Si può parlare di un archetipo collettivo europeo operante attraverso la bestemmia? Chi è colui che dà vita alla bestemmia in Europa?
Si parla spesso della inutilità della bestemmia. Si dice: chi crede in Dio non deve bestemmiare; chi non crede in Dio non ha alcun motivo per bestemmiare. Tuttavia questo potrebbe essere un modo blando di affrontare la questione della bestemmia.
(Incursione prima. La letteratura) Un personaggio della Nuova Justine di Sade dice: “Io non credo in Dio, ma vorrei che Dio esistesse per avere il piacere di insultarlo”. Qui è condensato tutto il piacere che prova colui che bestemmia. Questo testo di fantasia scatenata può aiutarci a capire molto del meccanismo della bestemmia. Prima di tutto la bestemmia in sé non soddisfa. Deve avere un bersaglio preciso. Questo bersaglio preciso deve essere il dio. Spesso si dice che colui che bestemmia è una persona che cerca Dio. Ma forse la questione è più sottile, perché chi bestemmia cerca, sì, Dio ma solo per offenderlo con lo schiaffo della sua bestemmia. Si offende per provocare una reazione. Quale può essere la reazione di un dio nei confronti di un uomo che lo ha insultato? Perché infatti un uomo dovrebbe mettersi a lottare contro un dio? Non è una lotta dal risultato scontato? Quale vantaggio può pensare di ricavarne colui che bestemmia?
(Incursione seconda. La storia) Le saghe islandesi riferiscono spesso l’arrivo del nuovo dio cristiano nell’Islanda “pagana”. Il nuovo dio viene riconosciuto come un dio straniero che gli abitanti dell’Islanda non vogliono accettare. Si sa che questo nuovo dio è un dio prepotente, giunto in Islanda con lo scopo di stravolgere la vita delle persone che abitano l’Islanda e di distruggere radicalmente la tradizione. Pertanto si sfida questo nuovo dio prepotente a duello, lo si insulta per costringerlo al combattimento. Lo scopo del combattimento è chiaro: cacciarlo dall’Islanda. Ma chi è che lancia questa sfida? Nei resoconti della tradizione islandese questo compito spetta a Þórr, il dio che Dumézil collegava alla funzione guerriera. Il dio della tradizione pagana era infatti la figura più adeguata per combattere contro il dio straniero.
Quanto riportato dai resoconti islandesi è vago, spesso filtrato dalle convinzioni dei redattori dei testi pervenuti, chi a favore della tradizione, chi della nuova religione straniera. Noi adesso possiamo essere più chiari in questi schieramenti, conoscendo cose che all’epoca non si conoscevano e potendo dare un nome a molte di esse: prima di tutto sappiamo il motivo per il quale il nuovo dio suonava straniero; parimenti sappiamo il motivo per il quale gli dei tradizionali erano gli dei del popolo. Possiamo infatti affermare con certezza che gli dei della tradizione minacciati dal nuovo dio sono gli dei della tradizione indoeuropea, nella loro versione germanica, dèi comuni alla tradizione dei popoli scandinavi, cioè della razza bianca; possiamo altresì riconoscere il nuovo dio prepotente che vuole distruggere la tradizione come il dio di un’altra razza, che non ha nulla a che fare con la razza indoeuropea, un dio che non appartiene alla razza bianca, perché proveniente da tutta un’altra razza, precisamente dalla razza semita.
A livello di archetipo collettivo, colui che bestemmia vuole scacciare via dall’Europa il dio semita perché sa che la sua terra non è terra per il dio semita. E vuole che – per nessun motivo – la sua terra diventi terra per il dio semita. Egli riconosce in quel dio prepotente una estraneità di razza così come una arroganza di razza e riconosce in se stesso il rappresentante della razza indoeuropea, riconoscendo pertanto la sua terra come la terra della razza bianca d’Europa. Egli quindi insulta il dio semita per costringerlo al combattimento e scacciarlo dalla terra della razza bianca d’Europa, che il dio semita, con la inequivocabile prepotenza della sua razza, ha invaso. Egli vede in quel meschino dio semita lo straccio dietro il quale la stracciona razza semita caracolla per entrare in Europa.
Categoria: Antropologia
Meridione d’Europa
Miguel Serrano: «Anche se si potrebbe accettare come un comodo elemento di esposizione la teoria delle razze dell’anima e dello spirito, di Evola e Clauss, alla fine non si rende necessaria, complicando unicamente le cose, servendo per parlare di razzismo tra genti troppo mescolate e popoli meticci, senza arrivare a ferire i loro sentimenti, giacché un mulatto, o un indio, tra noi potrà sempre pensare che sebbene il suo corpo sia di colore, la sua anima potrebbe non esserlo. Nasce il sospetto che tutto fosse stato inventato da Evola per parlare di razza agli italiani del sud ed allo stesso Mussolini.» (M. Serrano, Adolf Hitler, l’ultimo Avatara, Edizioni Settimo Sigillo, 2 voll., Roma 2010, I vol., p. 120).
Adolf Hitler: «Si pensi alle devastazioni che l’imbastardimento giudaico appresta ogni giorno al popolo nostro, e si rifletta che questa intossicazione del sangue potrà solo dopo secoli, e forse mai, essere eliminata dal corpo della nostra nazione. Si consideri pure quanto questa decomposizione della razza abbassi gli ultimi valori arii del nostro popolo tedesco, e spesso li distrugga, cosicché la nostra forza di nazione portatrice di civiltà va sempre retrocedendo, e noi corriamo il pericolo di arrivare, almeno nelle nostre grandi città, al punto in cui si trova già oggi l’Italia meridionale.» (A. Hitler, La mia battaglia, in A. Hitler, Mein Kampf, Edizioni di Ar, Padova 2009, pp. 233-4).
Chi nasce Italiano, non muore di razza.
L’ultima stazione
Qual è l’ultima stazione del pensiero occidentale? Quella che permette di mettere le mani sulla creazione divina. Questo vuole dire: quella che permette di pianificare la soppressione di intere razze umane. Questa stazione sarà la fine del pensiero occidentale, così come noi lo abbiamo sempre conosciuto. E l’inizio di un nuovo periodo, la cui luminosità è molto al di là del nostro orizzonte.
Mettere finalmente le mani sulla creazione divina – non solo nel senso della raggiunta manipolabilità e del controllo del mondo ai fini puramente tecnici – ma anche per quanto riguarda l’intervento sul diritto alla vita di certe razze, è infatti il compito che attende il futuro. E questo futuro è tutto, fuorché incerto.
Così può essere divertente, nei confronti di questa prospettiva, rivedere, già da adesso, certi atteggiamenti intellettuali della modernità e scoprirne la totale inadeguatezza. La questione di un discorso sul nazismo, ad esempio, non dovrebbe essere posta a partire dai campi di concentramento, essendo essi il punto d’arrivo. E comunque non si dovrebbe pensare di annullare ciò che ha potuto cominciare ad essere attraverso la funzione di questi campi di concentramento. Così può apparire discutibile il progetto del revisionismo: accettare una morale – che il nazismo potrebbe avere infranto – con l’intento di dimostrare che il nazismo non ha agito contro questa morale. Non è una buona dose di impacciata timidezza? Quello che invece deve essere affrontato è la questione che il nazismo ha rappresentato l’inizio della fine di tutta una morale, che doveva passare anche attraverso il riconoscimento delle razze inferiori e della loro soppressione.
In due parole
Il meticcio italiano in due parole: «Un naso d’Ebreo in un ceffo da zingaro!»
Ciò che rimane da pensare
Il razzismo non è ciò che deve essere favorito oppure osteggiato (secondo quanto sembra sostenere il fantasma dell’incitamento all’odio razziale – che, con triste insistenza, riunisce le posizioni di entrambi gli schieramenti), ma ciò che deve essere pensato.
Questo perché le teorie razziste sono teorie di tipo antropologico e filosofico, che nulla hanno a che fare con quanto oggi viene definito, attraverso i tanti mezzi di comunicazione di massa, con il termine “razzismo”.
Bisogna, prima di tutto, riprendersi le parole. Poi verrà, di conseguenza, il momento di riprendersi la terra. (Solo il destino di una fogliolina d’autunno unisce, a volte, per caso, una parola e la sua terra.)
Nell’epoca della modernità – quale predominio assoluto della razionalità – il razzismo è ciò che rimane da pensare.