Miguel Serrano, la terra, la fine della metafisica

Miguel Serrano: «Ogni aristocrazia terrestre è un tema di razza, di etnia.» (Adolf Hitler, l’ultimo Avatara, 2 voll., Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2010, II vol., p. 423).
Il giudeo «odia la natura» (ibid.), e non ha alcuna predisposizione per l’agricoltura. Il campo dove riesce meglio è la finanza, la creazione e la direzione di banche. È questo il mezzo con cui i giudei aumentano il loro potere e causano il crollo delle società presso le quali si installano.
Se ne deduce una tendenza all’astrazione da parte di questa razza, e, insieme, una ideologia dello sradicamento: il giudeo odia la terra, non la vuole lavorare e non la vuole sentire sotto di sé.
L’aristocrazia è invece legata alla terra; deve poggiare sulla terra.
Tutto il pensiero giudaico-cristiano può essere il risultato di una simile astrazione, e prima ancora di uno sradicamento dalla terra: non voler riconoscere la terra sotto di sé, sfuggire in un mondo di concetti astratti e maneggiare solo quelli, come nella gestione di una banca. Per gli stessi motivi, ne consegue, questo pensiero è anche un pensiero ostile a ogni aristocrazia.
Potrebbe riconoscersi qui l’epoca della metafisica come descritta da Heidegger. La fine della metafisica sarebbe il riconoscimento di una terra sotto di sé. Ma questo comporta una terra diversa, cioè diversa dalla terra giudaico-latina che era stata ripudiata da quel pensiero. E questa nuova terra sarà la terra dell’aristocrazia germanica.
L’Hitlerismo Esoterico di Miguel Serrano e la fine della metafisica di Heidegger possono essere collegati come un richiamo alla terra (la nuova epoca che deve arrivare) e come un segnale di ciò che non ha terra (il pensiero giudaico-cristiano). Il tema di “ciò che non ha terra” e di “ciò che richiama a una terra” sarebbe così un tema che insiste nella catena della nostra modernità.

Oltre la Grecia

Un pensiero nuovo, in grado di abbandonare, finalmente, le odiate sponde del levantino sud d’Europa, è diverse volte sembrato vicino. È accaduto con Nietzsche, poi con Heidegger, e ancora con Dumézil. Ma non è mai stata affrontata la questione fino in fondo: e allora il pensiero, come un animale fin troppo domestico, è tornato a raggomitolarsi nel suo nido di parole del sud dell’Europa.
“Affrontare la questione fino in fondo” vuole qui dire andare oltre un pensiero che vede nella Grecia la sua giusta e inevitabile origine.
Heidegger è importante anche per le possibilità di pensiero che apre oltre la Grecia (come poi Dumézil); ma perché, nel suo pensiero, tutto si chiude sempre intorno alla Grecia (come anche avviene in Dumézil)?
Con l’espressione “possibilità di un pensiero oltre la Grecia” si intende una possibilità riservata al pensiero occidentale tale da poter esercitarsi al di fuori di ciò che è stato il pensiero greco. Ma al di fuori della Grecia, per come l’Europa è stata stabilita prima ancora che si potesse parlare di Europa, c’è la Germania. Intendendo con “Germania” quella parte dell’attuale Europa che Roma ha cercato di sottomettere e che solo con la “battaglia di Arminio” si è svincolata parzialmente da questo dominio. Vale a dire: la civiltà germanica.
Una prima considerazione può essere fatta a proposito della Allocuzione per la cerimonia del solstizio d’estate (24 giugno 1933) di Heidegger.
Che cosa dice Heidegger in questo discorso? «I giorni declinano», e lo ripete tre volte in un testo brevissimo. Dopo il solstizio d’estate le giornate si accorciano. Gli Indoeuropei celebravano i solstizi: quello gioioso d’inverno (gioioso perché, pur nel buio delle giornate, si riconosceva il ritorno della nuova luce), quello malinconico dell’estate (perché nella piena luce si riconosceva il punto massimo raggiunto, oltre il quale c’era solo discesa). Heidegger riconosce un fatto comune al gruppo indoeuropeo. Ma l’epoca del solstizio d’inverno è la notte senza dèi in cui avviene l’annuncio dei nuovi dèi. Che è quello che viene trovato nella poesia di Hölderlin.
Cristiano Grottanelli ha tracciato delle corrispondenze tra il Discorso di Rettorato di Heidegger e la teoria della tripartizione funzionale di Dumézil: «È facile riconoscere nei tre doveri del Rettore Heidegger le tre funzioni nell’ordine inverso: III, II, I, ma anche le due figure jüngeriane del Combattente e del Produttore, più una terza figura qui presentata come dovere-funzione del sapere, che è lo stesso Heidegger in quanto “sapiente” tedesco.»
In tutti e due i casi, Heidegger accetterebbe antiche strutture germaniche (se non indoeuropee), che l’epoca contemporanea aveva ormai diminuito di valore.
Se l’esperienza del Rettorato consistesse proprio in questo: nella messa in pratica, intravista da Heidegger, di poter andare oltre la Grecia? Questa possibilità può concretizzarsi solo attraverso una rinascita della germanicità. Doveva toccare alla germanicità agire nell’epoca contemporanea allo scopo di rinnovarla. La germanicità così stabilita poteva essere ripresentata dal movimento politico di Hitler. Heidegger aderisce alla germanicità (perché vede in essa un qualcosa di autenticamente profondo – oltre la Grecia). La germanicità era un legame tra i vari gruppi che componevano il popolo tedesco: era il passato di questo popolo e ne avrebbe costituito il futuro. Il futuro così determinato sarebbe stato il riconoscimento, da parte del popolo tedesco, del proprio passato inteso come germanicità – oltre la Grecia: in questo Heidegger poteva vedere il nuovo compito della Università tedesca. Da qui il riconoscimento da parte di Heidegger di alcuni elementi fondamentali: la tripartizione indoeuropea; la struttura Führer–Gefolgschaft; la celebrazione del solstizio d’estate.
La struttura Führung/Gefolgschaft indica l’antica struttura germanica del Capo e del suo Seguito. Se il Seguito riteneva il Capo indegno di essere seguito, gli si ribellava contro; la stessa cosa si aveva anche a proposito degli dèi.
Se Heidegger seguisse degli antichi usi germanici? Se il suo interesse per il nazismo fosse stato deciso proprio da questo possibile ritorno di antiche consuetudini? Considerare l’origine contadina di Heidegger. Evola vedeva nel corpo della SS il ritorno di un’antica struttura germanica (in realtà indoeuropea): la banda di guerrieri che si organizza spontaneamente intorno a un Capo.

     C. Grottanelli, Ideologie miti massacri, Sellerio editore, Palermo 1993. Il discorso riguardante Heidegger «erede inconscio del trifunzionalismo indoeuropeo» occupa le pp. 92-5. Il brano citato sopra è alle pp. 93-4.

     Allocuzione per la cerimonia del solstizio d’estate (24 giugno 1933) e Discorso per il Rettorato, in M. Heidegger, Scritti politici (1933-1966), Edizioni PIEMME, Casale Monferrato 1998.

     L’interesse del giovane Nietzsche per la mitologia e la letteratura degli antichi popoli germanici è adesso contenuta in F. Nietzsche, Scritti giovanili 1856-1864 (Opere di Friedrich Nietzsche, vol. I, tomo I, Adelphi, Milano 1998).

Il senso della terra

«Coloro che abitano un mondo dietro il mondo sono, in tedesco, gli Hinterweltler (il titolo di questo terzo discorso suona in originale: Von den Hinterweltlern). Ma gli Hinterweltler sono, in italiano, coloro che abitano un mondo dietro il mondo solo se si tiene presente che il termine è ricalcato su Hinterwäldler. Gli Hinterwäldler sono coloro che abitano dietro i boschi, cioè al di là di essi, dalla parte che non comunica con la civiltà, faccia non illuminata della luna. Sono uomini primitivi, zotici, che vivono “fuori del mondo”, una vita solitaria e bestiale.» (S. Giametta, Commento allo “Zarathustra”, Bruno Mondadori, Milano 1996, pp. 21-2.)

Il bosco germanico è diverso da quello latino. Pensare al bosco delle fiabe. Nelle fiabe dei Grimm il bosco è vicino alle case. In Basile il bosco esiste solo nella forma di un giardino attorno al palazzo dove vive l’orco come un qualsiasi altro abitante della città. Ogni filosofia costituisce un rapporto tra le parole di una lingua e i concetti che essa formula a partire da quella lingua. La lingua tedesca crea un termine per indicare ciò che vive aldilà della civiltà, e questo termine è appunto ciò che la filosofia, a un certo punto, deve modificare per segnare una frattura con la filosofia ad essa precedente. La civiltà latina parla più genericamente di “mondo”. La civiltà germanica parte dalla terra; e dalla terra dove c’è il bosco, che divide diverse terre. La civiltà latina crea un vocabolario filosofico che ignora tutto ciò che è del Nord, perché per essa il mondo germanico poteva esistere solo in quanto terreno di una conquista. La civiltà germanica crea un vocabolario che si oppone al mondo del Sud, perché ormai, a partire da Nietzsche, creare un nuovo vocabolario filosofico vuole dire opporsi alla civiltà latina: «Più onesto e puro parla il corpo sano, nella sua perfezione tetragona: ed esso parla del senso della terra.» (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, in Opere di Friedrich Nietzsche, volume VI, tomo I, Adelphi, Milano 1973, p. 33.)
La metafisica è intessuta di pensiero giudaico-cristiano, che a sua volta è un tessuto della terra del sud. Questa è la tessitura inconsapevole della filosofia occidentale dalla quale essa origina i propri concetti, che solo in apparenza sono slegati da una terra, relativi soltanto a un mondo dello spirito, ma che in realtà sono collegati a un mondo di una terra precisa. Un mondo che vedeva un mondo dietro il mondo. L’espressione “fine della metafisica” smaschera questa larva di mondo opponendogli un altro mondo, quello germanico, ma evitando appunto il salto della messa in maschera. Nominando, prima di tutto. Non corpo e anima, quindi, ma corpo e terra.
La filosofia non ha mai parlato della terra, ma parlare della terra è appunto il nuovo compito che attende la filosofia.
Il tema è indirettamente presente in Perché restiamo in provincia? di Heidegger. La filosofia, si fa lì notare, può nascere solo da quel preciso e ristretto ambiente: dai discorsi con i contadini, dagli animali che accompagnano il lavoro dei contadini, dalle tempeste improvvise di neve che sorprendono il lavoro del filosofo. È una filosofia che deve nascere da altre parole. Tutto questo non determina solo l’ora della filosofia, ma l’era diversa dove il pensiero e il suo  vocabolario devono infine arrivare.

Il tempo di Zarathustra

“Ma che vale un tempo che ‘non ha tempo’ per Zarathustra?”.
Questo tempo è prima di tutto un tempo che rimanda a una seconda fase. La citazione completa suona infatti: «”Non abbiamo ancora tempo per Zarathustra” – questa è la loro obiezione. Ma che vale un tempo che “non ha tempo” per Zarathustra?» Questo tempo è un tempo che non ha tempo. Per quale cosa questo tempo è un tempo che non ha tempo? Se non ci fosse questo stare nel tempo per non avere tempo, questo tempo non sarebbe un tempo. Ma questo tempo è un tempo solo se ci si pone una domanda. Questa domanda è: “Che tempo è un tempo che non ha tempo per Zarathustra?” Questo tempo è il tempo nel quale non si riconosce il carattere indoeuropeo di Zarathustra; ma è anche il tempo nel quale l’iranico Zarathustra compare metà greco e metà profeta ebraico: è un tempo nel quale Zarathustra non ha più tempo per avere tempo.
La domanda: «Ma che vale un tempo che “non ha tempo” per Zarathustra?» è però una domanda sul tempo. Essa, infatti, prevede e rimanda a un diverso tipo di tempo.
Questa domanda suona come: “Che tempo è un tempo che non ha tempo per Zarathustra?” Modulata così, la domanda rivela il suo annidamento nelle questioni del tempo.
C’è un tempo che non prevede Zarathustra, e un tempo nel quale Zarathustra irrompe come richiamo a un tempo diverso.
“Non avere tempo per Zarathustra” vuole dire non essere distratti nei propri progetti nel tempo da un progetto estraneo, che sottrae tempo al compimento di un progetto. E il compimento di questo progetto esclude Zarathustra.
Il tempo di Zarathustra è la fine del concetto comune di tempo. Questo concetto comune di tempo è il tempo che ha nel contare “fino al compimento di un certo tempo” la sua propria natura, secondo la formula di Agostino. Quindi è un tempo che prevede dei progetti e si manifesta soprattutto nell’arco di un progetto. Progetti contemplati lontani nel passato (nella prospettiva del tempo percorso e del progetto completato; ciò che il soggetto ha realizzato) o lanciati lontano nel futuro (come progetti a venire; ciò che il soggetto deve ancora realizzare). Il progetto è sempre un incontro con una meta da parte di un soggetto. Al contrario, Zarathustra non affolla il tempo di progetti. Quindi questo nuovo tempo per il quale non si ha tempo sarebbe non un semplice accantonare nel tempo, quanto una possibilità di uccidere il tempo.
Le Confessioni di Agostino contengono riflessioni basilari sul tempo. Ma da che cosa deriva questo aspetto di base, cioè di fondamento? Le riflessioni sul tempo di Agostino occupano parte del Libro XI, ma tutta l’opera può essere divisa in due grandi parti: una prima parte, che può essere definita L’andare per il mondo (Libro I-IX); una seconda parte, che si potrebbe definire Teoria del soggetto (Libro X-XIII). Comune a entrambe è il disegno divino che Agostino riconosce nei confronti di se stesso in quanto soggetto, e quindi la possibilità di raccontare la propria storia come movimento verso una meta, verso la quale “si” tendeva anche quando ancora non se ne aveva coscienza alcuna, come Agostino riconosce quando racconta il periodo del proprio paganesimo. Infatti le Confessioni possono essere considerate il primo esempio di Bildungsroman. In questo si mostra la verità tanto quanto in essa tutto è falso come un libro. Ma dalla possibilità di diventare “falso come un libro” saranno chiamati a uscire, alla fine dell’epoca della metafisica, coloro che collegheranno romanzo e racconto autobiografico, Hamsun e Henry Miller, per esempio.
Se Zarathustra libera l’ente dalla necessità del divenire, allora Zarathustra deve anche liberare il tempo dalla necessità dell’annidare in sé progetti.
Ma quando il tempo sarà solo patrimonio di tempo, allora il tempo sarà qualcosa di falso e segreto, perché il poeta è il patrimonio del silenzio.

F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, in Opere di Friedrich Nietzsche, volume VI, tomo I, Adelphi, Milano 1973, p. 204.

Il sentiero del Nord

Per tornare nella sua caverna, Zarathustra giunge davanti alla porta della «grande città». Il pazzo chiamato dal popolo la «scimmia di Zarathustra» gli sbarra la strada e inveisce contro la città. Zarathustra passa oltre la grande città, senza dare troppa importanza alle invettive del pazzo. Che cosa vuole dire tutto questo? Perché Zarathustra non inveisce contro la grande città, mentre le invettive contro la grande città sono lanciate dal pazzo che il popolo definisce la «scimmia di Zarathustra»? Perché la grande città è quel destino della modernità contro il quale le invettive sono inutili, perché le invettive fanno ancora parte di quell’insieme che ha portato alla costruzione delle grandi città. Il pazzo rappresenta l’atteggiamento di rottura attiva nei confronti della modernità, cioè quell’atteggiamento che combatte la modernità all’interno delle strutture che costituiscono la modernità. La posizione di Zarathustra è più complessa, perché intravede un tempo nel quale tutti i rapporti saranno diversi. La diversità di questo tempo riguarderà anche la vicinanza che nella modernità è rappresentata solo dalla grande città. Il popolo definisce il pazzo «scimmia di Zarathustra» perché ne intuisce la somiglianza con le idee di Zarathustra, e nello stesso tempo ne intuisce la differenza, per cui il pazzo che scimmiotta Zarathustra è solo la scimmia di Zarathustra. La grande città è la grande città europea dell’epoca di Nietzsche: Parigi (la Parigi di Balzac, di Baudelaire), Berlino (come indica Sossio Giametta nel suo commento allo Zarathustra). Il pazzo furioso rappresenta i poeti che hanno creato il mito poetico e letterario della grande città (Balzac, Baudelaire, Benjamin e prima di tutti Agostino, il «mediocre meticcio africano» cantore della grande città di Dio e pazzo furioso verso Roma); la città è la creazione della razza del Sud, ma Zarathustra è ormai sul sentiero del Nord. La grande città del Sud è infatti il sentiero del Nord nel pensiero che è il pensiero dell’eterno ritorno. Zarathustra passa oltre la grande città perché non vuole diventare un pazzo furioso, perché sa che la posizione del pazzo furioso è inconcludente; e sceglie di rimanere in provincia per pensare fino in fondo il suo pensiero.