MH non è Karen Blixen. Può solo indicare un gioco di maschera e volto. Niente più.

Alla fine si dovrebbe avere l’immagine di una donna che sarà la somma di tutte le donne presenti in questi racconti, così come l’immagine di tutti i N che agiscono in questi racconti, e di MH chiamato col suo nome vero in 5, forniranno l’immagine di un unico N. A quel punto si avrà l’immagine dell’azione che è scaturita dall’incontro del N con la donna. Ma questo potrebbe comportare qualcosa come il tentativo di suicidio quantistico dell’arte narrativa di MH. Non vi sembra?

Nonostante l’apertura della narrativa di MH al fantastico, tale narrativa dice sostanzialmente che nel mondo non c’è alcun mistero, perché questa letteratura dice che, nel mondo della totale disponibilità di tutte le cose del mondo, non c’è più il mistero del mondo. E infatti questa letteratura, secondo me abilissima nell’arte di propinare l’arte del bluff, dice che non c’è mai il mistero del mondo; anche quando ricorre apertamente all’elemento misterioso, come nel caso di 1Q84 o de L’assassinio del commendatore, questa letteratura dice che questo mistero è qualcosa che si potrebbe indicare come la presenza di un mistero. Ma così facendo, quest’arte narrativa svaluta il mistero del mondo, che pure sembra sempre chiamato ad esserci, anche nelle pieghe più sconcertanti che questa letteratura presenta. Una tale svalutazione viene rivelata probabilmente alla fine di PPS, quando il protagonista si trova a camminare in una strada diversa, con un clima improvvisamente diventato di pieno inverno (mentre l’avvio del racconto era avvenuto in una bella sera di primavera), tra serpenti che scendono dagli alberi e persone che avanzano col fiato giallo. E questo è il momento più gretto di questa letteratura, perché è il momento in cui questa letteratura perde la disinvoltura che le aveva permesso di scorrere i vari passaggi fino ad arrivare al punto finale: vestirsi di tutto punto, uscire di casa, entrare nel bar, rispondere alla donna che lo aveva affrontato, uscire dal bar.

Invito a ricordare i due mondi paralleli del ciclo di Harry Potter, quello della magia e quello della non magia, con isolati e nascosti punti di passaggio in alcuni punti della città. (È “fantastico”, questo?) MH dimostra qualcosa del genere in 1Q84, nel tunnel per passare inavvertitamente nel mondo delle due lune e poi per tornare nel mondo con una sola luna. (È “fantastico”, questo?)

Il mistero di MH esibisce l’orgoglio tecnologico dell’effetto speciale in un film, ma dove tecnologia e leggerezza sono alleate, non cercando mai di sorprendere, come avviene in un film. A differenza del film con effetti speciali, la narrativa di MH accompagna senza mai stupire. Questo perché qualsiasi utilizzo di una cosa del mondo si risolve in un punteggio. Sfiorare qualche cosa del mondo è infatti guadagnare un certo punteggio: è per questo che (io dico) la narrativa postmoderna di MH ha flipperizzato il mondo. Tanto più che la narrativa di MH richiama il vecchio flipper, meno che mai il romanzo postmoderno (figuriamoci i videogiochi).

Nel mondo c’è un mistero. Può essere il mistero della musica o il mistero dell’amore. L’arte narrativa di MH non ha mai pensato la presenza di questo mistero come insieme di cose su cui pensare con lo strumento della sua arte (capitatogli un po’ dall’alto e un po’ grazie ad una decisione presa dal basso), anzi, proprio grazie allo strumento della sua arte lo ha ignorato, inglobandolo come possibilità di scorrere tra tanti punti sensibili fra cui scorrere e sbattere per segnare punti, cioè presentandolo come un piano di gioco inclinato su cui totalizzare un punteggio finale; vale a dire ha pensato il romanzo come il piano inclinato bene illuminato di un flipper, per cui quello che la sua arte narrativa poteva dire del mistero del mondo è che nel mondo c’è un mistero (cosa che, paragonato al ciclo di Harry Potter, può dirsi comunque un passo avanti).

Bene. Questo è quello che io chiamo la “flipperizzazione” che l’arte della narrativa di MH ha introdotto nell’arte della narrativa. Posso anche dire, richiamando Sterne, che questa volta sono stato proprio bravo.

Noi sappiamo come usare le cose del mondo e sappiamo che quello che si può fare con una cosa (ad es. con la cosa musica) non si può fare con altre cose (ad es. con la cosa “letteratura” o con la cosa “filosofia”). La musica è pensiero a una diversa velocità. È difficile pensare la musica in questi termini. MH inserisce la musica nei suoi romanzi come punto sensibile che la biglia-personaggio fa scattare nel suo andare e venire lungo lo spazio-gioco che gli è destinato.

In questa raccolta sorniona, la moglie del Narratore ha la stessa funzione della moglie del tenente Colombo. Compare due volte: in 5, quando autorizza – secondo le parole del N – gli incontri del marito con la donna denominata, nel racconto, dal N F***, e in 8, quando, ancora più implicitamente, essendo ella andata con un’amica in un ristorante di cucina cinese, cucina che il marito non sopporta, permette l’uscita del marito vestito di tutto punto. In tutte e due le occasioni, questa donna compare sempre indirettamente “nascosta”. Nascosta dalle parole del N. Il N, dovendola nominare, dice sempre di lei “mia moglie”, così come, nella stessa occasione, dice sempre il tenente Colombo.

Questo particolare la dice lunga sull’arte narrativa di MH. È un’arte dello scambio, dell’utilizzabilità, dello scambio della moglie: qualcosa come lo scambio di coppie presente in alcuni punti di 1Q84.

Ma l’oggetto dello scambio di questa narrativa è qualcosa di ben diverso dal puro scambio di donne. Si potrebbe dire che la moglie di 5 non è la stessa moglie di 8, ma si potrebbe obiettare che i due personaggi si comportano, nei due racconti diversi, come fossero lo stesso personaggio in due momenti diversi di una stessa narrazione, colti in base a un sistema di segnalazioni che per noi determinano il racconto breve o la narrazione lunga, non riuscendo, noi, a comprendere la continuità. Quindi quando misuriamo qualcosa come racconto o romanzo, ritrovandoci d’accordo in quelle definizioni. Quindi facendo noi riferimento a un puro sistema di relazioni.

Per quale motivo il protagonista di 8 dovrebbe vergognarsi? La donna esordisce chiedendogli se gli sembra giusto comparire lì in quel modo. Se l’abbigliamento di quel tipo è una metafora per la tecnica di anamorfosi tipica di MH, allora quello che la donna chiama in causa è l’arte narrativa stessa di MH. Ma il difetto rintracciato in questa tecnica non consiste nella mancanza di qualcosa, quanto nel fatto della sua presenza (cioè nella sostanza di quella tecnica, vale a dire l’anamorfosi, che ora è soltanto essere vestito di tutto punto); allora ciò di cui il protagonista dovrebbe vergognarsi non riguarda ciò che ha fatto, ma ciò che non ha fatto. Quindi: che cos’è che non ha fatto? Se 5, paragonato alla Prefazione, rivelava la mancanza della decisione di diventare scrittore, 8 stabilisce che la decisione non ha portato a un bel niente. Quando infatti l’uomo, nella sua solitudine dell’essere vestito di tutto punto, pensa a quanto accaduto, non gli viene in mente un bel nulla.

L’accusa riguarda la questione di ciò che fa ed è lo scrittore. Cioè la questione di che cosa voglia dire decidere di diventare scrittore in modo da vivere facendo solo quello; eppure è proprio la cosa che quel poveraccio, che vediamo colto ogni tanto dalla curiosa mania di vestirsi di tutto punto, meno che mai può avere qualcosa da dire; senonché proprio quel poveraccio è la perfetta rappresentazione della questione.

Faccio una pausa: ci vorrebbe una specie di antropologia dello scrittore, un modo per analizzare il rapporto dello scrittore con l’impulso a scrivere, prima ancora che con la facoltà di creare opere. Ricordare quello che Frisé notava a proposito dei Diari di Musil: «scrivere è più importante dell’opera, scrivere è l’opera.» Opera che però si stabilisce non più come una rete di parole allacciate tra un inizio e una fine. Il nostro personaggio è infatti il perfetto ectoplasma di questa raccolta, così tanto fantasmatica che ci giunge tra le mani come lanciata dal cielo (la possibilità, cioè, che lo scrittore non abbia nulla a che vedere con il progetto di diventare scrittore) e allora qual è l’autorità della donna di 8 che le permette di affrontare quell’uomo così problematico?

Si potrebbe dire che anche decidere di fare lo scrittore per distruggere ciò che è lo scrittore… ma, forse, questo è pretendere troppo da MH.

Bisogna invece capire perché quest’accusa, estremamente vaga, abbia colpito così tanto il N, cioè il narratore MH, tanto da presentarsi come personaggio dell’ultimo racconto della raccolta. (Anche se viene celato il suo nome, ecc. – a differenza di quanto accade nel racconto 5, dove il nome completo della scrittore e parte della sua storia-carriera sono presentati.)

È una questione che riguarda il pieno e il vuoto. La curiosa, estemporanea piccola mania del N contribuisce a dargli senso: vestito di tutto punto, in quel bar dove nessuno lo conosce, contribuisce a farlo sentire a suo agio, a sentirsi pieno di senso. L’accusa lo sgonfia. Anche la scena d’incubo che lo attende poco dopo contribuisce al rapporto pieno/vuoto. Ma è soprattutto nel meccanismo dell’arte narrativa di MH che bisogna guardare a fondo. MH non ha giocato sulla letteratura come menzogna, ne ha semmai accettato la verità, ma in qualche modo l’ha svuotata, rendendola una cosa di sola superficie.

Mi è appena venuto in mente: Franz Joseph Haydn ha ricevuto una struttura per quanto riguarda la sinfonia e il quartetto per archi, ma ha lasciato un insieme di sinfonie e di quartetti per archi in cui la forma originaria della struttura da lui ricevuta veniva fortemente modificata, a differenza di quanto accade con i vari concerti da lui composti, dove, a livello di struttura, tanto ha ricevuto, tanto ha lasciato. L’approfondimento creativo di ristrutturazione della forma non c’è stato. Mi sembra che MH parli molto poco della musica di Haydn, che non è probabilmente tra i suoi autori preferiti (non è qui il caso di chiedersi perché).

Il grande artista rivoluziona la struttura che gli capita tra le mani, il suo genio stravolge la forma nel momento in cui la utilizza. MH non ha cambiato niente della forma-romanzo. Ha semplicemente utilizzato una forma che gli è arrivata di colpo come preesistente, la forma del romanzo postmoderno, “flipperizzandola”, cioè adattandola alla sua visione del mondo (che fa capo all’utilizzabilità delle cose del mondo) e al suo risiedere in un luogo (il Giappone moderno) che ha a che fare con l’utilizzabilità di tutte le cose del mondo.

Se la narrativa di MH non parla della musica di Haydn, c’è un particolare che viene in mente quando si pensa alla musica di Haydn: il buonumore. La narrativa di MH non ha mai a che fare col buonumore, come ad esempio l’arte narrativa di Dickens; per questo che, forse, MH non si sofferma sulla musica di Franz Joseph Haydn, ma è ispirata invece (la narrativa di MH) alla certezza della scorrevolezza, che implica la percorribilità dei vari segmenti in cui sono divise le varie città postmoderne. Ma possiamo dire che la musica, nell’arte narrativa di MH, sia qualcosa collegata al pensiero, cioè da pensare? Io direi proprio di no. Semmai qualcosa da collocare. L’arte di MH sostituisce la scorrevolezza all’arte del buonumore (che è di Haydn nella musica e di Dickens nella letteratura) con qualcosa che è la pura scorrevolezza di un testo.

Però possiamo dire che la formula Haydn per finire” si oppone alla formula “Šostakovič per cominciare”.

La donna non è solo l’unico elemento per tenere insieme gli otto racconti della raccolta. Ripercorriamo gli 8 racconti in base alla possibilità di “allacciare” la cintura che ingloba le parole selezionandole in base alle parole che possono entrare a far parte del testo e solo di quello (che sia racconto o romanzo), tenendo fuori tutte le altre parole del mondo. Vale a dire ciò che viene regolato in base a un criterio di “inizio” e a un criterio di “fine”.

Gombrowicz è il signore dell’arte di allacciare le parole del mondo in grado di far parte di un romanzo. Lo dimostra il finale perfetto di Cosmo: «E per cena, pollo lesso.» Ma MH non è Gombrowicz.

Ogni racconto di PPS si caratterizza in base a una difficoltà di usare le parole del mondo, senza che il problema di una adeguata selezione rispetto a ciò che deve restare fuori, venga mai avanzata. Che tipo di racconti vediamo in questa raccolta che allaccia otto racconti così tanto diversi? Racconti che si determinano in base all’impossibilità di scegliere tra le parole del mondo, di creare l’allacciamento delle parole tra un inizio e una fine dell’opera. Che cosa dice, allora, un romanzo di MH, spesso così attratto dal fantastico?

Consideriamo il racconto 2 (La crema della vita). Il protagonista viene invitato ad un concerto da una ragazza che non vede da un certo periodo di tempo. Quando si reca nel punto dove dovrebbe esserci il concerto, scopre che non c’è nessun concerto. Perché è stato invitato, allora? Senza volerlo, si mette a parlare con un signore anziano seduto su una panchina. Questi non ha nulla a che vedere con quanto accaduto, ma invita a fissare il pensiero su ciò che è quasi impossibile da pensare (come la forma di un cerchio con molti centri ma nessuna circonferenza) perché proprio in questa sfida, egli sostiene, starebbe il bello della vita, la sua essenza, la sua crema. Anche altri racconti di PPS (1, 3, 4, 6, 7) sembrano avere la stessa struttura in due movimenti: una parte prevalentemente narrativa, una seconda parte riflessiva. La parte narrativa è minimalista, i personaggi non sono per niente trattati in modo artificioso; la parte riflessiva ragiona su quanto accaduto. Il ragionamento può prendere l’aspetto di una sfida, come in 2, ma non segna mai il confine di un pericolo da affrontare. Infatti, fare della scorrevolezza il punto di forza della propria arte vuole dire eliminare la possibilità del pericolo come incontro con ciò che è nuovo.

Qual è la posizione della scimmia (racconto limite della struttura in due movimenti)? Determinarla è senz’altro di grande importanza. Sappiamo che, per un certo periodo di tempo, la scimmia ha avuto l’abitudine di rubare il nome delle donne per le quali provava una certa attrazione sessuale – pur essendo una scimmia. Rubare il nome alle donne equivaleva a rubare qualcosa del loro nome, infatti la scimmia, per effettuare il furto, agisce sul nome. La scimmia sottraeva qualcosa che può essere indicata in forma scritta come “un ombra”. Scrivere “un ombra” senza apostrofo è delimitare ciò che la scimmia rubava: la scimmia si appropriava (e stando al racconto forse ancora si appropria) di quella parte di ombra che l’apostrofo lancia sulla parola “ombra”. È tuttavia anche possibile che qualche altra scimmia abbia scoperto quel segreto, e lo stia usando ai danni di diverse donne.

È certo che è di questo che il N di 8 deve vergognarsi. Su una spiaggia, che era un campo erboso al margine di uno stadio di baseball, un ragazzo tifoso di un squadra scalcinata di baseball ha deciso di diventare di colpo scrittore, facendo qualcosa che ha sottratto qualcosa a chissà cosa di altro. Questa decisione si basa sulla traiettoria di una palla, su un arcobaleno di gravità… trasformato in epifania di una palla.

Però non gli è andata male (tutt’altro). Ma questo non stabilisce niente. Da qui il richiamo al doversi vergognare.

La scimmia, come immagine anamorfica dell’uomo, ci porta alla deformazione anamorfica come immagine curiosa che si proietta spesso nei testi di MH (letteratura che richiama letteratura, e che sa di una via d’uscita – per ciò che letteratura sa di non poter essere). Non vi sembra?

La butto lì: giunto all’apice della sua carriera, il vecchio (falso) mago MH immagina una tempesta e riunisce delle cose della sua arte, non su di un’isola, ma in un semplice bar isolato dove nessuno ha il piacere di conoscerlo. È appunto l’ultima fregola di un maghetto alla Harry Potter a cui è sempre stato concesso di prosperare magnificamente. Grazie, non dimentichiamolo, alla sua bacchetta magica di scrittura. Così egli fa suonare tutto bene prima di buttare via la bacchetta. Gli spettri non li manda via, ma li fa sfrecciare insieme al suo personaggio appena lo ha fatto uscire dal bar. Spettri invecchiati, deformati… mostri. C’è qualcosa che non va. Questo è quel qualcosa di cui ci si deve vergognare. Se questa raccolta fosse però la piena confessione di uno qualunque che ha deciso di diventare scrittore, per cui il peggio deve venire?

Allora ci si dovrebbe chiedere: “Che cosa è dello scrittore nella nostra epoca?”

Quello che fa, o faceva, la scimmia, cioè rubare il nome ad alcune donne, è collegato alla misteriosa azione per la quale il N di 8, stando a quanto dice la donna, dovrebbe vergognarsi.

Se noi consideriamo la scimmia come anamorfosi dell’immagine umana, la funzione dell’anamorfosi che compare nell’arte narrativa di MH è una funzione di comodo, che permette quella attività di scrittore, di cui però il suo autore non dovrebbe assolutamente inorgoglirsi, anzi dovrebbe vergognarsi, in quanto attività che si è sempre sostenuta su di un inganno, sulla sottrazione di qualcosa ad una parte che doveva restare intera.

È difficile immaginarsi il N di 8, che vediamo come un tranquillo tipo qualunque, con la curiosa abitudine di vestirsi di tutto punto per fare delle cose in un certo ambiente, che non richiedono quel tipo accurato di abbigliamento, fare qualcosa, di cui dovrebbe vergognarsi, ad una donna. Ricordare che il fratello di Sayoko, dopo aver parlato al N del suicidio della ragazza, gli dice che, secondo lui, egli è stato l’unico vero amore della ragazza: «“Senti, permettimi di parlarti con sincerità, anche se… se quello che ti dirò potrebbe pesarti sulla coscienza. Sayoko ti ha amato più di chiunque altro.”» (p. 61).

In realtà è la scimmia che ha fatto la cosa per cui ci si dovrebbe vergognare (cioè il furto di un qualche cosa, grazie all’anamorfosi): ma chi si nasconde dietro la scimmia? La scimmia è il risultato di una umanizzazione che nasconde il fenomeno dell’anamorfosi che è fondamentale nell’arte narrativa di MH.

La questione è: che cosa è letteratura? Il richiamo a nozioni fatte vestendosi di tutto punto, o la possibilità di aprire un campo di minacce? (tanto che l’altra persona possa sentirsi poi chiamata a scostarsi e a chiedere: “È una minaccia?” poiché avverte un pericolo – più che non richiamare a un dovere di vergogna nell’arco di un arcobaleno di una gravità.)

Descrivere il mondo è pornografia. Istituire un rapporto tra un soggetto ed alcuni oggetti del mondo è produrre una sottile pornografia. È quello che ha rappresentato Gombrowicz con il personaggio che porta il suo stesso nome. Di qualcosa attinente alla pornografia viene indirettamente accusato il N di 8, ma l’accusa reale riguarda l’uso della pornografia, cioè della descrizione del mondo (che è pornografia) da parte di una letteratura che evita proprio di mettere in scena quel rapporto basato su di un principio pornografico.

Cosa mette in scena l’incontro del racconto 8? Uno sdoppiamento, che per il N non esiste, mentre per la donna è evidente. Lo sdoppiamento riguarda la capacità di autoironia, la possibilità di dire delle cose lasciando intendere di dire la cosa opposta (cioè la possibilità del bluff che è alla base del N che, ogni tanto, viene preso dalla necessità di vestirsi di tutto punto per fare delle cose che non richiedono assolutamente un abbigliamento di quel tipo); la donna annulla invece qualsiasi possibilità di sdoppiamento e dice che, presentarsi in quel luogo vestito di tutto punto è solamente una cosa di cui ci si deve vergognare. Lo sdoppiamento messo in atto dal N richiama il bluff, mentre la donna smaschera il bluff.

La biglia (palla del gioco) è ciò che deve essere rilanciata indietro con uno scatto effettuato al momento giusto al fine di segnare nuovi punti sul vecchio percorso. Questo è ciò che la decisione di diventare scrittore ha comportato nel momento in cui si è visto atterrare la palla in gioco.

Ma perché, da parte di questo maestro del romanzo lungo, giunto all’apice della sua arte, creare otto racconti brevi – cioè puntare sul segmento anziché sul continuo? Forse potrei dire che queste sottigliezze dell’arte narrativa di MH sono proprio quelle cose che a me non interessano, avendo io, come ho detto in apertura, non molta simpatia per l’arte narrativa di MH, ma posso invitare a considerare un’opera riconosciuta come enigmatica, l’ultima sinfonia di Šostakovič, compositore ignorato nell’arte narrativa di MH.