I libri sono una falsità. Intendo i libri che uno scrittore va componendo lungo l’arco della sua vita trasformata in carriera letteraria. Al posto dei libri non dovrebbero esserci altro che appunti o frasi isolate. Il libro dovrebbe arrivare solo alla fine; come somma. Uno scrittore non ha mai futuro. Lo scrittore è proprio colui che non vede un futuro davanti a sé, e che non progetta mai un libro perché lo vede sempre già esistente o concluso nelle frasi che gli passano in mente senza andare da nessuna parte. Meno che mai egli dovrebbe mai darsi da fare per la propria opera.
Categoria: Estetica
Romanzo-Epopea
Il romanzo non può cogliere quest’epoca di tramonto ed eclissi dell’individualità perché il romanzo è l’epopea dell’individualità.
Con inutile ridondanza il romanzo postmoderno segna la fine di ciò che, in sé, il romanzo aveva già potuto condurre a compimento.
Curiosamente, per il romanzo potrebbe aprirsi la possibilità di una “epopea della razza”, che avrà ben poco del romanzo e qualcosa dell’epopea; che avrà qualcosa del romanzo e ben poco dell’epopea.
L’individuo non sarà più centro focale e centro vocale, cioè assunto di fuga. Perché proprio l’individuo sarà ciò su cui di volta in volta convergeranno i raggi. Raggi e centro verrebbero raccontati solo insieme al vuoto che sta fra di loro. Come in un tempo musicale, in una battuta l’individuo comparirebbe, nella battuta successiva scomparirebbe.
Cinema. Vicoli ciechi
Bisogna accorgersi una volta per tutte che, ai giorni nostri, negli ambienti culturali dell’Occidente, lo scandalo non può essere più rappresentato in nessun modo dal sesso, ma dalla difesa della possibilità del genocidio. E soprattutto: della sua necessità. Vale a dire: dalla difesa della possibilità di un prossimo incombente necessario genocidio. È questo che la nostra epoca non può accettare in nessun modo: la giustificazione – da una punto di vista perfettamente razionale – della necessità del genocidio.
La nostra epoca deve essere inseguita nei vicoli ciechi delle sue disperse e molteplici periferie virtuali, là dove pensa di non trovare mai nessuno in agguato.
Perché il teatro?
I teatri sono come le prigioni secondo Michel Foucault: fanno talmente parte delle nostre città che non ci poniamo la domanda sulla loro origine.
Quattro testi di Nietzsche pongono invece questa domanda fondamentale: “da dove viene il teatro?”
Questi testi sono:
Il dramma musicale greco (conferenza del 1870);
Socrate e la tragedia (conferenza del 1870);
La visione dionisiaca del mondo (breve saggio scritto nel 1870);
L’origine della tragedia (libro del 1872).
In essi Nietzsche affronta una questione essenziale: il teatro è un elemento estraneo alla Grecia. Più si passa da Eschilo a Sofocle e poi da Sofocle ad Euripide, più ci si avvicina a quello che oggi conosciamo come teatro. Più si guarda indietro rispetto a Eschilo, più si intravede qualcosa che non riusciamo bene a comprendere, ma che del teatro, così come oggi lo conosciamo, non aveva niente. Il teatro è quindi qualcosa che si forma in una certa epoca, difficile da precisare, ma che ingloba elementi disparati.
Due fattori Nietzsche ritiene essere basilari: lo schema razionale della vicenda, dovuto all’influsso del razionalismo di Socrate; l’importanza del dialogo, che mette in gioco dei personaggi, li fa scontrare fra loro e consegna, allo stesso tempo, al pubblico il complesso degli elementi per valutarne la solidità delle ragioni.
La tragedia così intesa, sembra suggerire Nietzsche, è la rappresentazione di una discussione democratica. Intuizione geniale, se si pensa a come Brecht intenderà lo scopo del suo teatro, lo scopo del teatro epico.
La figura cardine nell’analisi di Nietzsche è Dioniso, colto nella sua estraneità al mondo greco, a causa dell’origine straniera, orientale. Secondo Nietzsche è solo grazie alla figura di Apollo, cioè all’incontro dell’elemento dionisiaco con quello autoctono apollineo, se è stato possibile la formazione di un elemento tanto complesso – quanto completo – quale la tragedia greca.
Nella confusione presente nel concetto di azione della Poetica di Aristotele c’è già tutta l’astuzia del teatro epico.
L’arco del teatro si sviluppa infatti nell’arcobaleno che unisce la tragedia greca alle teorie epiche di Brecht. Non c’è teatro senza beffa, senza guitti sopra il carrozzone.
In ogni forma passata di teatro c’è in germe quel qualcosa che condurrà alle forme estreme della modernità: il cinema e la pubblicità. Questo perché il teatro è l’elemento estraneo fin dall’inizio, che ha in sé la possibilità della modernità, cioè del luogo verso il quale la Terra della Sera si incammina fin dal suo primo comparire.
Questo è lo stato della tragedia con tutte le sue implicazioni strane. A un certo punto, il teatro rinasce. Sembra che la cultura occidentale abbia bisogno del teatro. La fase intermedia non è ricca di nomi. Tutto appare procedere in modo anonimo. A un certo punto, invece, il teatro recupera quanto raggiunto con la tragedia greca e, aggiungendo un insieme del tutto insperato, si lancia per una corsa finale che lo porterà alla modernità, cioè al teatro contemporaneo e all’esplosione nei generi più diversi ma anche alla separazione tra testo e messa in scena.
Se il teatro ha la sua nascita in ciò che c’era prima di Eschilo, esso sembra proiettarsi in ciò che si manifesta alla sua esplosione.
Nella prima fase, quella analizzata da Nietzsche, il teatro nasceva attraverso lo spostamento dal mito verso la quotidianità. La nuova fase si determina attraverso la beffa, lo sberleffo, l’insulto gratuito e la rimozione totale di ciò che è mito. Se nella prima fase la figura scatenante del teatro era stato il dio non greco Dioniso, in questa nuova fase il luogo scatenante sarà l’Italia, con i suoi palazzi e le sue corti piene di arrivisti maldicenti, di persone spregiudicate, di intrighi e assassini.
Fin dall’inizio il teatro è il sintomo di una malattia della lingua. Nel senso che la lingua di un popolo ha, in quel punto, cioè nel punto in cui si è coagulato come teatro, subito una distorsione e, anziché garantire la serenità dell’abitare di un popolo sulla terra, la lingua gli si rivolge contro, diventando strumento principe di una presa in giro, di un insulto, di una mancanza di rispetto che scatena la diffidenza e il sospetto di tutti contro tutti.
Shakespeare riassume questa situazione attraverso il personaggio che spinge all’azione col tramite di parole ambigue: Iago con Otello, le streghe con Macbeth, lo spettro di Amleto con Amleto, Cassio con Bruto. Lo scherzo innocente della Commedia dell’arte è diventato progetto criminale. Così, da questo momento, la lingua non è più il tesoro della razza, ma il torbido bottino del ladro, sempre più pesante.
Il teatro di Shakespeare utilizza pienamente questa parola deviata. Una meditazione attiva sul teatro di Shakespeare, come appare essere il Boris Godunov di Puškin, elimina il personaggio portatore della parola deviata, in quanto personaggio non essenziale allo svolgimento complessivo.
L’influsso del meticciato italiano è adesso lontano, e il risultato è un testo di grande bellezza e concisione; ma rimane la domanda ingombrante: “Perché il teatro?”.
Il teatro è una forma di arte degenerata ed è un mesto accompagnamento del processo di degenerazione della razza. In nessun altro paese indoeuropeo fuorché la Grecia, si è mai avuto qualcosa come il teatro. Dopo la Grecia, la spinta al nuovo teatro tocca all’Italia. La Grecia e poi l’Italia accolgono la divinità straniera dall’Oriente. Il risultato è una parola sempre più ambigua e difforme, un tramonto, la triste comparsa di un’arte sempre più per tutti e sempre più educativa.
Ma alla fine il teatro comprende una grande parte della cultura occidentale: Shakespeare, Ibsen, Strindberg, Brecht, l’opera lirica, oltre, naturalmente, alla tragedia greca, con la quale tutto ha avuto inizio. È proprio tutto questo che bisogna cominciare ad affrontare in modo diverso, appunto avendo presente l’estraneità del teatro alla cultura occidentale.
L’arrivo del teatro epico è stato quello di scompigliare tutto. La sua azione è infatti quella di svelare per velare. Il risultato lo si vede nella dissonanza, ormai accettata generalmente e soprattutto evidente nel teatro d’opera, tra testo e messa in scena, tra approccio filologico a un testo ed eccentricità della messa in scena.
Epicizzazione del teatro
A fini artistici le parole sono mantra. È caratteristica dell’arte far suonare le parole nel vuoto, ma solo il teatro le intarsia in uno spazio suo particolare.
Lo spazio del teatro, cioè lo spazio in cui avviene la rappresentazione scenica, è la settimana di passione del teatro moderno. Poiché a questo tende il dramma a stazioni.
Sbalzata nel teatro, la parola acquista un imperativo di fatto. È ciò che Benjamin, ne I «passages» di Parigi, indicava con la felice espressione: “truculenza cinematografica dell’azione”. Al cinema, infatti, la parola del teatro tende, e anche alla pubblicità. È una nuova funzione della parola, in tutto una nuova parola, che ha la sua radice nel trasferimento del significato della parola, che si determina in quanto “parola deviata”.
La parola cessa di essere un dolce enigma dai più significati e diventa la via più breve per imporre l’azione.
Come realizza, il teatro, il movimento della parola vuota sulla scena in quanto parola deviata?
Prima di tutto, tramite l’esclusione del fattore tempo dalla vicenda che mette in scena. I personaggi sono privati del tempo; ognuno è irrigidito nell’attimo di una postura, in una scelta operata dall’autore, che ne ricava una maschera. Ogni personaggio che agisce sul palco di un teatro, in ultima analisi, non è altro che una maschera. Questa è la coerenza. L’azione è condensata in un tempo breve. Tutto deve essere funzionale al precipitare degli eventi.
Poi tramite una riduzione dello spazio. Anche lo spazio subisce una metamorfosi. E una metamorfosi del genere era già presente, nelle sue caratteristiche, nell’architettura del teatro elisabettiano. Il teatro moderno reinterpreta incessantemente questa architettura perduta.
È stato il teatro epico a introdurre la dimensione del racconto nel teatro, che ha avuto la conseguenza di trascinare con sé lo spazio. Quello che ne viene fuori è uno spazio aperto a trasformazioni – di tipo topologico. Nell’epica lo spazio è trattato secondo leggi aperte di tipo topologico. Il teatro epico introduce nel teatro qualcosa di simile a quello che già avveniva nel romanzo. Accostandosi all’epica, il teatro recupera qualcosa della topologia e si adatta a trasformare lo spazio.
Brecht ha modificato lo stato del teatro molto più di quanto non avesse in mente di fare. Il teatro epico aveva potenzialità più spropositate di quanto egli non avesse compreso. (Guai dell’apprendista stregone!) È scomparso il fine didattico immediato allora voluto da Brecht (il “messaggio” escatologico del materialismo storico), ma i due punti essenziali sono rimasti: la scenografia semplice e a vista; l’allusione alla modernità, che corre lungo tutto lo spettacolo definendo la chiave dell’intera messa in scena.
Dopo Brecht ogni progetto di messa in scena ha dovuto fare i conti con questa nuova componente inscindibile dalla messa in scena teatrale: l’epicizzazione del teatro.
«Marco Ferreri una volta mi ha detto che i miei dialoghi sono cinematografici perché durano il tempo giusto. Per forza, quando due dei miei personaggi parlavano andando dal refettorio al chiostro, io scrivevo con la pianta sott’occhio, e quando erano arrivati smettevano di parlare.» (U. Eco, Postille a “Il nome della rosa”.)
Questo è proprio il guasto del teatro che continua a espandersi nella letteratura. Il teatro è un freno nel meccanismo della modernità. Il romanzo post-moderno ne amplifica l’ECO.