La cultura ufficiale è adesso un po’ meno ufficiale e noi ci siamo tolti un peso dallo stomaco.
Con la sua narrativa, Umberto Eco è diventato il Borges dei poveracci. Per fortuna di ciò che è sano, questa narrativa non ha innalzato il livello culturale dei poveracci, ma nemmeno ha abbassato il livello di Borges.
Umberto Eco rappresenta in pieno la dannosità di tutto ciò che è italiano nei confronti della cultura internazionale. Grazie ai suoi libri, Umberto Eco ha potuto diffondere a livello mondiale quella furbizia, quel servilismo, quella cialtroneria che hanno sempre contraddistinto ciò che è italiano. Ha potuto trasformare nequizie “nazionali” in qualcosa in cui tutto il mondo ha potuto riconoscersi come segno dei tempi della globalizzazione. È la stessa cosa che Nietzsche riconosceva nei confronti di ciò che è ebraico. E quella stessa cosa non stupisce poi più di tanto: ciò che puzza può puzzare in mille modi differenti, ma al naso darà sempre fastidio.
Umberto Eco “spirito libero”? Un italiano è servile anche quando non è servile, così come è ladro anche quando non ruba.
Categoria: Ideologia
Il più grande pericolo
Il più grande pericolo per l’Europa è attualmente rappresentato dall’islamismo, che cerca in tutti i modi di distruggere la natura dell’Europa. Ma questo pericolo, che attualmente è il più grande pericolo per l’Europa, ha una origine ben precisa. Esso nasce all’interno della razza semita, perché l’islamismo, come l’ebraismo e il cristianesimo, è una forma religiosa che ha la sua origine all’interno della razza semita. Per cui il più grande pericolo per l’Europa è attualmente rappresentato dalla razza semita e l’unica difesa cui l’Europa possa ricorrere è un autentico antisemitismo. L’antisemitismo è il valore che l’Europa non deve dimenticare. Questo è quello che l’Europa deve finalmente comprendere.
Hallvard Birkeland
Solo un nido di parole rende uno scrittore. Ma essere scrittore è ripiegarsi su uno snodo di parole. Infatti ciò che si snoda insegna sempre più a fare a meno del soggetto. Lo scrittore diventa così descrittore di tempi. Ho cominciato a sapere di Hallvard negli anni Novanta. Tempi ancora piovosi. Alla Ølhallen ho imparato a riconoscerlo. Arrivava con uno zainetto. Erano i pomeriggi in cui si manifestava quello che per me, per diversi anni, sarebbe stato ancora il dono della tarda estate artica. Ma dal 1983 la chiamavo così. Con il duemila cambierà. A volte lo vedevo già seduto al suo tavolino. L’unico tavolino in quella sala della birra per due persone. Preferivo il posto in fondo, quello a lato del segno Utferd (“Fortuna”). Sul suo sgabello Hallvard scriveva in un taccuino con la copertina nera, appoggiato al muro davanti alle finestrelle scure sotto la Storgate. Prendere appunti è tutto quello che deve fare uno scrittore. Da quelle finestre veniva la luce d’autunno. Qualche volta mi ha chiesto il giornale, quando nelle rastrelliere a muro nessuna copia era più disponibile dietro i due orsi imbalsamati. Forse allora non c’erano ancora. Sagome che si vedono ancora adesso. Cose per turisti. Per gente di passaggio. Il giornale si chiamava “Bladet Tromsø”. Ora si chiama “iTromsø”. Da allora, quando mi sono trovato ad occupare quel tavolino, l’ho sempre segnalato come “Il posto di Hallvard”. Poi nel tempo ho imparato a maneggiarlo. Entrando, e trovandolo vuoto, l’ho sempre strisciato lentamente sul pavimento, attento a non fare troppo rumore, ma in modo da ottenere lo spazio per il bagaglio che sistemavo contro l’angolo del muro, prendendo poi un sedile dai posti vicini, se lì non c’era o se solo volevo cambiarlo. Ormai mi muovevo con la disinvoltura di chi ormai quel luogo lo conosce. Il colore del legno del tavolino era perfettamente intonato a quello del soffitto, delle pareti e del pavimento. A volte mi è capitato di vederlo passare dopo essere entrato, dare un’occhiata e riconoscere il posto occupato da me. Indossava un maglione chiaro. Uno scrittore è qualcosa che serpeggia appena, furtivo in un tempo e in uno spazio contato, raccolto in un gomitolo tutto suo di parole mai svolto fino in fondo. Per questo lo scrittorte è la cosa più facile del mondo da schiacciare. Ma scrittore è colui che è chiamato a rendere conto intorno a un posto nel mondo. Questo perché scrittore è colui che, a differenza di tutti i suoi simili, riesce a fare a meno delle parole in quanto strumenti per comunicare, al fine di spedirle in spazi di bellezza impensati. Così mi sono reso conto che quello è il posto giusto per uno scrittore. Poi in inverno ho imparato a vederlo al venerdì prima della Quarta Domenica d’Avvento, quando il locale risuona pieno zeppo per l’apertura delle feste del Solstizio d’Inverno. Occupava uno spazietto in piedi, col bicchiere di birra appoggiato davanti. Ormai la città era cambiata. Laurizt non c’era più da tempo (l’ultima volta che l’ho visto era nel luglio 2006). Unni ho continuato a vederla sia alla Ølhallen che alla Jernbanestasjon. Una volta mi ha riconosciuto di colpo, al banco della Ølhallen, era in fila come me per pagare. Ordinava le birre come gli altri clienti. Odd Andersen l’ho visto e sentito l’ultima volta nelle feste del solstizio d’inverno 2014. Prima di vederlo, l’ho sempre sentito. Occupavamo due spazi diversi. Il suo ritratto lo fotografavo già da tempo. Adesso sembra che Goffy venga solo tra le 13 e le 14. Una volta Goffy mi ha detto: «Författaren är här!». Mi aveva visto sfogliare la copia di Hotel du Nord. Con il suo soffitto a volta, i mattoni della Ølhallen sono sempre stati un locale caldo e accogliente, tanto in estate quanto in inverno. La terra crea il suo abitante, ma con attenzione lo chiama da lontano. Quando forte è il pericolo. Le prime volte che frequentavo la Ølhallen i sedili non erano imbottiti. Poi ho visto fare la piccola pedana a sinistra dell’Utferd. Dalle finestrelle vedevo in estate l’autunno che mi avrebbe aspettato. Non ho mai amato la terra dove poi lo avrei visto arrivare strisciando. Amare e odiare è solo spegnersi a fianco di persone delle quali si sa a malapena un nome. Il calo di presenze lo si riconosceva nel modo in cui ci si muoveva disinvolti nei bagni. Dopo un po’ hanno messo i rubinetti con la cellula. Mi è capitato di farne vedere il funzionamento. Goffy occupava lo spazio in fondo, davanti al computer portatile. Su YouTube ho visto i voli dei modellini cadere a spirale in quei grandi cieli del Nord. Si riconoscevano sempre le forme dei monti. Forme dove i monti chiamano il mare, ma con un volo livido e freddo, come livido e freddo è il mare, quando livido e freddo è il dono di un ultimo dio appena prima del risveglio.
Le voci dei morti
I morti da poco tempo hanno nei sogni uno speciale pallore di morte, che li rivela in modo particolare. Non parlano, stanno in disparte, fanno finta di niente. Non potendo fare a meno di ignorarli, li si tratta come persone appena tornate da un viaggio. Ma se, facendo finta di niente, li si osserva un poco, si scopre che qualcosa li ha resi diversi: sono più piccoli, più discreti, non vogliono attirare l’attenzione con il loro improvviso ritorno. Sempre sbirciandoli di nascosto, appunto per non inquietarli, non si può non fare l’errore di pensare che – di nuovo – non rimanga loro più tanto da vivere.
I morti sono come la voce di una razza appena dimenticata, della quale essi non hanno mai fatto parte; che però, in un soffio, vogliono dire a chi è sopravvissuto “vai avanti così”. Hanno lo sguardo passato di ciò che è postumo, ma con tenacia aspettano chi pure incitano ad andare avanti.
Descrizione degli Italiani
La migliore descrizione dell’Italiano è contenuta nel Mein Kampf. L’Italiano è l’Ebreo descritto nel Mein Kampf.