Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini

Questo romanzo prende forma da un ricordo improvviso, avvenuto nel corso di una gita estemporanea, da parte di un Narratore, che avverte l’impulso di mettersi a scrivere la storia – cioè quello che egli, in quel momento, riconosce come essere stata la storia – della famiglia Finzi-Contini; famiglia che egli ha conosciuto e frequentato per un certo periodo importante di tempo nel corso della sua vita, in un certo spazio di quel suo tempo a disposizione. Spazio e tempo che egli, adesso, non è più portato a condividere in nessun modo.
La forma del ricordo, dove l’impulso a scrivere quella storia si manifesta in lui, e la forma di romanzo che essa prende, che di quell’impulso si presenta come la sua propria messa in scena, nel romanzo si estende nella forma zoppa in cui forma di ricordo e forma di romanzo ci vengono propugnate.
Il romanzo Il giardino dei Finzi-Contini si presenta infatti come racconto organizzato in un Prologo, un Epilogo e quattro parti che allacciano un totale di ventisette capitoli. Abbiamo quindi una forma comprendente un Prologo, ventisette capitoli distribuiti in quattro parti, e un Epilogo. La Cornice è la spia della struttura zoppa che questo romanzo mette in scena, ma è la spia di una cornice che, nei fatti, meno che mai c’è. Questa cornice zoppa è anche la stampigliatura frusta di ciò che il Giardino impone come modo di percorrere uno spazio che esso esibisce in quanto “terra” a disposizione, e di ciò che il personaggio impone come modo di avere a che fare con esso in quanto ciò che si ha a che fare con quel dato elemento (cioè il giardino) in quanto niente più che personaggio.
La grandiosa microstoria che il Prologo presenta non ottiene conclusione nell’Epilogo. Questo perché quanto presentato nel Prologo è la microstoria che ha la sua conclusione nella discesa sottoterra del Narratore in I/6 (e non nell’Epilogo). La conclusione di quella discesa nel sottosuolo risponde all’andata sulla superficie di ciò che non è stato trovato nel sottosuolo. L’Epilogo presenta solo la conclusione relativa alla storia presentata nei ventisette capitoli che si sono avvicendati dopo il Prologo. Quello che si ricava è quindi una struttura zoppa, che – in questo caso – tutto quello che può fare è mostrare una decoerenza.
A determinare la zoppaggine è il duplice andamento sotteso da questo romanzo, che è riassumibile tramite queste due formule (oppure componenti): “Giardino” e “Interpretazione di Micòl”. Che è ciò che permetterà di passare dal giardino alla donna.
La formula-componente “Giardino” e la formula-personaggio Micòl Finzi-Contini sono infatti pensati nello stesso mondo e funzionano nello stesso modo all’interno di questo romanzo, portando a completo funzionamento le intermittenze che regolano comparsa e scomparsa di queste due vere e proprie rampe di una messa in scena. Fra l’una e l’altra si ha il procedere a piè zoppo. Infatti è di intermittenze che qui si tratta.
Il personaggio di Micòl può essere considerato come personaggio solo in quanto “Interpretazione di Micòl” funzionante in quel romanzo, così come il Giardino può essere considerato come “interpretazione di uno spazio” funzionante in quello stesso romanzo. Entrambe le forme si determinano in funzione al Narratore nella forma di un insieme comprendente una intermittenza regolata da allontanamenti, divieti, sbagli, concessioni attente. Vale a dire: obbligo di procedere a piè zoppo. Con la differenza relativa a ciò con cui si ha a che fare. Fra quelle due forme avviene appunto la decoerenza.
L’Interpretazione di Micòl chiama ad una sospensione; l’interpretazione di uno spazio chiama alla sospensione che richiede una interpretazione che sa di una illazione. L’interpretazione dello spazio è ciò che può essere contrapposta – a tutti gli effetti – all’Interpretazione di Micòl.
Se questa è la via in cui si determina la lettura di questo romanzo, allora è pure logico, da questo punto, determinare la ruga da cui porre la domanda: “come determinare questo procedere a piè zoppo?” Comunque ci poniamo, questa è la via da cui dobbiamo infatti partire.
Vediamo che questo procedere a piè zoppo presenta due forme diverse a seconda dei due elementi considerati, infatti “Giardino” e “personaggio Micòl” sono organizzati in base a intermittenze proprie ai due aggregati, cioè ai due personaggi.
Vediamo di quali intermittenze si parla.
Due sono i punti di partenza: la funzione del giardino e l’interpretazione che Micòl dà dell’amore. Il giardino si pone in una duplice prospettiva: giardino di giorno, frequentato dalla compagnia che ruota intorno al vecchio malandato campetto da tennis, e giardino frequentato anche dalle escursioni di Micòl e del Narratore nei tempi morti fra una partita e l’altra; giardino di notte – presentato solo nell’ultimo capitolo – quando il Narratore vi entra di nascosto e ne deduce la relazione, non si sa fino a quale punto reale, fra l’amico Malnate e Micòl. In qualunque modo lo si consideri, il giardino stabilisce una relazione continua fra tutti gli elementi che erano comparsi davanti al Narratore come indipendenti fra loro. Relazione che il romanzo presenta nel particolare del potente fischio di Alberto, che i due che si erano allontanati lungo il giardino, che il campo è libero.
L’Interpretazione di Micòl (IV/3) è invece il secondo tipo di intermittenza, che culmina nella sua interpretazione dell’amore come sopraffazione di un amante sull’altro. Secondo questa interpretazione, l’amore non è né fusione fra due individui, né compartecipazione fra gli stessi; è invece lotta dell’uno contro l’altro, desiderio dell’uno di sbranare l’altro: loro due (Micòl e il Narratore), ella conclude, non potranno mai amarsi perché non hanno il desiderio di sbranarsi a vicenda (perché uno accetta l’altro secondo la formula di una intermittenza che si basa su di una uguaglianza di partenza). Essi non possono amarsi – ella ne deduce – perché essi sono troppo uguali. Questa reciproca uguaglianza, vale a dire equilibrio, è ciò che porta il Narratore, alla fine della narrazione, a scalare di frodo il muro di cinta del giardino, e, a metà della narrazione, ciò che porta Micòl a fuggire dalla cinta muraria di Ferrara, ma continuando a tenersi con lui in contatto e mandandolo dal fratello, in modo da permettergli di frequentare con regolarità la casa costruita intorno alla cinta muraria e al giardino, dentro le mura di Ferrara.
In entrambi i casi si ha uno squilibrio di partenza: fra il giorno e la notte, nel caso del giardino; fra individuo e altro individuo, nel caso della visione di Micòl dell’amore; con la differenza che Micòl fa leva su questo squilibrio (per lei essenziale al fine di conseguire la formula del vero amore), mentre il giardino si pone (nell’arco di quello stesso squilibrio riconosciuto) cioè come punto di partenza per il proprio annullamento – quando infatti il Narratore, alla fine del romanzo, entrerà nel giardino di notte, e realizzerà quello che sembra una illazione nei confronti dell’amico e della ragazza amata, giungendo alla conclusione di rompere definitivamente i rapporti con i Finzi-Contini (secondo l’Interpretazione di Micòl, ciò che deve rimanere separato non deve più rimanere tale, perché uno dei due deve divorare l’altro – se c’è vero amore). E questo si ricollega alla visita alla necropoli del Prologo, che, tramite le parole di Giannina, diceva che i morti di un tempo remoto, come quelli che giacciono nelle necropoli dei siti archeologici, sono pur sempre morti, come quelli che si vanno a trovare nei cimiteri moderni. Questa constatazione ha infatti effetto di avvicinamento, almeno secondo quanto riferisce il Narratore. Quando il Narratore entra nel giardino di notte per realizzare un avvicinamento (come può essere quello che offre un cimitero moderno), incontra invece quello che la visita ad un sito archeologico offre a un qualunque suo visitatore: la separazione incolmabile tra ciò che è (cioè che è in vita, e lo è ancora) e ciò che è stato (cioè che è stato in vita, e adesso non lo è più).
Non per niente il romanzo Il giardino dei Finzi-Contini si organizza in quattro parti circondate da un Prologo e un Epilogo. Prologo ed Epilogo costituiscono una falsa cornice (cioè una cinta muraria che può essere scavalcata in determinate occasioni, come ignorata in tante altre). La tematica che si affaccia nel Prologo non viene accolta – o viene ricacciata – nell’Epilogo.
Il romanzo sviluppa la storia del ragazzino che ha paura di scavalcare il muro, e scende poi sottoterra, fantasticando di poter rimanere a lungo lì nascosto, aiutato e nutrito dalla fanciulla che lo aveva invitato a scavalcare il muro per entrare nel giardino di nascosto. Il ragazzino arriva per caso in quel punto in bicicletta, quindi adoperando un mezzo di locomozione che prevede il padroneggiamento di un equilibrio. Al ritorno dalla discesa sottoterra, il ragazzino troverà Micòl in equilibrio sul muro. Il mezzo che egli ha utilizzato per muoversi, e che ha appena nascosto sotto terra, è un mezzo prodotto per garantire la mobilità sopra quella parte di terra che si può scorrere da una parte all’altra senza muri od ostacoli di altro genere (salvo poi trovarsi di colpo a rasentare il muro), mentre il muro (su cui egli vede la ragazzina Micòl) è ciò che viene eretto per garantire che ciò che si trova da una parte e dall’altra del muro non possa mai venire trascorsa con un qualunque mezzo atto a scorrere la terra.
Il giardino aveva funzione di protezione nei confronti di Micòl, ma non del Narratore. Perché i Finzi-Contini sono stati deportati in Germania, mentre la stessa cosa non è capitato alla famiglia di appartenenza del Narratore? Che cosa viene determinato (in quel modo) attraverso il giardino? Alberto svanisce, mentre Micòl sembra morire tutto ad un tratto. Il Narratore è indifferente a questo arcobaleno della gravità. Nella sua narrazione ci sono cimiteri, necropoli, tombe faraoniche, morti senza una tomba e un luogo dove il Narratore è come una specie di ebreo errante, che trascorre la terra qui rappresentata dal giardino dei Finzi-Contini; il giardino è allora per lui quella nuova terra che gli viene offerta come terra su cui continuare ad andare. Lì non troverà la morte, vedrà solo persone che muoiono, ma grazie a quel luogo potrà sempre continuare il suo viaggio – in quanto figura mitica – e realizzare la vicinanza tra vivi e morti che è ciò che offre lo spazio di un cimitero e che viene presentato come tema della narrazione di una storia nel Prologo. E quindi del romanzo, che poi egli potrà scrivere.
Nel Prologo vediamo il Narratore trasportato in un movimento, attraverso l’automobile in gita con amici. In questo episodio lo vediamo identificato come ebreo (cosa che poi sarà molto importante) dal proprietario della vettura a seguito di una domanda importuna, relativa a chi è nato prima, posta dalla figlia Giannina a cui il padre risponde (secondo il resoconto del Narratore) con diplomazia in questo modo: «“Prova a chiederlo a quel signore,” disse, accennando a me col pollice.»
È curioso: in quel punto iniziale della narrazione, quando il Narratore non è ancora entrato in scena, ed è trasportato nell’automobile dei suoi amici, si richiama accidentalmente il gesto col pollice dell’autostoppista. Allora Il giardino dei Finzi-Contini sarebbe una riproposizione del tema dell’ebreo errante aggiornato in base all’entanglement e alla decoerenza (richiamati con il gesto dell’autostoppista)?
Come si determina questo giardino, che pure dà il titolo a questo romanzo? Innanzitutto c’è un campo da tennis, che è l’elemento aggregatore della compagnia; poi c’è la parte intorno a questo campo, quello dove Micòl e il Narratore andranno a passeggiare quando il campo è occupato e che ha il suo culmine nella rimessa dove i due stanno insieme nella vecchia carrozza e dove, poche pagine dopo, il Narratore rimpiangerà di non avere preso l’iniziativa di baciarla. Così il giardino sembra essere tutt’altro che un elemento di aggregazione, sempre che un discorso sulla terra possa chiamare in causa qualcosa come un “elemento di aggregazione” (che è proprio ciò che invece non ha nulla a che fare con la terra, semmai ha a che fare con i luoghi asettici dove vengono piantate le moderne città tutte costruite in verticale, che con la terra non hanno più nulla a che fare).
Che tipo di giardino è, invece, dal punto di vista dell’arte paesaggistica, il giardino dei Finzi-Contini? Non è un giardino all’italiana, né alla francese, né all’inglese: è un giardino dove si può andare come spazio che può essere trascorso. Ci sono alberi da frutta, un campo da tennis, alberi secolari, una rimessa, una casa per la famiglia del custode. È un giardino che se ne fa un baffo dell’arte dei giardini.
Eppure il giardino, così come noi lo conosciamo, in quanto arte del paesaggio, è una violenza a quello che, per natura, potrebbe essere di per sé un paesaggio, che dovrebbe presentarsi per quello che soltanto è – e che invece è qualcosa che parte da una separazione che deve essere riparata e la separazione impone un intervento sulla natura. L’arte del paesaggio è la dimostrazione di quanto la terra sia adesso sentita come qualcosa di simile ad un corpo morto da esporre pubblicamente proprio perché corpo che ha cessato di vivere – allora ciò che contiene quel corpo morto è la cornice in quanto bara, ma bara zoppa, e il corpo che contiene in quanto cadavere da esporre, è la terra di quel malandato e malaugurato giardino. Si vede che questa cornice-bara, che espone il cadavere del Narratore, è doppiamente una bara zoppa, e non solo perché i Finzi-Contini di cui parla il romanzo non hanno avuto nessun tipo di cerimonia funebre.
Noi pensiamo la terra solo come terra dove andare e non come terra che chiama il suo abitante.
La spiegazione della funzione del giardino è contenuta nel capitolo finale, quando il Narratore vi entra di nascosto scavalcando il muro, e dopo un po’ camminando, immagina che Malnate abbia ormai la consueta abitudine di incontrarsi con Micòl, o nella capanna nel giardino o nella camera di lei. Nell’Epilogo viene avanzata l’ipotesi che gli incontri tra Malnate e Micòl siano tutta una illazione del Narratore. Eppure è sempre come se il giardino trovasse la sua verità di notte. Ma in quale notte? Questa è la domanda fondamentale del romanzo. Si potrebbe rispondere: nella notte in cui il Narratore sparisce da Ferrara. Ma in quale modo egli sparisce da Ferrara? In un primo tempo il giardino aveva proprio la funzione di disgiungere giorno e notte, morti e vivi, terra da scorrere e terra da abitare, nel tempo in cui la terra non è ciò che viene rivelata tramite la regolare alternanza di luce e buio, soprassuolo e sottosuolo. (Allora ci si potrebbe di nuovo chiedere: in quale modo il Narratore sparisce da Ferrara, senza incappare nelle leggi ormai attive contro gli ebrei?)
Tuttavia il giardino ha, in un secondo tempo, la funzione di riconciliare il Narratore col padre. Quando infatti il Narratore ritornava a casa tardi, e il padre lo chiamava sentendolo arrivare, era consuetudine del Narratore fare finta di non avere sentito, e chiudersi in camera; ma non quella sera, e infatti, quando il padre lo chiama, egli risponde subito, e questo porta ad una lunga chiacchierata fra padre e figlio; chiacchierata che disgiunge per sempre “il figlio Narratore” dai Finzi-Contini e da Malnate.
Ma qual è la domanda che il padre pone al figlio, nel momento in cui il figlio ha risposto, per la prima volta, alla chiamata che il padre, per tante volte, gli ha inviato, sentendolo rincasare di notte: “Scommetto che siete andati a donne” La terra e la donna, in questo personaggio di vecchio padre depresso adesso dalle leggi razziali, vengono viste come la stessa cosa da trascorrere fugacemente, di nascosto, ma sempre con l’orgoglio “di razza” da trasmettere da padre in figlio, cioè con l’orgoglio di vedere sempre trascorrere la terra. Quel padre ebreo è felice che quel figlio ebreo sia andato a donne in quella notte che, per la prima volta, il figlio ha risposto alla sua chiamata. Nella riposta affermativa del figlio, il vecchio padre vede l’appartenenza “di razza”, che se ne può fare un baffo delle leggi razziali contro gli ebrei, perché “scorrere la terra” è ciò che salvaguarda la “razza”. Il figlio ha sempre un po’ disprezzato quel padre che non ha mai compreso, ma adesso, che, scorrendo la donna che lo ha accettato in quanto giovane che le si è presentato semplicemente per “andare a donne”, ed è stato accettato da una donna in quanto realizzazione dell’espressione “andare a donne”, cosa invece che Micòl non permetteva assolutamente, egli può rispondere a quanto chiede il padre. Giustamente, a conclusione della chiacchierata, quello che il padre dice sono solo nozioni indispensabili per l’arte di trascorrere la terra, da padre (medico) a figlio: «“E soprattutto: se la mattina, svegliandoti, ti capitasse di notare qualcosa che non va, vieni subito in bagno a farmi vedere. Nel caso, ti dirò io come devi regolarti.”» (IV/9, p. 225).
Quando adesso il figlio risponde, dimostra di essere perfettamente in grado di scorrere la terra, per questo ha accettato il dialogo con il padre, mentre prima lo aveva sempre rifiutato. Ma la questione sta in quella domanda del padre ebreo al figlio ebreo: “Siete andati a donne?” È lì che la questione dello scorrere (scorrere la terra, scorrere la donna) si fissa e si rilancia. Appunto, si rilancia di padre in figlio. Avere imparato a “scorrere la donna” vuole dire smettere di scorrere il giardino, ma imparare, contestualmente, a “scorrere la terra”.
Come tutti i padri, anche il padre del Narratore, sotto il peso delle nuove leggi razziali, non ha altro cruccio in testa che quello di insegnare al figlio come farsi strada nella vita (vale a dire, insegnargli l’arte di “scorrere la terra”). Che è quello che gli permette di fare elegantemente fagotto, così come il figlio, una volta imparata l’arte, può alzare i tacchi da Ferrara. Installarsi a Roma, dove poi lo vedremo in una breve gita con amici all’inizio del romanzo.
Questo perché la terra, così come la donna, leggendo quel romanzo, potrebbe comparire come una cosa da proteggere, così come soltanto cosa da trascorrere. Ma in quel romanzo né la terra né la donna sono mai viste come cose da proteggere.
Che cosa viene identificato, allora, come tradizione, in questo romanzo?
Questo è appunto il terreno su cui il romanzo procede a piè zoppo. Tramite i suoi personaggi principali, questo romanzo presenta una specie di adeguamento alla tradizione ebraica, eppure nemmeno più di tanto. In quanto lettori, veniamo a sapere di una tradizione che in parte viene derisa da Micòl quanto dal Narratore (cioè dai personaggi principali di questo romanzo). Per il padre del Narratore, tradizione vuole dire “scorrere la terra”; e “scorrere la terra” è ciò che permette al Narratore di scorrere il giardino; per il Narratore “scorrere la terra” è qualcosa che egli può fare diverse volte, nei confronti del giardino dei Finzi-Contini; per Micòl “scorrere la terra” è qualcosa che, invece, non può essere mai essere legittimata. Da qui la sua chiusura nei confronti del Narratore. La soluzione è nella domanda che, da tanto tempo, il padre, che si è tenuto nascosto nella sua camera, può infine porre al figlio: “Siete andati a donne?”. In quanto lettori, veniamo informati che molte volte il padre ha chiamato il figlio, sentendolo rincasare tardi di notte. Sappiamo che il padre, dopo l’entrata in vigore delle leggi razziali in Italia, soffriva di insonnia. Ma il figlio, prima di quella volta, non aveva mai risposto a quella chiamata. Invece quella volta risponde: perché? Tra padre e figlio c’è una domanda sospesa, che il figlio aveva sempre evitato di sentirsi porre e che il padre non aveva mai avuto modo di porgli. Il figlio risponde alla chiamata del padre quando sa di avere la risposta alla domanda che il padre non gli aveva mai posto. Ma che adesso, nel momento in cui il figlio risponde alla chiamata del padre, il padre può formulare completamente: “Siete andati a donne?” dice la domanda; il figlio può adesso rispondere con orgoglio: “Siamo andati a donne!”. Tra padre e figlio c’è adesso il rapporto che non avrebbe mai potuto esserci prima, dato quel guazzabuglio di cose, che comprendeva il giardino e la donna, che questo romanzo presenta con estrema precisione. Il figlio andava nel giardino, mentre la donna di quel giardino lo teneva prudentemente a distanza; per il padre non era tanto importante che il figlio andasse in quel giardino in quel modo, quanto che imparasse ad andare da Micòl come “andare a donne”, vale a dire che imparasse l’uguaglianza tra la terra come cosa che deve essere trascorsa e la donna come cosa che deve essere trascorsa, quindi che imparasse come andare nella “terra”. Che è la cosa che tiene lontana il significato della parola nordica þing, che nella lingua italiana vuole solo dire “cosa” – e niente di più. Cioè che una cosa è una cosa. È questo che il padre chiede con quella semplice e stonata domanda: “Siete andati a donne?”; la risposta del figlio si intona perfettamente alla stonatura e lo pone in grado di rompere i rapporti con il giardino dei Finzi-Contini e con la donna del giardino dei Finzi-Contini.
Stonatura che però non riguarda un modo di rispondere per dissonanze, semmai il contrario.
Che tipo di narratore viene allora fuori? Un narratore che deve trarre le conseguenze dal suo avere a che fare con un terreno, un ambiente, ma non mai un mondo.
Questo disgiungimento ha senz’altro funzione simile a quella della necropoli di Cerveteri: avvicina ciò che è diviso, ma riafferma il principio stesso della divisione.
Il Giardino è passivo nella sua accettazione dello scorrere la terra da parte del Narratore, mentre Micòl è attiva nella sua repulsione nei confronti del Narratore.
Che cosa si può trarre da questo romanzo, inteso come redazione effettuata dal protagonista, cioè da colui che, in mancanza di un nome può essere identificato come “il Narratore” (a cui però si presenta la funzione sempre possibile del narratore)?
C’è un rapporto con la terra, che in questo romanzo viene sempre inteso come “vicinanza”. Questo tipo di rapporto beffardo si ripresenta anche con la donna – che compare come legata a quella terra in quanto giardino.
Ricordare il punto in cui Micòl accusa il Narratore di sfruttare qualunque occasione di vicinanza con lei per baciarla e strusciarsi contro di lei. Vediamo come si presenta nell’originale, cioè secondo il resoconto del Narratore: «Aggiunse che da molto tempo in qua il mio modo di condurmi non era dignitoso: né per me, né per lei. Lei me l’aveva detto e ripetuto mille volte che era inutile, che non cercassi di trasferire i nostri rapporti su un piano diverso da quello dell’amicizia e dell’affetto. Macché. Appena potevo, io, al contrario, le venivo addosso con baci e altro, come se non lo sapessi che in situazioni come la nostra non c’è niente di più antipatico e controindicato. Santo Iddio! Possibile che non riuscissi a trattenermi? Ci fosse stato fra noi in precedenza un legame fisico un po’ più profondo che non quello determinato da qualche bacio, allora sì che lei avrebbe potuto capire che io… che lei mi fosse entrata per così dire nella pelle. Ma dati i rapporti che erano sempre intercorsi fra noi, la mia smania di abbracciarla, di strusciarmi contro di lei, non era il segno probabilmente che d’una cosa sola: della mia sostanziale aridità, della mia costituzionale incapacità a voler bene davvero. E poi, andiamo! Che cosa significavano le improvvise assenze, i bruschi ritorni, le occhiate inquisitorie o “tragiche”, i silenzi immusoniti, gli sgarbi, le insinuazioni cervellotiche: tutto il repertorio di atti inconsulti e imbarazzanti che esibivo instancabilmente, senza il minimo pudore? Pazienza se le “scenate coniugali” le avessi riservate a lei sola, in separata sede. Ma che anche suo fratello e Giampi Malnate dovessero esserne spettatori, questo no, no e poi no.» (IV/5, p. 196). Notare come il Narratore esponga chiaramente la riprovazione di Micòl nei confronti di lui, senza cercare di giustificarsi in nessun modo. Questo è tutto, fuorché onestà. Probabilmente il segreto dell’Interpretazione di Micòl sta proprio qui: il Narratore si identifica completamente con le ragioni della persona con la quale si sta confrontando, senza nulla chiedere, così come il Giardino non poteva essere posseduto più di tanto (non essendo una terra ma solo un terreno dove andare). Sembra che proprio qui stia la questione dell’ingranaggio (poiché di ingranaggio di romanzo piantato qui si tratta): ma ricordare che quello che noi leggiamo di questo atteggiamento, da parte del Narratore nei confronti di Micòl, non è ciò che noi leggiamo soltanto come parole che il romanzo consegna a noi, ma come parole che il Narratore presenta come parole che il personaggio Micòl ha consegnato a lui, e che il Narratore, in quanto personaggio del romanzo, consegna a sua volta a noi, lettori di quella storia malnata.
Micòl come signora del giardino offre un punto in cui andare, o un punto da cui andare, ma mai una traiettoria lungo la “terra”, perché la terra è ciò su cui ella, signora di un giardino, non ha nessuna signoria. Così il punto piantato su un terreno deve contrapporsi alla traiettoria, perché la traiettoria è ciò si svolge sopra una terra. L’incontro con Micòl non offrirà mai al Narratore una traiettoria lungo la terra, che porta infine all’incontro con la donna.
Considerando invece il richiamo alle leggi razziali, nel modo in cui compaiono in questo romanzo, ci si può chiedere: che funzione hanno, a livello di meccanismo del romanzo, queste piccole leggi razziali? Se svolgessero appena il ruolo di una punteggiatura? Sappiamo, prima di tutto, che sono ciò che permettono la riunione di una piccola compagnia estemporanea intorno ad uno scalcagnato campo da tennis nel giardino dei Finzi-Contini.
Che non è cosa da poco da sapere.
Il Narratore della vicenda è stato sempre precisato in quel ruolo come colui che ha avuto l’occasione di sfruttare diversi tipi di vicinanza. La “vicinanza” è ciò che la bambina del Prologo, Giannina, ha chiamato come segmento appropriato per colmare la lacuna tra vivi e morti. Lacuna che non riguarda solo i morti collocati nei cimiteri moderni, dove la visita alla tomba ha funzione di surrogato alla visita che prima si rendeva alla casa di quelle persone – quando quelle persone erano vive; ma anche i morti delle necropoli archeologiche, che sono stati collocati nelle tombe dove, ormai, nessuna visita può avere la funzione di surrogato alla visita alle case che si rendeva a quei vivi. È su questo nuovo rapporto tra morti da tanto tempo e morti da poco tempo, che la bambina instaura la vicinanza, ma è invece su una vicinanza tra morti che riposano in cimiteri e morti che non riposano in nessun cimitero che, con la sua andatura zoppa, questo romanzo si mette in moto.
La bambina Giannina del Prologo richiama la Micòl ragazzina, che, in I/5, sfida il Narratore a entrare di nascosto nel Giardino. Ma per entrare nel Giardino, il Narratore deve nascondere, su indicazioni di lei, sottoterra, il veicolo che gli ha permesso di mantenersi in equilibrio fino a quel punto (quindi, seguendo le indicazioni della bambina, deve privarsi di quel veicolo basato sull’equilibrio, che gli ha permesso, fino a quel momento, di non effettuare nessuna scelta fra i mondi che venivano scorsi a uguale distanza, tenuti appunto in equilibrio). La bicicletta gli ha permesso di arrivare al punto in cui il Giardino può essere violato, ma contestualmente gli ha impedito di oltrepassarlo. Per effettuare quella violazione, bisogna infatti farla finita con quel veicolo, cioè nasconderlo, seppellirlo sottoterra come una cosa morta.
Il modo migliore per nascondere qualcosa è nasconderlo sottoterra. Se il veicolo ha permesso al Narratore di mantenersi in equilibrio sopra la terra, tutto allora cambia sottoterra; se la sfida è lanciata dalla bambina del Prologo (passare il muro nel giorno in cui il Narratore non ha passato tutti gli esami), ed è ripresa dalla ragazzina in I/5, allora c’è da chiedersi quale sia lo schieramento posto in campo dal Narratore, essendo il Narratore non così sprovveduto come potrebbe sembrare. In questo gioco delle tre carte, egli è infatti, tra le due carte in bilico, quello che salva pelle e palle d’un sol colpo. Ciò che avviene sottoterra è ciò è destinato a tornare in superficie. Ma qui non pare succedere.
Non è poco per determinare questo romanzo.
Il romanzo Il giardino dei Finzi-Contini si organizza intorno a un campo da gioco, che è il gioco del tennis. Sappiamo che l’amore per quel gioco è ciò che ha permesso la riunione di quella compagnia intorno a quel piccolo e malandato campo, che del campo da tennis, a livello professionale, conserva ben poco, stando a quanto dicono i vari personaggi del romanzo. Quasi tutte quelle persone erano state cacciate dal circolo di tennis al quale erano iscritte (il circolo Eleonora d’Este di Ferrara). La cacciata era avvenuta dopo l’applicazione in Italia delle leggi razziali del 1938. Tuttavia, al di fuori della nozione puramente legata alla data, il romanzo non dice nient’altro di più. Vale a dire: non dice niente in quanto concerne l’amore oppure l’odio per ciò ciò che è capitato di avere a che fare con la terra.
Questo potrebbe anche essere un ottimo segno. Ma poi vediamo che abbiamo solo a che fare con un certo modo di regolare dei comportamenti relativi alla consuetudine di stare lì.
Se confrontiamo l’episodio che vede “i vecchi” comparire durante le partite che si svolgono nel giardino e l’episodio che vede il Narratore scacciato dalla Biblioteca perché ebreo, vediamo che la differenza non è molta, per quanto i due episodi siano di natura completamente diversi. Il fatto è che questa differenza si riduce a qualcosa come un accomodamento con nuovi principi imposti da un’autorità avvertita da sempre come qualcosa alla quale ci si deve presentare, si deve obbedire, ma sentita da sempre come qualcosa di estraneo. Qualcosa che non regola la terra, ma qualcosa verso cui, scorrendo la terra, bisogna avere a che fare, mantenendo il comportamento più equilibrato possibile.
La famiglia dei Finzi-Contini viene definita dal padre del Narratore come “gente strana”, da cui è meglio tenersi lontani (non in equilibrio, ma lontani). Gente, egli sostiene, che poteva persino arrivare a vedere di buon occhio le leggi razziali in cammino sulle vie che si stendono dentro le mura di Ferrara.
È questo che rivela un preciso atteggiamento verso la terra: che permette a ciò che non ha nemmeno un giardino di definire ciò che ha un grande giardino come “gente strana”. E la stranezza vale da tutte e due le parti: ricordare il punto il cui il Narratore nota la stranezza del professore Ermanno Finzi-Contini che chiede a lui, anziché ai propri figli, di occuparsi dei suoi scritti.
Si può dire, allora, che quello con cui il Narratore si trova a confrontarsi non è altro che l’impossibilità di stabilire un progetto, vale a dire un fine? La terra non offrirà un radicamento quanto uno sradicamento, il giardino non offrirà una visione completa, il rapporto con Micòl non offrirà uno sbocco. Ma è quanto permetterà al narratore lo sblocco, che avverrà appunto abboccando alle provvidenziali leggi razziali. Infatti nascondere la bicicletta nel sottosuolo è ciò che permetterà al Narratore del Giardino di mantenersi come un signore dell’equilibrio (cioè di mantenersi come il signore di quel mezzo a cui egli ha appena rinunciato). Nascondere la bicicletta nel sottosuolo non è solo nascondere ciò che gli ha permesso di restare in equilibrio fino a quel momento, ma è ciò che gli permetterà di sfruttare un nuovo equilibrio, che comporterà la rottura con i Finzi-Contini, con l’amico Malnate e infine con la città dentro le mura di Ferrara. Alla volta della “città aperta” di Roma.
Il rapporto del Narratore con quell’insieme – che può essere tanto Giardino quanto Donna – si basa su di un abuso di trattare la terra quanto di trattare la donna. L’abuso nei confronti della terra è ciò di cui egli, in quanto individuo, non è responsabile; l’abuso nei confronti della donna è ciò di cui egli, in quanto individuo, è responsabile. Da qui il suo resoconto autoaccusatorio. Che è il romanzo che noi leggiamo.
In questa fantasia il Narratore mette in atto un rapporto manchevole, basato su una vicinanza: nel suo sogno del sottosuolo egli rimarrà sempre vicino alle strade e alla gente di Ferrara, aiutato da una donna di Ferrara alla quale egli si potrà sempre appoggiare per soddisfare le sue più immediate esigenze. Ma questo non è quello che vuole il padre del Narratore, che invece spinge il figlio a scorrere la terra.
Forse il problema è proprio questo: che i due personaggi principali del romanzo, il Giardino e Micòl, non si integrano abbastanza per offrire una contrapposizione veramente lineare al Narratore (che del romanzo è l’indiscutibile protagonista).
Il Narratore in quanto figura unica deve vedersela con un elemento tripartito che a volte gli si presenta come Giardino, a volte come Donna. In un primo tempo il Narratore sarà chiamato ad affrontare il Giardino nella forma più semplice e completa: scavalcare il muro di cinta nel punto più facile, dove ci sono gli appigli, secondo le indicazioni fornitegli dalla figlia tredicenne dei proprietari; egli non si azzarda a passare, trova la scusa della bicicletta, che verrebbe lasciata incustodita; Micòl gli insegna allora dove nasconderla: in un rifugio sottoterra, che, quando egli vi accede, lo porta a fantasticare intorno ad una vita nascosta, lunga anni e anni, aiutato attivamente da Micòl.
Di questo cunicolo (wormhole) e di questa stanza sotterranea nel romanzo non si parlerà più (peccato, si potrebbe dire, ne sarebbe uscito l’ECO di qualcosa di qualche romanzo d’appendice!), eppure è quello che mette in moto la vicenda che si svolge in superficie: è la messa in moto del pensiero che prende il via dalla ruga di sottoterra.
Quello che si può dire di un personaggio non è qualcosa che possa scendere più di tanto nella profondità di un testo, ma qualcosa che possa gravitarvi intorno come campo di possibilità che possono sempre essere dette. Per leggere un testo, bisogna familiarizzarsi con qualcosa di simile a una tabella di possibilità ridotta a un minimo grado. È probabile che alla critica letteraria manchi, adesso, lo strumento pari a qualcosa come l’equivalente di una costante di Planck.
Dove determinare, allora, la differenza tra Giardino e personaggio? Il Giardino è ciò che non propone l’Interpretazione, che invece è ciò che caratterizza Micòl; il Narratore non dà voce al Giardino, mentre dà voce a ciò che Micòl gli ha detto sul modo che egli ha di comportarsi nei confronti di lei. Il Giardino accoglie solo nella sua ultima manifestazione, in quanto Giardino di notte (mentre Micòl non ha mai accolto, salvo permettere il giudizio di lei nel resoconto di lui attraverso le parole di lei) e questo permette una interpretazione da parte del Narratore, che ne ricaverà la possibile relazione tra Malnate e Micòl – ma niente invero di più. Il Narratore non potrà raccontare come la terra sia stata incisa per fissare i morti dei pochi Finzi-Contini da lui conosciuti (essendo state, quelle persone, deportate nei campi di sterminio nazisti – che miravano ad alleviare la terra, ma ciò che nel mondo è entrato di soppiatto, dall’ambiente deve uscire in malo modo), ma può riportare il modo in cui, nelle parole che Micòl gli ha rivolto, egli si strusciava addosso/appiccicato a lei in un modo a lei sempre inopportuno. È come se l’ammissione di non poter scavare una terra, anche solo per depositare dei morti, dovesse giustificarsi con la soddisfazione sostitutiva di uno strusciamento sopra quella terra. È infatti questo che il giardino offre al Narratore (per quanto nella doppia forma di Giardino e di Donna). Mentre il Giardino è, nei confronti del Narratore, il sostitutivo della terra, ciò che il giardino offre concretamente al Narratore è il sostitutivo della donna. Questo perché? In quel giardino non si può piantare niente, così come quella donna non accoglierà mai in sé, ma quel giardino potrà essere occasione di scorrimenti, così come – furtivamente – anche quella donna. Così questo porta alla questione di base: il falso rapporto dell’ebreo con la terra e il vero rapporto della terra con colui che abitava quella terra, che l’ebreo gli ha tolto. È questa la nascita del fantasma o del morto che ritorna a pieno diritto sulla terra. Il Narratore è qui quella cosa inconsistente che, impropriamente, esige da Micòl quella cosa che l’ebreo gli ha sempre tolto, cioè la terra.
Sappiamo che il protagonista, a un certo punto, alza i tacchi da Ferrara; mentre il padre del Narratore a un certo punto è obbligato a fare fagotto. Fare fagotto è chiudere da qualche parte (o valigia o fagotto) quello che si vuole portare via; alzare i tacchi è andare via senza avere il tempo di portare via niente. Alzare i tacchi è la libertà dell’autostoppista, che lo consegna alla strada. Sappiamo delle leggende metropolitane dell’autostoppista fantasma, del fantasma di Elvis che fa l’autostop; perché non pensare anche l’ebreo errante come autostoppista, appena fuori le mura di Ferrara? La bambina aveva posto una domanda su chi era nato prima (tra Etruschi ed Ebrei); il padre della bambina, per rispondere, indica il suo amico con il gesto che qualifica l’autostoppista. Colui che fa il gesto per essere trasportato è colui che viene identificato come personaggio che occupa invece un punto nel mezzo che lo trasporta, non come autostoppista, ma come amico nell’arco di una gita che prevede la possibilità di scorrere un segmento di quel terreno che essi occupano, ma non abitano. Quella persona era tanto l’autostoppista accolto, che la bambina ha permesso di riconoscere, quanto l’amico che faceva parte di quella gita, grazie a una sovrapposizione, cioè al semplice gesto col pollice del padre e alla nozione di decoerenza.
Tanto la terra che compone quel giardino, quanto la donna, che ha funzione di signora di quel giardino, sono spogliati, nel romanzo di cui si sta trattando, della propria caratteristica: essere qualcosa di sacro. Tanto quel giardino, quanto quella donna, permettono di essere bellamente inseriti in un romanzo a partire da una spogliazione che riguarda il sacro. Ma che cosa vediamo, quando ci innamoriamo?
Che cosa è l’amore? per il Narratore è la vicinanza opportuna che c’è sempre stata fra loro due (Narratore e Micòl), che deve essere sancita, ad un certo punto, formalmente; per Micòl l’amore è invece ciò che squarcia la vicinanza importuna che, per un caso o per l’altro, fra loro due c’è sempre stata, ma che ad un certo punto, in caso di vero amore, dovrebbe essere interrotta, affinché uno possa sbranare l’altro. Il Narratore chiama una visione ridotta dell’amore (un uomo nascosto sottoterra, una donna che gli assicura una vita tranquilla da fantasma sulla superficie), ma Micòl chiama la visione a quel punto estrema dell’amore: le leggi razziali, dove una parte può legittimamente sbranare l’altra, in nome della terra dove abitare. Terra che comunque ella non ha mai posseduto. Ma è per questo che il padre del Narratore, lungo tutto il romanzo, fa sempre notare al figlio che i Finzi-Contini hanno tutto da guadagnare dalle leggi razziali. Il padre del Narratore ha infatti guardato con apprensione il probabile amore tra il figlio e Micòl: concedersi a Micòl non vuole dire permettersi di vivere nascosto sottoterra protetto da Micòl, ma scatenare in pieno le leggi razziali, con tutte le estreme conseguenze. C’è forse qualcosa, in questo romanzo, che possa essere collegato, o anche soltanto ricordare, l’amore per la terra e l’amore per la donna? Pensando allora l’amore come qualcosa che collega la terra e la donna? Io penso proprio di no.
Non può esserci amore se non attraverso la Terra del Sacro. Ma come parlare di amore in questo romanzo che, intitolato ad un “giardino”, non può nemmeno stabilire che cosa sia, in fondo, un giardino?
La donna è una cosa. Ma è la cosa che solo la parola dell’antico islandese þing può restituire in quanto riunione di tante cose, assemblea, cioè itinerario in terre che non avremmo pensato di conoscere, prima dell’incontro con quella “cosa” che ha riunito tante cose diverse davanti a noi, donando loro l’autentico significato nuovo. Il dono dell’amore è il dono che fa a pezzi colui che non conosce il significato della parola þing. È questo che dice l’Interpretazione di Micòl. Micòl Finzi-Contini, in quanto donna mai esistita, è una cosa che ha in sé il significato di questa riunione di tante cose. Che pure è il dono dell’amore. Il Narratore è colui che non conosce il significato della parola þing, e quindi sbaglia tutto nel suo incontro con Micòl. Può ricevere amore (avvertendo egli il significato della parola þing), ma non dare amore (non conoscendo egli il significato pieno di quella parola). Il personaggio Micòl, in quanto datrice di amore e realizzazione della parola þing, avrebbe dovuto confrontarsi con un personaggio in grado di riconoscere il significato di quella parola. Il Narratore non poteva corrispondere; il professore Ermanno Finzi-Contini è colui che meno sa del significato della parola þing. Si rivolge al Narratore, che, per un caso o per l’altro, secondo lui, potrebbe anche saperne, a quel punto, più di lui (per questo gli propone di occuparsi dei suoi scritti). Gli scritti del professore Ermanno riguardano allora l’avvicinamento al concetto di donna in quanto “riunione”. Ma che cosa sa il Narratore su cosa si nasconde nella parola norrena che sta per la parola italiana “cosa”? Noi non lo sappiamo, ma sappiamo che egli sceglie di fuggire quando la donna glielo spiega, senza ricorrere al significato lontano, che probabilmente ella stessa non conosce; da questa lezione il Narratore non ha imparato niente e quando scrive intorno a quella cosa che lo ha fatto fuggire, non dice altro che ciò che ha imparato dalla sua lingua: “una cosa è una cosa”. Salvo riportare precisamente le parole che la cosa (cioè la cosa in quanto riunione di cose, vale a dire la donna) aveva rivolto a lui, con precisa ferocia.
Ma se giardino e donna trovassero invece una loro propria icona? Allora sarebbe proprio una più che falsa icona.
Il film realizzato dal romanzo nel 1971 da Vittorio De Sica, mostra proprio come, tagliando il Prologo, si possa dare sgambetto pieno all’andatura zoppa caratteristica di questo romanzo. (Ma sappiamo che lo sgambetto allo zoppo non gli fa mai perdere il passo, semmai il contrario!)
Nel film il Prologo viene tagliato; mentre viene sceneggiato in un modo completamente nuovo l’Epilogo, che nel romanzo è presente solo a livello indiretto. Il risultato è che tutto quello che c’è in mezzo, cioè gran parte del materiale del romanzo, funziona solo in quanto serie di link per lo spettatore che ha leggiucchiato il romanzo, o che magari lo ha letto. Così il film può utilizzare stralci di dialoghi decontestualizzati, valevoli solo per colui che ha leggiucchiato il romanzo, o forse lo ha letto, mentre il risultato è che viene perduto il significato che quei dialoghi avevano nel romanzo, vale a dire la funzione che le parole fissate in quei dialoghi svolgevano – così come, parlando a livello di Gestalt, un do naturale suona sempre allo stesso modo di qualunque do naturale, ma suona in un modo diverso se il do naturale ha funzione di tonica oppure di dominante.
Il film comincia con la compagnia che si riunisce per terminare il torneo di tennis bloccato a causa dell’applicazione delle leggi razziali in Italia: il romanzo comincia con il ricordo del Narratore che vuole realizzare una vicinanza tra vivi e morti, non permessa in quel caso come con la visita ad un cimitero, perché i Finzi-Contini, almeno quelli che egli ha conosciuto, non hanno una sepoltura in un cimitero. L’inizio del film riprende materiale dei primi due capitoli della seconda parte del romanzo. Quindi è legittima la domanda: qual è la storia che viene raccontata nel film e qual è la storia che viene raccontata nel romanzo da cui quel film è stato tratto o sottratto? Domanda che pone la legittimità della domanda di fondo: come si determina la storia in quanto racconto unico da modulare – vuoi in forma di romanzo, vuoi in forma di film – cioè in forma di storia unica?
Nel film la mancanza della “terra” iniziale si ripresenta come presenza di un ipotetico luogo ultimo di un andare insieme, padre del Narratore e Micòl, come luogo di raccolta di ciò che non ha mai avuto “terra”, ma che ha tolto terra a chi, legittimamente, la possedeva, permettendo al nuovo narratore (nel film chiamato “Giorgio”), di raggiungere un ambiente dove organizzare il testo del romanzo Il giardino dei Finzi-Contini – che sarà un nuovo ambiente ma non una terra, e infine il soggetto di quel film (e quindi niente di più che una menzogna sulla terra).
Violando per la prima volta, di notte, il giardino dei Finzi-Contini, di colpo, così come di colpo, nel Prologo, si rende possibile la visita alla necropoli di Cerveteri, scavalcando il muro, il Narratore ha reso possibile la vicinanza non tra tutte le possibili forme del mondo, ma fra tutte le possibili frasi del mondo (compresa la frase che stabilisce che il suo amico intrattenesse, da tempo, una relazione con Micòl, e che sfruttasse le particolarità di quel giardino per incontrarsi regolarmente, segretamente, con lei, magari con la tacita approvazione della famiglia di lei, essendo sempre stati, i Finzi-Contini, secondo le parole del padre, “gente strana”), dal canto suo, Micòl aveva rivelato solo al Narratore il punto in cui scavalcare il muro, perché era il punto che ella lo aveva così organizzato come punto per passare da una parte all’altra. Ma la violazione del muro (avvalendosi di quella parete attrezzata) è anche ciò che ha permesso in fondo al Narratore di prendere la decisione di allontanarsi stabilmente da Ferrara, ottenendo l’opportunità di scrivere infine quella storia che ha contribuito a confermarlo come autore, ma che non instaura, nemmeno questa volta, cioè a livello di romanzo da lui scritto, un rapporto con la terra. Semmai il contrario.
Visto che si è accennato al film, bisogna dire che, nel film, il personaggio meglio rappresentato è quello che se ne fa un baffo di tutta la situazione messa in campo dal romanzo: Romolo Valli, nella parte del padre del Narratore, nel film chiamato Giorgio, come l’autore del romanzo.
La vergogna che si prova nel dover interpretare sciocchi modi di dire dell’alingua italiana, come “andare a donne”, è niente in confronto alla vergogna che si prova ad avere, comunque, sempre a che fare quando si ha a che fare con quell’ingombrante ammasso di stupidità che è la lingua italiana, quando la si vede sempre comparire in piena vita da tutte le parti; vergogna che può essere compensata dal piacere e dalla speranza di contribuire a fare sparire, finalmente una volta per tutte dal mondo, quella brutta cosa che è l’alingua italiana (che coincide con la lingua italiana, cioè con l’alingua degli italiani, perché la prima cosa chiama sempre la seconda cosa) e contestualmente fare sparire dal mondo quell’ammasso di gente diverse che si è trovata a non poter fare altro che fare suo quell’ammasso di parole diverse per rosicchiare quel posticiattolo in quel terreno.

Paolo Sorrentino, La grande bellezza

Manifesto di malafede, quanto malafede che è appunto fede in un paese che non ha perso ancora la buonafede in ciò che è la forza di una malafede, come infatti sempre risulta evidente lungo tutto il film, La grande bellezza pone invece stravaganti e più che evidenti domande interessanti, dove, questioni a parte, si assiste a uno sdoppiamento a poco a poco prevedibile: i dialoghi sono costruiti attraverso un chiacchiericcio e un richiamo a frasi sfatte, ma sempre a un chiacchiericcio che non porta mai a dire niente, mentre le immagini sono raffinate ed esaltano la pretesa bellezza dei luoghi (poiché questa “pretesa” bellezza è proprio ciò su cui non si deve mai discutere, così come il “chiacchiericcio” può essere relegato a semplice chiacchiera) dove le vicende si svolgono. Fra i due livelli non c’è nessun rapporto, cioè nessun punto contro ad un altro punto, vale a dire un contrappunto. Che è invece il contrappunto su cui il film dovrebbe fare forza: la punta della parola, magari spuntata, contro la punta dell’immagine. Se manca il senso dell’abitare (non solo dell’abitare una casa, ma prima di tutto abitare una terra) allora è solo il chiacchiericcio che può manifestarsi – in quanto parodia della lingua, là dove coloro che parlano sono parodia di esseri umani, in quanto parodia di coloro che hanno in consegna l’arte del dire al massimo grado, cioè la lingua.
Chi guarda questo film sa che guarda un film che s’intitola La grande bellezza. Quindi, guardando questo film, egli va alla ricerca, anche senza volerlo fare, di una “grande bellezza”, che il titolo gli ha appena promesso. Così qui casca l’asino del modo di dire, quanto in uno stesso soffio scompare l’alta giraffa che si vede elegante alle Terme di Caracalla, a un certo punto strategico (di questo film): dove si nasconde il trucco della “grande bellezza”, che pure il titolo promette a tondo tutto? Non certo nel protagonista maschile; tanto meno nelle attrici che gli fanno corona, insistentemente presentate in un modo che ne nasconde il fascino, tanto meno, ancora, nelle battute che i personaggi pronunciano lungo tutto il film e che si lanciano l’un l’altro come coltelli in un gioco di gratuita cistercense abilità attorno a una sagoma di sangue blu esibito. Allora si torna a chiedere: dove trovare la “grande bellezza” – visto che di una “grande bellezza” deve pure, in un modo o nell’altro, infine trattarsi?
Ma siamo sicuri che, per affrontare questo tema, si debba rimanere al livello del semplice individuo – vale a dire ostinarsi a raccontare una storia di individui? (Ma che cosa vuole dire, questo, poi?)
Sappiamo di un altro livello di malafede: gli accenni al vuoto come mancanza di opera oppure dello strano rapporto che potrebbe legare l’opera e la sua mancanza. È il tema intravisto da Foucault e Derrida in Antonin Artaud. Infatti questo tema si collega al rapporto che si instaura fra lingua e parola. Ricordare che il film inizia con una citazione tratta dal romanzo Viaggio al termine della notte di Céline (relativo al viaggio immaginario, cioè al viaggio che, concretamente, non è un viaggio) e che, a un certo punto, viene ricordato il desiderio di Flaubert di scrivere un romanzo sul niente. Al niente evidenziato nel film dalla chiacchiera, anziché da una pienezza di senso con cui fare i conti, il film contrappone lo scenario, lo sfondo, suggerendo l’idea che, con tanta bellezza apparecchiata tutt’intorno ai personaggi di quel film, la mancanza di opera sia quasi necessaria, perdendo così l’opera parte della sua franca indispensabilità – per quanto proprio qui potrebbe consistere la malafede al completo? Un nulla deve comunque appoggiarsi a qualche cosa, anche se solo intravisto nella sostanza di un ectoplasma, no?
Dove trovare, quindi, la grande bellezza? Sembra in ciò che i personaggi non dicono, non mostrano, non posseggono, ma che, inevitabilmente, ruota fissamente loro attorno come in una scenografia ronconiana, su rotaie, perché essi vi alludono con l’atteggiamento, col modo di parlare, con il chiacchiericcio che sempre non si stancano di cambiarsi; vale a dire: con la tecnica del bluff che essi mettono in opera lungo tutto l’impiccio di questo film, non vi pare?
Nello spazio di questo film è sempre presente la grande città per eccellenza (Erre-O-Emme-A). Non c’è mai la natura (infatti R-o-m-a non è niente di conforme ad un qualcosa come la natura, ma è ciò che proprio snatura la natura, il palazzo di marmo che tira un frego sulla natura, cioè proprio ciò che è sorto per negare la natura – di qualunque natura si tratti da ogni parte. Giustamente, poiché questo è lo spazio su cui si è insediata da ultimo la maledetta Italia – butta cosa con la quale, nei tempi di contagio è indispensabile convivere.) Lo spazio è città, la bellezza è solo bellezza urbana. Però le persone non sono “urbane”, poiché, come si vede dall’inizio alla fine del film, queste persone si detestano (o, nel migliore dei casi, si disprezzano) l’un l’altra. Però l’Italia vive solo nella metastasi della proliferazione delle grandi città nel terreno in cui essa ha avuto modo di stendersi. Lo stare insieme, frequentarsi in quello scenario monumentale, non dice niente ai personaggi di quel film, perché non spinge a nessuna vicinanza. Giustamente, si è già detto, ed è il caso di ripeterlo! C’è semmai la pretesa di avocare a sé – questo spazio tosto – come succedaneo di un’opera che – non si può escludere – qualcuno possa sentirsi a essere poi chiamato a comporre (ma gli venisse un cancro). Da un certo punto di vista, l’invasione della chiacchiera non ha mai fine, né può legarsi alla fine del pensiero – e su questo dubbio alcuno non si pone (poiché non c’è il cammino del gambero).
Dimenticavo: ad essere precisi, il titolo avrebbe dovuto suonare come “La grande mancanza”; quello che infatti il film presenta è una mancanza; c’è uno scenario ma non ci sono le persone che abitano quello scenario. Tutto è solo apparenza, come il tranquillo vicino di casa che si scopre essere poi il latitante Giulio Moneta.
Vediamo le persone che occupano quello spazio.
Il problema è: perché un personaggio come Jep Gambardella è perfettamente credibile come protagonista di un film il cui titolo promette “la grande bellezza”? Su che cosa fonda la sua autorità, il protagonista Jep Gambardella? Sul romanzo intitolato “L’apparato umano”, che egli ha scritto e pubblicato negli anni Ottanta, con grande successo di critica.
Proviamo ad affrontare questo titolo, titolo di un romanzo, che non è mai stato pubblicato (come viene precisato nei titoli di coda del film), per comprendere il titolo del film che invece è ben visibile, a chi sceglie di vedere quel film. Per “apparato” possiamo intendere un “ornamento”, un “paramento”, anche uno sfoggio, una pompa, e poi anche un apparecchio o un insieme di apparecchi, di macchine, di congegni che, in un determinato impianto, servono ad un determinato scopo. Possiamo intendere qualcosa che viene sfoggiato, messo in scena, offerto allo sguardo di un pubblico, presentato come uno spettacolo. Ma allora di che tipo di spettacolo si tratta? Sappiamo che, in quanto “apparato scenico”, esso è di tipo “umano”, poiché il titolo completo suona appunto: “L’apparato umano”. Come indicare, allora, un apparato (scenico) che non sia umano (e che richieda un romanzo che non verta più sull’apparato scenico, bensì su l’apparato umano? Se per “apparato scenico umano” intendiamo una commedia umana, è ovvio che per “apparato scenico non umano” dobbiamo intendere una “commedia più che umana”, cioè una commedia un tantino soprannaturale, divina. Lo statuto di Jep Gambardella, in quanto protagonista del film La grande bellezza, è allora quello di colui che garantisce il passaggio attraverso mondi affatto diversi fra di loro. E questo comporta la domanda: dove vedere i mondi diversi nel film La grande bellezza, che sembra svolgersi invece in un’area molto ben circoscritta e più che datata?
Sembra di capire che è un apparato che richiede una messa in scena. Questo sembra da ricavare, considerando il romanzo “L’apparato umano”. Ma dove trovare il luogo della messa in scena? Il grande palazzo rinascimentale è stato il luogo di nascita del teatro d’opera. Sappiamo che Jep Gambardella non ha più scritto un romanzo, eppure lo vediamo condurre una vita agiata in grandi palazzi. Che cosa vuole dire? Il romanzo scritto da Jep Gambardella richiedeva una messa in scena che si svolgeva nei palazzi rinascimentali di cui è piena Roma, e nei quali lo vediamo muoversi, dirigersi, sostare per caso. Ma il palazzo in cui avviene la messa in scena è un palazzo che non ha niente con il teatro Esterháza, perché non si apre sulla natura, ma sul centro di Roma, come vediamo più volte. Quello che noi vediamo in questo film è la messa in scena che quel romanzo richiedeva.
Al di fuori di questo il film presenta la morte di tre personaggi, che si collegano, rispettivamente, alla morte di Elisa, un amore giovanile di Jep, di Andrea, il figlio “problematico” di Viola, che si suicida, e di Ramona, che muore di morte naturale e prematura. La morte del primo dei tre personaggi è nascosta e vissuta con un senso di intima vergogna e sofferenza. Il luogo dove questa morte viene annunciata è il pianerottolo dove si trova l’appartamento di Jep Gambardella; la morte del secondo personaggio è affrontata nel modo più convenzionale possibile (scelta dell’abito per l’occasione, delle parole da pronunciare e del modo in cui pronunciarle); la morte del terzo personaggio è invece la più ellittica dal punto di vista scenico, anche se coinvolge di più il protagonista, ma non più di tanto, poiché, come il primo, non sembra rientrare in uno schema preordinato (è la morte come è la morte in quanto ospite tra tutti più inquietante che bussa quando meno la si aspetta). Più si va avanti in queste morti, più la morte sembra scendere però di importanza, come se i personaggi di volta in volta incontrati meritassero sempre meno importanza.
La morte è ciò che permette alle parole di passare dal livello di chiacchiericcio a quello di verità (senza tuttavia mai giungere all’uso della lingua, cosa che richiederebbe la presenza di un popolo su una terra, cioè di una razza, cioè di quella cosa che mai gli italiani hanno raggiunto), quindi la morte sarebbe ciò che permetterebbe di passare da un livello di chiacchiericcio ad un livello di verità. Andrea, il figlio “problematico” di Viola, dice la verità sulla sua situazione, cioè di sentirsi oggettivamente vicino alla morte, così come fa Ramona quando, improvvisamente e qualche tempo dopo rispetto a quando la domanda le era stata posta da Jep, in tutt’altro luogo, risponde: “Spendo tutti i miei soldi per curarmi”, e altrettanto avviene durante lo scambio di battute tra Jep e Alfredo, il marito di Elisa, la ragazza amata da Jep in gioventù. La morte come conclusione di una vita falsa, giustamente spesa nel chiacchiericcio (quindi una vera vita spesa nella dimensione ad essa adeguata) è l’analogo di un gruppo di persone che non sono un popolo e che occupano uno spazio, non una terra, ma un terreno, un giardino, un parco tenuto da giardinieri con tanto di nani da giardino. Che è il massimo che il popolo che intravede “la grande bellezza” possa aspirare per poi – si spera – finalmente spirare.
Viceversa, Jep sfrutta il tema della morte per svelare la verità sulle parole di quell’arte di scrivere, che egli stesso sembra sornionamente voler adocchiare di nuovo: le parole degli scrittori non vanno mai prese sul serio, dice ad Andrea, che gli ricordava l’insistenza della morte vicina in Proust e in Turgenev, e chiunque scriva, anche soltanto un diario, automaticamente crea uno scenario che sottraggono le parole da lui usate al confronto con la verità, dice ad Alfredo, dopo che questi gli aveva appena fatto sapere che Elisa parlava sempre di lui nel suo diario come dell’unico vero amore della sua vita.
Rispondendo ad Andrea e ad Alfredo, Jep non parla su ciò che si potrebbe definire “letteratura come menzogna”, cioè il carattere autoreferenziale della letteratura, che non richiede prova di verità o messa in pratica, bensì annullamento di qualsiasi verità da parte di una lingua, cioè della sua risoluzione a livello di battuta di spirito, gioco di parole, barzelletta. La prova ne è il fatto che egli non risponde a Ramona.
Il rapporto d’amicizia tra Jep e Romano (nome che è quasi anagramma di Ramona), gli argomenti che continuamente essi sfiorano, anche se non si calano ad acchiappare, permette di porre la domanda di sempre: perché la letteratura italiana suona così sempre falsa? Nel Deep Web è noto come l’emblema della letteratura italiana sia l’ornitorinco. Bozzetti, si dice, mai un’epica. Perché le cose di cui tratta sono sempre cose che non hanno nulla del simbolo, cioè della cosa in quanto riunione di più cose. È questo che porta l’esplosione di parola e lingua. Forse l’unica figura discordante nella maledetta letteratura italiana, ma ad essa pienamente rientrante, poiché inglobata nella figura del simbolo, è allora quella di Carmelo Bene.
Ponendosi la domanda “che cosa è una cosa?”, due sono le risposte: una cosa è la cosa che quella cosa è (risposta della letteratura italiana); una cosa è un insieme di cose che, in quanto appartenente alla lingua di un popolo, solo la lingua può tenere insieme in quanto cosa (risposta di quanto è estraneo alla letteratura italiana). Per questo pensare alla differenza tra la parola italiana “cosa” e la parola dell’antico nordico “þing”, che indica la cosa in un modo molto più complesso nel significato.
Questa incrinatura è qualcosa su cui tutta la cultura moderna è portata a ribattere. La grande bellezza mostra l’incrinatura tra popolo, lingua, ambiente in due momenti particolari: all’inizio del film, quando, in una atmosfera grandiosa e attentamente costruita, all’improvviso l’autista di un pullman turistico scende dalla vettura parlando al telefono e pronunciando la battuta: “… m’hai veramente rotto il cazzo, eh!”; la seconda è quando Jep, di ritorno a casa all’alba, dopo aver abbandonato la casa di Orietta, pensando compiaciuto alla sua carriera di intellettuale mondano, rasentando il fiume, incrociando tre persone qualunque che corrono e parlano, si sente uno di loro che afferma: “… Antonini m’ha rotto veramente il cazzo.” Così l’incrinatura, la crepa sottile che il film presenta è proprio l’impercettibile rottura che c’è sempre stata fra persone e ambiente in quello spazio di muffa e fuffa, che ha permesso la formazione del complesso di cose che viene venduto come “grande bellezza”. Questa non è ironia, sono le vere parole, che di solito non si avvertono perché hanno funzione intercalare, che vengono restituite al loro pieno significato, pronunciate da quelle persone che, da sempre non hanno mai abitato una terra, ma hanno occupato un terreno e fatte pienamente suonare. (Questo rendere vere delle frasi che nascono come un semplice intercalare, su cui non dovrebbe esserci niente da riflettere, si contrappone esattamente alle immagini, che dovrebbero esaltare la pretesa bellezza dei luoghi, più che manifestare l’effettiva bellezza di questi luoghi.)
Se è vero che il film si ricollega a un’immagine grandiosa di Roma, anche solo mondana come quella della Dolce vita, è vero che si inserisce in una tematica che comprende la lingua e la parola, la terra che un popolo abita oppure più modestamente occupa e il paesaggio che lo costituisce, gli dei cui questo popolo ha posto come termini a cui rivolgersi.
Quanto a opere, ce ne saranno sempre di meno.
A ben guardare questi morti non sono gli unici morti di cui il film parli. Tutti coloro che hanno costruito quella città e addobbato quegli scorci, dove i personaggi con cui abbiamo a che fare si muovono e hanno permesso la realizzazione di quel film, sono adesso morti, sono morti quando il film è stato girato e sono morti quando il racconto del film viene presentato. Eppure questi morti vengono ancora richiamati come comparse non visibili nel film, più o meno come i vecchi nobili decaduti Colonna di Reggio, che possono essere noleggiati tramite un modesto cachet a persona più spese di rappresentanza. Qual è il rapporto di questi vivi con quei morti? Un rapporto che non può che essere all’insegna dell’indifferenza, della chiacchiera, dello sfottò, della derisione, del fastidio, della sopportazione, della sorpresa, dello scrollarsi di torno, del far finta di niente, di fingere di non sapere, di tirare a campare, di toccarsi in segno scaramantico, di punzecchiare, di farsi vedere, di non dare importanza, di ignorarsi civilmente, fino ad un certo punto, nonostante qualche sfuriata imbarazzante per tutti (come la sceneggiata di Jep nei confronti di Stefania, quando il vecchio maschio mediterraneo viene sfidato dalla nuova donna mediterranea “con le palle”). Tali vivi, tali morti = tali morti, tali tombe. Tombe che è meglio lasciare non visitate. È un rapporto che non è basato su niente, o meglio che è basato sul niente su cui quel paese è stato composto insieme da tante cose diverse e attraverso il niente su cui esso riesce a vivere e a prosperare e a convincere sempre di essere al mondo come insegna di una “grande bellezza” (ma infatti è proprio quello che è – cioè un grande bluff). Così quel nulla è ciò che il protagonista sembra avvertire, ma quel nulla non è il nulla che dà forma all’anello notato dalla Clarisse di Musil o che permette, ancora prima, la forma della ruota con i suoi raggi che partono dal centro per richiamare il niente da cui quei raggi pure mirabilmente hanno la loro composizione. La “letteratura” di quel “paese” è stata segnata fin dall’inizio dal fastidio che ciascuno avvertiva per il vicino che, per caso, si trovava ad avere accanto come vicino sullo stesso tratto di terreno, da qui il bisogno di sfotterlo, ingannarlo, tenerlo a distanza, guardarlo da dall’alto in basso più che poteva. E il bisogno di ricavarci almeno una macchietta, tanto per sbarcare il lunario (cioè pagare le bollette con la sua attività di scrittore). Questa caratteristica può essere rivenduta in molti modi (novella italiana medioevale, novella italiana rinascimentale, cinepanettone, romanzo a sfondo sociale, film impegnato, docufilm, sketch, fiction), ma si basa sempre sullo stesso tema: la mancanza di coesione tra quanti occupano lo spazio che viene indicato come ciò che costituisce quello stesso paese, che tutti riconoscono – ma che per l’appunto non è un paese.
Jep stesso, in quell’occasione, definisce il suo romanzo un “romanzetto”, ma la stessa Italia non solo è un romanzetto popolar-pecoreccio, ma non è mai stata terra del romanzo. I romanzi possono essere in Italia funghetti, cosette e romanzetti che (zac!) compaiono di colpo dove meno te li aspetti, proprio come funghi e funghetti, e che (zac!) di colpo vengono spicciati dalla critica che li spaccia per tartufi di gran pregio.
Ma l’Italia {meglio così} non avrà mai una carta nell’atlante del romanzo. Il vero scrittore odia la lingua che per caso si trova a dover usare, vuole violentarla, vi avverte qualcosa di estraneo dal quale difendersi con tutta la sua piccola attività nascosta di scrittore.
A proposito di Stefania: come viene costruito, il personaggio Stefania? Si intende: il personaggio Stefania, che ha il suo posto nel film La grande bellezza, viene creato come personaggio a partire da personaggi del tutto simili (di scrittori o di scrittrici) che hanno a che fare col mondo della letteratura della maledetta Italia, dei suoi maledetti partiti, della sua maledetta malagente, della sua maledetta malavita, che occupano il maledetto terreno su cui è allignata la maledetta Italia e che quindi possono entrare a far parte del film La grande bellezza, o in qualche altro modo? ma come può essere decostruito il personaggio Stefania de La grande bellezza?
Sacrale e monumentale, l’inizio del film presenta la morte casuale di un turista giapponese. Un attimo prima di morire, questo turista giapponese scattava fotografie con la sua fotocamera. La marca della fotocamera è stata accuratamente offuscata dalla produzione del film, per cui noi non sapremo mai quale fotocamera egli usasse in quel momento, ma sappiamo che, in quel gruppo turistico, “è morto un tale”. Nella sceneggiatura del film pubblicata da Skira la guida turistica pronunciava infatti la battuta: “Ahò, qua m’è morto l’asiatico!” E poi più oltre non si va.
Insistiamo su Stefania: il personaggio “Stefania” si presenta come possibile decostruzione della “donna con le palle”. Giustamente questa decostruzione non viene mostrata come spogliazione del personaggio, vale a dire come spogliazione di quello che dovrebbe costituire il rivestimento che fa del personaggio Stefania il tratto di riconoscimento della “donna con le palle”, quanto un suo utilizzo in un contesto che ne rivela il nuovo funzionamento, a livello di incrinatura (non per niente in una scena molto vicina a quella della sua umiliazione, vediamo Stefania nuda nuotare nella sua piscina di casa). Tutto infatti è legato alla lingua italiana, e tutto gira intorno al fatto che la lingua italiana, senza bisogno di alcuna spogliazione, non è niente altro che una lingua del cazzo – e che cazzo si può fare con una lingua del cazzo? riconoscere la natura di lingua del cazzo della lingua italiana.
Così la vera domanda è: dove trovare le persone che possono condurre a un personaggio? cioè le persone che, a un certo punto, si possono sentire mancare per davvero?
La chiacchiera può rimandare alla sacralità del linguaggio solo se il movimento avviene all’interno di un individuo che appartiene ad un popolo (e quindi all’interno di quel popolo cui pertiene la sacralità del linguaggio), perché in quel caso il popolo è richiamato alla vera funzione della lingua, che lo strapotere della parola aveva cancellato o posto solo in ombra; in assenza di un popolo, la chiacchiera non può che ripiegarsi su se stessa come mancanza della sacralità del linguaggio, avvertendo così che nessun popolo ha mai abitato spazi e che le chiacchiere, che vengono presentate come chiacchiere al fine di oltrepassare lo spazio delle chiacchiere, sono ciò che ha permesso a quegli spazi di prendere forma, perché un gruppo di persone, che non possono mai costituire un popolo, non abita la terra, ma occupa soltanto un qualche spazio, un terreno, più o meno come fa una pietra in un ambiente delimitato, preso per caso in considerazione – per una ragione o per l’altra. Pietra che può poi sempre essere rimossa, e si spera venga infine rimossa al più presto.
In realtà questo film si basa sulla perfetta concordanza tra chiacchiericcio e architettura come chat col passato, ma in realtà come chiacchiericcio del passato, al fine di realizzare un perfetto chat-contrappunto consonante tramite una cafoneria geometricamente esibita nella messa in scena. Cafoneria, chiacchiericcio non costituiscono dissonanza con le vestigia del passato, perché sono in estrema consonanza fra di loro. E quello che ne viene fuori è l’accordo perfetto, l’accordo di tonica con cui il film si apre e con cui il film si chiude in una perfetta circolarità.
Quel paese non ha mai posseduto quell’architettura, così come quella gente che vediamo agitarsi nel film non ha mai posseduto altro modo di esprimersi di ciò che sentiamo essere usato lungo tutto il film, perché non vi sono rovine, se per rovine intendiamo quello che del passato rimane per richiamare un’altra volta alla lotta un tempo interrotta per un colpo.
Le vere rovine, intendiamo le rovine attive, devono essere pensate già come rovine al momento della costruzione di quegli edifici, pensate come rovine molto tempo prima che una distruzione qualunque possa relegare quanto in quel momento in costruzione al rango di rovine, perché solo così, come rovine attive, diciamo come rovine parlanti, potranno spingere a riprendere la lotta che si era solo ad un certo punto interrotta. Ma ciò di cui possono parlare le rovine è solo la lingua, che sarà la lingua come tesoro della razza e mai le parole come tesoretto di un individuo.
Forse, quello che un artista può fare a questo punto del tempo, raggiunto in questo punto di uno spazio, può essere racchiuso nel disprezzo verso il proprio paese; ad altri spetterà il compito di portare avanti il disprezzo con più distruttivo esito.
Vediamo che in questo modo l’umanità è sentita in quanto ciò che fruscia: fruscio di ciò che appare, appare e scompare, sempre per caso, sempre con una sorpresa, e per lo più ci sta sempre intorno, appunto, come un leggero fastidio, fastidio di un leggero fruscio di ciò che con arroganza appare e scompare. Verso questo fruscio si ha lo sguardo freddo, distaccato, disincantato che ha Jep Gambardella lungo tutto il freddo film, che offende appena, ma non allontana.
Il vicino di casa (David Byrne paparazzato qui nel 2013 sul pianerottolo, sull’ascensore, in una scena che sa di abduction una prima volta, e sul balcone due volte con i capelli disargentati come sarebbe stato nel 2018) che dice sempre la stessa cosa che diceva negli anni Ottanta: “Siamo su una strada che non porta da nessuna parte.” Infatti il vicino di casa è la testa che Jep non riesce mai a far suonare in quanto zucca parlante, ma che solo giunge ad avere a che fare come zucca vuota (che è quello che succede quasi sempre con tutti i vicini di casa, ora che abitare è solo “abitare in verticale”). Parlerà solo una volta, il vicino di casa che somiglia così, stranamente, tanto a David Byrne, ma solo per dire cose qualunque, che tutti possono dire in un momento prima o poi, e che tra il chiacchiericcio di quel film non stupiscono affatto: “Sono io che faccio funzionare questo paese!” Che è quello che Jep diceva senza mai ricorrere all’arte dell’aver detto all’epoca della pubblicazione del suo romanzetto, né del dire all’epoca dell’apice della sua carriera mondana in cui il film lo rappresenta. Ricorrendo cioè, Jep, all’arte del bluff, che è l’arte cui qui ricorre tutto questo sacrosanto film, no? Poiché tutto il film è l’animazione della carcassa di quel dato Jep. Che a sua volta ha fatto funzionare la carcassa del film, cioè di quel dato film che lo ha visto infine carcassa protagonista di questa “Grande bellezza”. Ma dove vedere ciò su cui Jep fa forza? È qui che la domanda si piega, ma non si spiega: che cosa è, infatti, infine, il meticcio italiano (complementare contrapposizione mediterranea alla “donna con le palle”?) La domanda si piega sulla lingua italiana nello stesso tempo in cui non si spiega attraverso di essa, cioè in quanto domanda su quella cosa autenticamente italiana, quanto disgustosa, che è l’alingua italiana, cioè l’alingua degli italiani, che è ciò che comprende entrambe le due cose stramaledette. Il vicino di casa è David Byrne con i capelli disargentati, che dice sempre la stessa cosa che diceva negli anni Ottanta, anno di pubblicazione del romanzo “L’apparato umano” del meticcio italiano Jep Gambardella, qui così straordinariamente appena recensito (infatti questa che qui si legge non è una recensione del film La grande bellezza di Paolo Sorrentino, ma una recensione del romanzo “L’apparato umano” di Jep Gambardella, così come il film La grande bellezza sembra lasciare immaginare che sia stato, recensione che deve comunque lasciarsi profilarsi come un’autentica recensione del niente): “Siamo su una strada che non porta da nessuna parte”, essendo l’apparato umano ciò che viene spacciato come divina commedia, in un popolo che non ha una lingua (ma che ha un’alingua), non ha un popolo (ma che ha un’arte agguerrita del bluff in una serie di ceffi, di tipi, di macchiette, di freak, e sa sempre metterli in scena con orgoglio di parte) per fregare tutti quanti – non siete d’accordo?
Il nuovo romanzo, che Jep annuncia alla fine del film di volere scrivere, sarà infatti la realizzazione del romanzo sul niente, che Flaubert voleva scrivere (e che da allora in poi pende su tutti gli scrittori, come il libro di Mallarmé), ma che in questo caso sarà un’epicizzazione (ma non un’epica) della cafoneria e del chiacchiericcio, ottenuta attraverso l’adattamento alla sola rete di parole del contrappunto che il film realizzava tra immagini e chiacchiericcio. E a questo punto sarebbe eliminata la malafede, col risultato che, se la malafede è la scappatoia concessa al film La grande bellezza, il romanzo che Jep Gambardella si accinge a scrivere sarà proprio la rinuncia a quella sola scappatoia, con tutte le inevitabili conseguenze, no?

Le avventure della lettura

Si pensa che i libri si distruggano con particolari metodi di attenzione, primo fra tutti il fuoco. I libri si distruggono, invece, prima di tutto, attraverso la lettura. Leggendo un libro, gli si fa dire sempre qualcosa di diverso da quello per cui era stato composto.
Una tradizione di tipo umanistico esige una lettura unica, che deve confermare sempre ciò che di quel libro si è stabilito una volta per tutte, tempo prima. Per questo l’umanesimo si indigna così tanto alla distruzione dei libri, ma non vede altro modo di distruzione se non il fuoco o lo smembramento dell’oggetto libro – e condanna quindi qualunque progetto di “distruzione dei libri”. Perché sottrae l’oggetto fatto per essere consegnato alla possibilità della lettura, alla possibilità della non lettura.
Nel romanzo Fahrenheit 451 di Ray Bradbury si immagina che i libri, ad un certo punto lungo il tempo di una civiltà immaginaria, vengano riassunti secondo poche nozioni fondamentali, via via passibili di una brevità sempre più caparbia, per cui, a un certo punto, si comprende che non vale più la pena leggere i libri né (dall’altra parte) tanto meno vale la pena distruggerli con il fuoco. Leggere il libro, aveva infatti compreso quella civiltà, voleva infatti dire esporre il libro alla possibilità di confutare la nozione che doveva salvaguardare il libro dalle avventure sconsiderate della lettura. Lettura del libro e spiegazione di ciò che il libro dice sono due cose che non possono stare insieme. L’opposizione al rogo dei libri è, in quel romanzo, la creazione di una – per così dire – nuova casta di umanisti i cui membri imparano a memoria un libro o una sua parte di esso e la trasmettono ad altri individui della stessa casta. Il libro, anche così, salvato dal fuoco, non viene letto, non si apre alla possibilità di interpretazioni sempre diverse, ma diventa qualcosa già sigillato in sé e da trasmettere senza rompere i sigilli che ne garantiscono la maratona attraverso le generazioni. Così l’umanesimo è stato alla base della minaccia contro l’esistenza dei libri e ricompare, in quel tempo immaginario di una civiltà immaginaria, come ciò che sigilla i libri per impedire la realizzazione della loro autentica natura: la concreta distruzione del libro stesso.

Cortázar, Il gioco del mondo (Rayuela)

“Stracci di pensiero”, sono stati definiti da qualche parte da Lukács gli aforismi di Nietzsche. Ma in Nietzsche gli aforismi richiamano un modo diverso di affrontare qualsiasi oggetto del pensiero, e gli aforismi si susseguono secondo diverse tipologie: forma dialogica, argomento filosofico, appunto autobiografico. Più che essere traccia di un pensiero a brandelli, l’aforisma di Nietzsche pare adombrare un diverso modo di affrontare ciò che costituisce l’oggetto del pensiero che, tuttavia, in quanto oggetto, non si riesce mai ad avere con precisione di fronte. L’oggetto del pensiero è infatti il risultato di un segmento ottenuto con un taglio arbitrario in un continuo. Così l’insieme di aforismi sembra costituirsi come rete per catturare quell’oggetto del pensiero che, in quella forma, il pensiero ufficiale non era allora più in grado di catturare.
Il romanzo potrebbe diventare strumento di conoscenza solo opponendosi, nella rete di una falsa scienza, alla specializzazione della vera scienza, secondo quanto ricordava Guido Almansi. L’aforisma procede da vetta a vetta. Taglia i punti morti che stanno in basso, cioè le zeppe della narrativa. Ma zeppe che l’arte del romanzo ha sempre tirato su dal mare della scienza. Che cosa sarebbe l’arte del romanzo senza la psicologia?
Il gioco del mondo di Julio Cortázar (1966) può essere visto come primo esempio di romanzo aforistico – anche se la tecnica aforistica non vi viene applicata in modo integrale, vale a dire in modo da creare un autentico e definitivo “romanzo aforistico”. Infatti il romanzo aforistico è qualcosa che deve ancora comparire nell’arte del romanzo.
Struttura del Gioco del mondo:
Parte prima: Parigi, culminante con la morte di Rocamadour.
Parte seconda: Buenos Aires, dedicata alla ricerca della donna da parte del protagonista, Horacio Oliveira.
Parte terza: introduzione alla struttura aforistica.
La parte terza consiste di novantanove capitoli, ma questi capitoli, letti tutti assieme, sono più simili ad aforismi, piuttosto che a capitoli di romanzo. È l’argomento trattato a determinarli come aforismi, piuttosto che come capitoli di romanzo. Questi stracci di capitoli hanno la funzione di fare comprendere meglio quanto già è stato esposto – seguendo una narrazione puramente orizzontale, dove difficilmente essi avrebbero potuto trovare posto in quanto capitoli.
Che il protagonista di un romanzo sia alla ricerca di qualcosa di indeterminato è un tema tipico dell’arte del romanzo. L’oggetto della ricerca ha, nelle prime due parti del Gioco del mondo, e soprattutto nella seconda parte, la figura di una donna di nome Lucia, sempre chiamata “la Maga”. La ricerca del protagonista non coincide con il sistema di ricerca stabilito lungo tutto questo romanzo. Oppure la ricerca ha l’oggetto di un punto di fuga, cioè di una apertura nella compattezza di un mondo, che permetterebbe di comunicare con una realtà diversa. La figura della donna è dominante nelle prime due parti, la figura del punto di fuga lo è nella terza, che si determina come la parte aforistica. Allora Rayuela ha un suo tipo specifico di paradosso. Che è appunto il paradosso del gioco del mondo. L’aforisma accresce quanto presente nel racconto puro: dalla donna si passa al mondo, che comporta il legame tra mondi diversi, al fatto che una donna di Buenos Aires possa collegarsi ad altre due donne che il protagonista ha incontrato a Parigi. Anche in un racconto tradizionale è sempre stato possibile alludere a un passaggio di questo genere – per lo più ricorrendo a un simbolo, costituendo cioè il primo termine (la donna della prima parte) come un simbolo. Ma questa costruzione non avrebbe avuto la ricchezza che mantiene invece la costruzione che ricorre comparendo attraverso una struttura aforistica.
Da qui le due chiavi di lettura possibili all’interno del romanzo Il gioco del mondo: la Chiave di lettura 1 (lettura dei centocinquantacinque capitoli, che procede dal primo capitolo all’ultimo capitolo, come avviene in qualsiasi romanzo), che permette di vedere separatamente i due movimenti e suggerisce infine la funzione arricchente del tessuto aforistico rispetto al puro racconto spiattellato dall’arte del romanzo; la Chiave di lettura 2 (leggendo i centocinquantacinque capitoli secondo l’ordine indicato da Cortázar nelle prime pagine del libro e che comporta il salto da un capitolo all’altro delle varie parti), che mostra il funzionamento del meccanismo evitando di concentrare troppo l’attenzione sui due racconti fondamentali, quella della Prima parte e quello della Seconda parte del romanzo.
La struttura aforistica è un metodo di passaggio tra interno ed esterno simile a quello che si verifica nella forma geometrica della bottiglia di Klein. Come nella forma geometrica della bottiglia di Klein, tale struttura di romanzo è di difficile rappresentazione, perché non si basa sulla separazione di alto e di basso e nemmeno di interno ed esterno. Il racconto tradizionale adottava un punto di vista esterno, per cui il racconto veniva visto svolgersi come qualcosa che narratore e lettore avevano davanti agli occhi, cioè qualcosa di esterno; oppure qualcosa di interno, per cui un personaggio, circondato dagli altri personaggi del racconto, raccontava quello che gli stava capitando in quei momenti a lui intorno. Anche se applicata in modo parziale, la struttura aforistica del Gioco del mondo permette di passare senza soluzione di continuità da esterno ad interno e viceversa. Una struttura aforistica romanzesca sarà senz’altro una delle caratteristiche del nuovo romanzo, perché avrà bisogno delle forme geometriche messe a punto dalla topologia. Per meglio dire, marcherà senz’altro il sistema topologico del nuovo romanzo. Quello che è importante, nel Gioco del mondo, è che si tende a un diverso tipo di rappresentazione dei personaggi e degli eventi, più complesso rispetto a quanto non abbia mai fatto un romanzo tradizionale.
Ma la caratteristica presente nel Gioco del mondo è che, nel racconto tradizionale, i vari episodi hanno una struttura stabilita una volta per tutte; mentre la struttura aforistica conferisce mobilità tra i vari episodi. Se un romanzo tradizionale consiste in un insieme complesso di parole, un romanzo aforistico consiste allora di tutte le parole forse mai dette. Perché un romanzo aforistico sarebbe superiore al romanzo tradizionale? Il romanzo tradizionale, per sua costituzione, non pensa; il romanzo aforistico si costituisce come ripensamento della possibilità della propria istituzione. Tuttavia un romanzo aforistico non sembra collegarsi tanto al romanzo tradizionale, quanto ad un sistema mitico. Il pensiero mitico mira a proporre immediatamente spiegazioni totali. Il pensiero scientifico mira a distinguere con precisione piccoli fenomeni e a isolarli. Ma questa è un’altra storia. Gli aforismi permettono al romanzo di funzionare come sistema mitico. Nel romanzo tradizionale gli eventi hanno la preminenza, nel romanzo aforistico gli eventi sono avvolti in una nebbia della possibilità. Il romanzo aforistico è una minaccia alla univocità dell’evento. Per l’esperienza di ogni giorno e per il romanzo tradizionale, l’evento ha carattere di assoluta univocità (ciò che è avvenuto in un modo in un mondo una volta non può più essere modificato in nessun modo nel mondo; il romanzo aforistico contraddice l’univocità dell’evento: ciò che è avvenuto perde non solo la sua univocità ma anche la sua unicità e ciò che è avvenuto una volta ritorna infinite volte per essere sempre modificato, di volta in volta in ciò che si ripresenta al pensiero, come cosa da tornare a pensare.
Julio Cortázar, Il gioco del mondo (Rayuela), Einaudi, Torino 2004

Colonialismo (Una precisazione)

Il colonialismo è quella cosa tanto difficile da affrontare, in quanto argomento di pensiero, che fa sì che lo sterminio di un popolo, per soli motivi di rapina, sia assolutamente da condannare, ma che quello stesso sterminio, se compiuto in assenza di qualunque movente di rapina, quindi per il solo motivo di abbellire il mondo, alleviare la terra, ritrovare l’innocenza del gioco del bambino, sia strumento ammirevole e meta da perseguire – ma appunto questa differenza è ciò che siamo adesso ben lontani da potere accettare: per questo il colonialismo è così difficile da affrontare; perché fa parte di un progetto del mondo, e quindi di un uso del mondo, al quale non siamo ancora pervenuti, perché ci porta a pensare qualcosa di un mondo organizzato in modo diverso.