Stefano Ercolino, Il romanzo massimalista

Il romanzo massimalista ha mantenuto personaggi e intreccio del romanzo tradizionale, limitandosi a metterli in gioco in un modo che si può identificare solamente a livello di forma appena diversa. Ma adesso bisogna cominciare a pensare un romanzo al di fuori di personaggi ed intreccio, che sono i due vecchi inciampi, che meno hanno a che fare con il romanzo in quanto arte della narrazione, cioè ciò che, adesso, noi qui giunti, possiamo identificare come ciò che ha sempre riguardato la superficie dell’arte della narrazione. Il romanzo più nuovo, che fa intravvedere l’altro tipo di romanzo, è Finnegans Wake di Joyce (Giacomo). Al di fuori non c’è che il tema dell’umanesimo moribondo, che questo libro, dedicato alla forma del romanzo massimalista, perfettamente sembra determinare.

Ma più che cercare un romanzo moderno che descriva esaustivamente l’uomo moderno, bisogna cominciare a cercare un romanzo che cominci a fare a meno dell’uomo, e quindi a fare a meno tanto del personaggio quanto dell’intreccio – che è come dire dell’umanesimo.

Per quanto riguarda il realismo, il problema è nella fede che si pone nella parola: se la parola viene posta dall’autore come ciò che designa, inequivocabilmente, quell’oggetto impreciso, che egli ha scelto, allora il realismo è qualcosa che è facile evocare; se, invece, la parola è solo l’artificio che designa quello che potrebbe essere definito anche in tutt’altro modo, allora la parola non ha più lo statuto che deteneva prima – perché quello che la parola definisce è solo il taglio arbitrario in un continuo, e questo ci porta alla differenza tra la cosa e la Cosa, inizialmente considerata da Heidegger, mediata dalla “cosa” come þing, che è la variabile etimologica, adesso, da considerare, via Nietzsche. Abbiamo così il mito ed il pericolo, letteratura di consumo e paesaggio nascosto; letteratura e sguardo sul paesaggio: la parola è adesso un tientibene che corre stretto attorno ad un punto di salvataggio in tempo di naufragio per poveracci sospesi da una tempesta in alto mare estraneo – la lingua è un pericolo in diffusione sulla terra. La letteratura di consumo è dalla parte della parola; la letteratura è sempre la possibilità del salto nel pericolo del mito come linguaggio. Una volta, i romanzi del piccolo Simenon (Giorgio, se non mi sbaglio) e di altri piccoli autori tremanti quanto brillanti erano venduti sulle bancarelle delle stazioncine dove allegri trenini sbuffanti erano sempre pronti a portare da una particina all’altra di un altrettanto piccolo piccolo territorio, e garantivano un tempo sereno contro la monotonia del paesaggio, che così poteva scorrere, non visto, dal passeggero, al di là del piccolo finestrino del suo vagoncino; la letteratura permette di vedere il paesaggio attraverso lo schermo del finestrino, ma componendo sullo schermo la domanda più pericolosa: “È, l’uomo, adesso, in grado di diventare il padrone del mondo?” È la magia del paesaggio a chiamare l’uomo, se l’uomo è in grado di rispondere.

Che cosa si intende per eccesso? Parola e lingua funzionano come individuo e razza. Ciò che determina la Letteratura è ciò che permette il salto dalla parola alla lingua – ma ciò che fa lo scrittore della “letteratura” è ciò che permette allo scrittore di usare le parole che tutti usano per lo scambio del giorno come scambio quotidiano, per lo più a livello di passatempo. Ma anche questo è solo legato al tempo. Pensare al romanzo I falsari (1925) di André Gide: il romanzo presenta il falso come attività di falsari all’opera, ed esibisce in quanto moneta falsa maneggiata da un personaggio del romanzo, ma non agisce come ciò che il falso ha fatto in modo di determinare la forma-romanzo. Tuttavia I falsari di Gide mette in scena la possibilità di un romanzo diverso, senza presentarsi, infatti, come la realizzazione di quella estrema possibilità, perché il romanzo di Gide mette solo in scena la possibilità di un romanzo del genere, in quanto forma a venire.

Il romanzo massimalista è un romanzo che crede/cede nella sacralità di ciò che esiste. Questa sacralità viene intesa come ossessiva orizzontalità da percorrere estensivamente, almeno a livello di interpretazione grazie alla prerogativa della prolissità. Tuttavia il romanzo massimalista non pensa mai il tempo relativo ad una selezione. Ma infatti il problema è adesso il frammento, che deve diventare aforisma –, da frammento del romanzo massimalista, all’aforisma nietzscheano. Lo scherzo infinito non deve evocare il gioco smilzo sulla tomba di Yorik poveretto buffone che fa fatto il suo tempo, quanto, attraverso il richiamo della conferenza di Heidegger, secondo la quale nei campi di sterminio nazisti giustamente non è mai morto nessuno, perché solo tante cose inutili sono state annullate, cioè cancellate, e da lì determinare il nuovo sguardo sovra il mondo, che è ciò che, solamente, può determinare la nuova epica in quanto ciò che ha diritto, in quanto sguardo riportato, di stabilire a chi spetti il diritto di vivere e chi deve invece essere cancellato – ma per questo ci vuole la nuova arte del romanzo, che non deve riguardare il dire della parola degli individui, che è il riciclaggio del vecchio personaggio del romanzo, ma la lingua della razza, che è ciò che il romanzo non può affrontare perché non è fatto per affrontare, cioè la nuova forma, che noi non conosciamo, però alla quale siamo destinati. Il romanzo massimalista è una forma imprecisa, che proprio a partire dalla sua imprecisione deve essere considerata.

Stefano Ercolino, Il romanzo massimalista, Bompiani, Milano 2015

Albert Camus, Lo straniero

Tema: Lo spazio

Possiamo dire di conoscere la letteratura moderna nel luogo in cui ci troviamo a stare? La letteratura moderna, nella forma dei suoi classici, deve portare a pensare quello che, dentro la spicciola forma della letteratura moderna, si fatica a riconoscere come movimenti all’interno di uno spazio appena composto per quella nuova forma di letteratura, che è la letteratura moderna, perché la letteratura moderna soggiace a un tipo di oscuramento dello spazio del tutto moderno e del tutto letterario, che noi, adesso, non siamo più in grado di riconoscere in quanto tale, cioè in quanto oscuramento, ma che una lettura attenta relativa agli spazi messi in gioco da quella letteratura può aiutarci a cominciare a riconoscere. Così può essere utile rileggere Lo straniero di Albert Camus, partendo da questo punto di vista: il teatro, in quanto forma venuta da fuori, è la forma che può permettere di impostare questo discorso, visto che questo testo, per quanto in forma di romanzo, comporta comunque quel qualcosa giunto da fuori, anche per la sua ambientazione (l’Africa di Algeri); lo spazio in cui il personaggio protagonista di questo romanzo, frutto di quello spazietto dove il protagonista si trova a muoversi – indicativamente sul suo stretto balcone.

Di che cosa viene accusato Meursault, il protagonista del romanzo Lo straniero di Albert Camus, nel processo che lo vede accusato per la morte di un arabo? Di due cose: estraneità nei confronti della morte della madre (egli non ha voluto vedere il corpo chiuso nella bara, chiedendo che la bara rimanesse sempre chiusa durante la veglia funebre; non ha dimostrato dolore durante tale veglia ed è partito subito dopo la tumulazione, senza nemmeno fermarsi a pregare un poco sulla tomba), alla quale si contrappone l’attiva partecipazione nella morte dell’arabo, che lo ha portato a esplodere altri quattro colpi di pistola dopo che il primo era già servito a rendere inoffensivo l’arabo, se non ad ucciderlo, quindi ad esplodere almeno altri quattro colpi su quella cosa che ormai era solo la carcassa di un arabo su una spiaggia d’Africa.

Il protagonista del romanzo La nausea di Sartre si mischia con la folla di Bouville (la prima “Domenica” del diario) e poi nel museo (il secondo “Sabato” del diario), quando si mischia con i ritratti dei grandi uomini di Bouville. In mezzo a questo suo andare e mescolarsi c’è il rapporto con l’Autodidatta, l’omosessuale che non ha diritto a uno statuto ufficiale, perché l’unico statuto che può ottenere è quello, non ufficiale, che porta al disprezzo generale. Il protagonista de Lo straniero vede la domenica come giorno di festa celebrato nel quartiere dall’alto del suo balcone, dove si siede per passare il tempo nella giornata in cui non ha nulla da fare. Quando il protagonista del romanzo La nausea solleva il corso, impedendogli di picchiare ulteriormente l’Autodidatta, ma senza picchiarlo a sua volta, non sa spiegare il motivo per cui lo abbia poi lasciato andare, così come Meursault non sa spiegare il motivo per cui abbia infine sparato all’arabo. Il corso del romanzo La nausea ripete qualcosa del personaggio che, nel romanzo Lo straniero, occupa la posizione dell’arabo, cioè un francese a metà. È possibile parlare, sulla scorta di Conrad, di «fantastic invasion»? Entrambi i romanzi hanno a che fare con l’Altro: il protagonista della Nausea ha a che fare con i borghesi di Bouville, e il suo strano altro nascosto, che è l’Autodidatta, l’omosessuale, il protagonista de Lo straniero ha a che fare con gli altri nascosti, gli arabi, che stanno su quel lembo di luogo d’Africa dove i francesi sembrano farla da padroni.

Ma entrambi i romanzi hanno a che fare con altri romanzi, che invece chiamano – nel tempo – la rivolta degli schiavi, come ad esempio continua a fare il romanzo Benito Cereno di Melville.

Estraneità verso gli oggetti del mondo. Anche il corpo della madre era un oggetto del mondo, tra i tanti oggetti del mondo. Il mondo è solo l’insieme degli oggetti del mondo.

Se l’estraneità consiste nel non vedere il nemico di razza, allora per che cosa è condannato il protagonista del romanzo Lo straniero?, per non avere rispettato il suo ruolo di spettatore all’interno di quello che doveva essere solo uno spettacolo. In che cosa consisteva, o avrebbe dovuto consistere questo suo ruolo? Nel rimanere seduto mentre lo spettacolo aveva luogo sul palco davanti a lui. Il fatto di “avere luogo” non comporta la presa di un luogo (di una terra). Quando M è rimasto seduto ha comunque impedito lo svolgimento dello spettacolo per gli altri intervenuti alla cerimonia, avendo egli chiesto di non aprire la bara. La bara aperta, cioè l’esibizione del cadavere, avrebbe rappresentato lo spettacolo per coloro che erano lì intervenuti, che si sarebbe spalancato come si spalanca lo spettacolo quando si alza il sipario. Ma M ha chiesto di non alzare il sipario, cioè di non scoperchiare la bara. Perché M sembra così indifferente alla morte della madre? Perché è così indifferente quando uccide l’arabo? Se c’è astio nei confronti della madre, questo può essere visto nell’averlo fatto nascere in quel limbo di terra infuocata; se c’è indifferenza verso l’arabo che uccide, questo riguarda quel lembo di terra in cui si trova a stare, e di cui egli non è responsabile.

Come spettatore ai funerali della madre, il suo ruolo veniva accettato; nel momento in cui ha ucciso l’arabo, egli è stato accusato di aver prevaricato il suo ruolo, che, da spettatore quale era, e che al funerale della madre egli aveva rispettato, lo ha condotto ad un ruolo completatamene diverso, non più di semplice spettatore, ma di “attore” fra spettatori che avevano il ruolo di “spettatori”. In quanto “attore” fra attori egli ha prevaricato il proprio ruolo, che era di semplice spettatore fra attori. È questo che ha determinato la sua condanna a morte per decapitazione: egli si è staccato dal suo ruolo, quindi la sua testa deve essere staccata, per pareggiare, con un rispetto alla legge, ciò che ha segnato il non rispetto della legge. Meursault è accusato di non aver rispettato il suo ruolo di spettatore, da cosa arriva questa accusa? dal fatto di aver ucciso l’arabo, passando dal ruolo di spettatore, a lui confacente, a quello di attore, per lui non previsto.

Ma perché il suo ruolo era di semplice spettatore? Che cosa lega il rifiuto del rispetto della salma della madre alla indifferenza dimostrata nell’uccisione l’arabo? Nient’altro che che la «fantastic invasion», che il processo che occupa la seconda parte del romanzo Lo straniero sembra non tenere in nessun conto.

Lo straniero è diviso in due parti, che riguardano: prima dell’uccisione dell’arabo e dopo l’uccisione dell’arabo. Il processo stabilisce la sua colpa. In che cosa consiste questa colpa? Nel non aver rispettato il proprio ruolo, che era quello di estraneità, cioè di straniero. Nel momento in cui egli era seduto (a livello della bara della madre, a livello del balcone di casa sopra le persone che si muovevano in quel quartiere occupato, come sembra, solo da francesi), egli rispettava il suo ruolo di straniero a quanto avveniva davanti o poco sotto di lui; nel momento in cui è intervenuto, alzandosi in piedi e abbandonando la sedia/poltrona di teatro, egli ha potuto compiere il delitto: da spettatore è diventato attore, cioè ha ucciso l’arabo, la cosa che quello spettacolo, però, voleva nascondere. In quel momento egli non era più “straniero”, ma era “partecipe”, che non comporta il non essere più “straniero”.

È importante il fatto del pianerottolo, cioè i suoi due vicini di pianerottolo, che scatenano l’azione elementare di alzarsi dalla poltrona. I rapporti di M con i due vicini di pianerottolo sono improntati inizialmente alla forma dello “spettacolo da contemplare”, nel senso che M sta a sentire quello che ciascuno dei due gli racconta senza intervenire di sua propria iniziativa (M scrive la lettera per conto di Salamano ma solo su precisa richiesta di quello). Nel caso dell’arabo, M agisce invece di propria iniziativa, ammazzandolo.

Chi sono i suoi due vicini di pianerottolo? Salamano, che vive con un cane che picchia con grande facilità e che infine gli scappa sperdendosi per le strade, e Raymond Sintès, che sembra vivere facendo prostituire le donne con le quali stabilisce una relazione affettiva solo per il proprio interesse. La sorte di Salamano è causa, da parte di M, di una leggera empatia per quanto riguarda il cane, mentre la sorte dell’altro vicino di pianerottolo lo coinvolge fino al punto di uccidere l’arabo fratello della ragazza picchiata dal francese.

Così noi ci possiamo chiedere: che cosa lega, su quello stesso pianerottolo, il cane e l’arabo, che sono le due forme autoctone di quel luogo, dove la Francia ha realizzato una propria fantastic invasion?

La situazione è già chiara all’inizio: lo spettatore rispetta il suo ruolo di spettatore, ma interviene, in un primo tempo, per evitare agli altri l’oggetto dello spettacolo, cioè lo scoperchiamento della bara; successivamente, egli commette un’altra e ben più grave infrazione al proprio ruolo di semplice spettatore, quando interviene come attore nella lite tra l’arabo e il francese, suo vicino di pianerottolo, che egli conosceva appena, uccidendo l’arabo e infierendo sulla sua carcassa.

Forma concisa: M poteva offrire il pieno spettacolo scoperchiando la bara, ma non ha voluto farlo, legandosi a una forma ridotta di spettacolo, nella quale egli è rimasto compostamente seduto, come un qualunque altro spettatore. Quando poi è stato coinvolto nella lite con l’arabo, M ha comportato la violazione di spazio, cioè la vera invasione di campo, saltando – per così dire – dalla platea al palcoscenico e facendo secco l’arabo.

Questo romanzo si svolge compostamente tra due carcasse: la carcassa chiusa nella bara su cui il protagonista non vuole alzare il sipario per il tempo che lo riguarda, e la carcassa dell’arabo su cui il protagonista in modo automatico infierisce quando non avrebbe dovuto in alcun modo intervenire.

Se il tema è lo spazio, bisogna indicare che cosa occupa questo spazio in cui il romanzo, che leggiamo, trova la sua temibile sostituzione. Il romanzo è ambientato in Algeria, dove, leggendolo, sembra che scarso peso abbiano gli arabi, mentre peso rilevante sembra abbiano i francesi, che in quel luogo hanno effettuato la fantastic invasion (?). Il processo a cui viene sottoposto M non considera la fantastic invasion, ma considera gli spostamenti di M in quei luoghi dove egli, a causa dell’essere nato da quella donna, si era trovato poi a restare, nonostante la proposta di trasferirsi a Parigi (I/5). Appunto malgrado ciò M ha a che fare con un arabo, e questo arabo sarà per lui ciò che lo farà passare dal ruolo di spettatore al ruolo di “attore”.

Il fatto di avere indicato il termine attore tra virgolette richiama il fatto che il teatro, con tutto ciò che lo riguarda, è cosa che viene da fuori, così come M, in quanto protagonista del romanzo Lo straniero, lo si è visto, in un primo tempo, spettatore di uno spettacolo teatrale che egli ha in qualche modo negato, e poi lo so si è visto ripudiare il ruolo di spettatore entrando in scena, fino ad uccidere trionfalmente l’arabo. M è così lo straniero in quanto spettatore del teatro, quando il teatro è ciò che è il vero straniero, ma nel momento in cui i francesi sono stranieri in Algeria, luogo nel quale, tuttavia, essi sembrano comportarsi, se non da padroni, almeno da spettatori irriverenti, invadendo il palcoscenico e modificando il ruolo delle forze, ma tenendo ferme le regole del teatro, che è ciò che, comunque, viene da fuori – loro malgrado. Per cui l’invasione di spazio va punita. Che cosa comporta l’uccisione dell’arabo da parte di M? L’arabo era solo una cosa senza importanza, ma per la giustizia vigente allora, in quel luogo, portata dalla Francia in Algeria, la vita di un arabo è una cosa che importa, per cui M viene condannato a morte.

Ma la condanna a morte di M non equivale alla condanna a morte del negro Babo nel romanzo Benito Cereno, di questo ce ne rendiamo subito conto noi, lettori dei due romanzi. La questione che si pone è la questione della relazione tra il tempo e lo spazio, per cui dobbiamo porci la domanda: conosciamo la relazione che c’è tra un meticcio e lo spazio?, ma anche tra la questione delle carcasse di questi meticci di cui i due romanzi trattano: la carcassa del negro Babo, di cui tratta il romanzo Benito Cereno, ma anche la carcassa della madre di M, che ha fatto nascere il figlio in Algeria, poi la carcassa dell’arabo e infine la carcassa di M stesso, protagonista del romanzo Lo straniero, dopo che egli è stato condannato a morte per l’uccisione di un arabo.

Il punto da cui affrontare Lo straniero è la «fantastic invasion» chiamata in gioco da Conrad a proposito del suo romanzo Heart of Darkness. Che cosa comporta leggere Lo straniero a partire da quella definizione che richiama una “strana/bizzarra invasione”? Di applicare il principio del teatro, che impone di stare seduti per seguire/eseguire uno spettacolo che presenta il mistero di una fantastic invasion come spettacolo solo da guardare, mentre il protagonista del romanzo, a un certo punto, salta sul palco e modifica di suo punto lo spettacolo, poiché la definizione fantastic invasion, applicata a quello spettacolo, è ciò che non lo convince, muovendosi egli in una terra che non lo ha mai convinto. In realtà non si era mai parlato di una invasione, ma il protagonista si comporta come se dovesse ristabilire un diritto su una terra, quando nessuna invasione aveva stabilito un diritto su quella terra, che nemmeno doveva essere una terra, ma solo un palco giochi. Sappiamo che questo personaggio/spettatore si era già fatto notare come spettatore irriguardoso al mondo del teatro nel momento della veglia della madre, quando aveva chiesto di non aprire la bara, aveva cioè impedito lo svolgimento regolare dello spettacolo, consistente, da parte degli intervenuti alla cerimonia, nella contemplazione del cadavere. Il teatro è qualcosa che viene da fuori. La «fantastic invasion» non è una invasione a tutti gli effetti, ma è qualcosa che non richiede interventi da chi deve stare seduto in platea, davanti allo spettacolo garantito dal momento dell’apertura del sipario, a cui si deve solo assistere e lasciare assistere. L’Algeria del romanzo Lo straniero è un luogo che si presenta come un loco ad uso dei francesi, posto che i francesi la osservino come da un posto a teatro, che equivale ad un posto su una sedia sulla quale si deve stare. Quando infine il protagonista viene condannato alla pena capitale tramite ghigliottina, questo è ciò che fa sì che noi dobbiamo porci la domanda: Conosciamo il meticcio (domanda che riguarda anche il meticcio italiano) a partire dalla sua carcassa – come ad esempio succede nel romanzo Benito Cereno a proposito della carcassa del negro Babo? Questa è la domanda da PORCI, cioè la domanda che noi, porci in quanto lettori, porre alfine ci dobbiamo. Vale a dire che è la domanda attraverso la quale dobbiamo impostare la questione dello spazio. Un romanzo si colloca in uno spazio, ma lo spazio è, in questo caso, lo spazio che non fa riferimento allo spazio dove quel romanzo viene letto, perché quello spazio non fa mai riferimento ad una terra che è stata presa e che quindi non può chiamare il tempo per una rilettura. Il meticcio è solo ciò che occupa la terra, oggetto o no di una attenta tutela giuridica; quando il meticcio muore, si deve invece pensare allo smaltimento della carcassa che è solo ingombro – questo perché il teatro è ciò che viene da fuori e la carcassa del meticcio (meticcio italiano prima di tutto) è ciò che pesa sulla terra come l’ingombro da smaltire.

Che cosa è l’arabo ucciso? Questo pone la questione dello spazio tra platea e palcoscenico. Poiché il protagonista, per uccidere l’arabo, deve saltare dalla platea, dove aveva il suo posto, al palcoscenico. L’arabo è tutto, in questo romanzo, fuorché una cosa intesa come una riunione di più cose. L’arabo è infatti la cosa che non è una cosa, che è ciò che ha voluto la Francia, addossandosi il compito di quella penosa riproposizione della fantastic invasion. In questo romanzo una assolata indifferenza prende il luogo di ciò che avrebbe dovuto accompagnarla: la grande ondata di disprezzo, ma che invece non si presenta. Il breve romanzo di Conrad dimostra il grande disprezzo verso i negri nell’appunto, feroce e indifferente, lasciato quasi per caso da Kurtz, che suona da allora come l’allarme immortale per tutti gli abitanti della terra: «Exterminate all the brutes». Niente di tutto questo avviene nello Straniero. Vediamo infatti il protagonista seduto davanti alla bara della madre, tenuta chiusa per sua volontà, durante la veglia funebre; vediamo poi lo stesso personaggio alzarsi dalla sua “poltrona di teatro” (= terra d’Algeria) e uccidere un arabo con la stessa indifferenza del passo compiuto che dalla poltrona lo porta al palco. Eppure l’indifferenza è una cosa che giunge da lontano col suo barchino sbilenco, in quella spiaggetta assolata, che non era una terra, ma era appena una cosa che non era una cosa, una terra mai stata presa, un luogo dove gli è capitato di trovarsi e stare e anche decidere di stare.

Tanto nel tempo quanto nello spazio, si ha a che fare con carcasse da sistemare da una qualche parte, questo è ciò che riguarda la carcassa del negro Babo, la carcassa della madre del protagonista che lo ha fatto nascere in Africa, infine la carcassa che questo protagonista lascerà dietro di sé; la carcassa è quello che, ciò che non è mai nato, lascia ad un certo punto dietro di sé, una volta che non è più in vita, come peso solo da smaltire – ricordate quello che diceva Heidegger riguardo alle cose annullate nei vari campi di sterminio nazisti? – come traccia di una falsa insegna che lo ha illuso di essere in vita, come qualcosa da seguire, nel luogo qualunque dove per caso si è trovato a nascere, ma luogo che mai lo ha chiamato, perché la terra è proprio la cosa che non chiama mai il meticcio come suo abitante, e in questo Meursault si conferma, giustamente, “straniero”.

Albert Camus, Lo straniero, traduzione di Sergio Claudio Perroni, Bompiani, Milano 2017

Jean-Paul Sartre, La nausea, traduzione di Bruno Fonzi, Mondadori, Milano 2014

Herman Melville, Benito Cereno

Tema: Il tempo

La letteratura del passato, nella forma dei classici della letteratura giunti a noi, deve portare a pensare quello che, dentro la spicciola forma della letteratura moderna, non è più possibile – ormai – portare a pensare; per cui la letteratura moderna soggiace a un tipo di censura tutta moderna quanto tutta letteraria, che noi ancora non siamo in grado di riconoscere in quanto tale, cioè in quanto censura che giunge a noi, ma che una lettura attenta dei classici della letteratura può aiutarci a riconoscere. Così può essere utile rileggere Benito Cereno di Herman Melville partendo da questo punto di vista.

Cominciando a leggere questo testo, vediamo che il protagonista, il capitano nordamericano Amasa Delano, entra nella strana nave alla quale, molto lentamente, a causa della accalmia, si era faticosamente avvicinato a bordo di una scialuppa calata, appositamente per l’occasione, dalla sua nave. La lentezza dell’avvicinamento, complice appunto l’accalmia, gli permette di notare alcune cose relativa alla nave, che riguardano l’apparente trascuratezza, che sembra avvolgere tutta quella nave, in una nuvola di apparente trascuratezza, nel momento in cui egli sa che, in quel tempo e in quel luogo, quella nave è la sua meta finale del tragitto.

Ma quando poi gli è dato salire a bordo, è portato a notare l’inefficacia del comando, rappresentato dal giovane capitano, lo spagnolo Benito Cereno, e la promiscuità di bianchi e neri, in quella nave dominante, che sembra permettere ai neri di aggredire, sempre impunemente, i bianchi, senza che il capitano BC si ritenga in diritto di intervenire.

Solo in un secondo momento, il capitano AD, ragionando su quella situazione, di propria iniziativa, viene portato a temere per la propria vita, pensando che, l’averlo attirato lì, da parte della messa in scena, che quella nave potrebbe avere rappresentato, non sia altro che una mossa per permettere la presa della sua nave da parte di quella ciurma, che sembra costituire la vera natura della nave San Dominick e che l’assenza di quello che potrebbe essere il vero capitano Benito Cereno nasconda in realtà solo la presenza di un pirata che si è avvalso del nome del defunto capitano Benito Cereno per scopi infausti.

Il capitano AD si accorge di qualcosa che non quadra nel racconto che il capitano BC gli ha fatto fino a quel punto, ma in che cosa consiste, questa parte – del racconto – che non quadra? Anche noi, leggendo Benito Cereno, ci accorgiamo, giunti a quel punto, che qualcosa non quadra, perché nel racconto ci sono incongruenze – che suonano incongruenze nell’uso del tempo da parte del capitano BC, ma incongruenze nel racconto da parte dell’autore Herman Melville. Di che cosa non si accorge, il capitano Amasa Delano – dal punto di vista di noi, lettori del ventunesimo secolo, che, leggendolo, lo osserviamo, nei confronti di questo testo scritto nella metà del diciannovesimo secolo? Il racconto che noi abbiamo letto è, fino a questo punto, confuso, mentre raggiunge la forma definitiva solo con la testimonianza del capitano BC, quando la questione della rivolta degli schiavi è parte definitiva del racconto, pensata comunque in quel modo, cioè a partire da quella cesura, che doveva portare alla censura in quanto cosa da censurare ancora, adesso, più di un secolo dopo. Notiamo che questo testo non è diviso in capitoli: il racconto Benito Cereno racconta la possibilità di un racconto presentato secondo la disposizione in due parti, che pure non affronta, una prima parte confusa e inadeguata, perché affidata a un modo di apparire delle cose a partire da ciò che la nave presenta quando il capitano di un’altra nave sale a bordo, perché quella nave nasconde qualcosa; una seconda parte adeguata per completare il racconto vero e proprio, perché riguarda il significato di ciò che la prima parte del racconto era stata composta per tenere nascosta. Che cosa determina questa disposizione del materiale del racconto? È logico che il racconto vero e proprio vive solo in quanto svelamento di ciò che la prima parte del racconto era teso a nascondere, ma questo è proprio ciò che viene lasciato ad altri, più completi, disvelamenti che devono avvenire lungo il tempo.

Così il racconto Benito Cereno si presenta in questa doppia forma: 1) un racconto incompleto, con molte parti non risolte. 2) Un racconto che, di colpo, spiega tutto, quando coincide con la deposizione del capitano BC in qualità di testimone, e non più di falso interlocutore con l’ospite capitano Delano.

Il racconto BC ruota intorno ad una cesura, che ha la funzione, in un primo tempo, di nascondere ciò che è successo, pena la vita, a quelle persone su quella nave, e di spiegare, in un secondo tempo, quanto accaduto, dispiegando così le parti che allora sembravano essere oscure. Questa parte del racconto è ciò che la letteratura moderna non tollera come parte di un racconto da consegnare alla letteratura. La cesura funzionava come cosa da non dire da un personaggio all’altro, cioè il capitano Benito Cereno non doveva far sapere al capitano Amasa Delano, suo omologo e occasionale ospite, quanto su quella nave era accaduto, cioè la rivolta degli schiavi negri che quella nave stava tranquillamente trasportando; ma la cesura funziona adesso come ciò che non deve essere detto al lettore, che è l’ospite che viene accolto grazie all’accalmia del tempo disponibile alla libera circolazione di tutti i testi del mondo, che è sempre la stessa cosa, per quanto riguarda il contenuto, cioè la rivolta degli schiavi, perché la rivolta degli schiavi è proprio ciò che deve essere incoraggiata, o almeno tollerata, in quanto considerata assolutamente legittima – e il lettore accolto allora come l’ospite della nave straniera deve essere predisposto a tollerare quella rivolta in quanto legittima da parte dei negri presenti su quella nave, in quanto i negri hanno diritto a vivere, cioè da parte della comunità nera, che è la stessa cosa che deve essere parte del racconto, mentre il negro è proprio la cosa che deve essere nascosta, perché ciò che il racconto è portato a dimostrare è invece l’Incontro con la Cosa. Il racconto funziona così su due modalità precise, perché si basa sul tempo attraverso cui il racconto è letto: il tema della rivolta degli schiavi, il tema della Rivolta degli schiavi.

Ciò che costituisce la rivolta è sempre la rivolta degli schiavi. Ma che cosa è che costituisce l’epoca moderna in quanto possibilità di leggere in un modo del tutto diverso, ciò che ha definito il nuovo tempo a partire dal tema della rivolta degli schiavi?

Qual è la cosa che costituisce, adesso, la cesura, e che porta infine e adesso alla censura? È il riconoscimento della rivolta degli schiavi, che è avvenuta e che ha preso il controllo, imponendo il proprio modo di pensare, non più soggetto al controllo del negro Babo. Per cui abbiamo “Cesura Censura”.

Questa situazione è rappresentata dal personaggio del negro Atufal, nello stesso modo che il negro Atufal dimostra l’inutilità dello spettacolo, pure rappresentandolo con assoluta pignoleria, fino a quel punto. Chi è il negro Atufal? Il negro Atufal, secondo quanto riferisce il negro Babo, è un negro che, nel suo ambiente di negri, fino a quando non è stato prelevato dai bianchi per occuparlo come schiavo, era un capo, e che, adesso, anche in quella situazione aberrante, posta sotto il controllo del negro Babo, può essere definito un “Re”. In che cosa consiste la manifestazione della regalità, da parte di questo “Re negro”, comunque destituito? soltanto nel comparire, come la figura in un meccanismo ad orologeria, davanti al capitano BC, a sua volta formalmente destituito del suo comando, e manifestare la propria volontà di non volere chiedere perdono – a chi comunque, mai, potrebbe concederglielo. Il negro Atufal è un meccanismo a orologeria inventato dal negro Babo, che mette a disposizione del capitano Benito Cereno, in quanto esibizione della sua destituzione come capitano, e in quanto matematizzazione della terra col suo tempo tranquillo che scorre, la pura comparsa della sua imponente presenza già trascorsa. Atufal è la faccia nascosta di Babo, ma è la parte della sua carcassa destinata al silenzio del fuoco, come si vedrà dopo la condanna, contrariamente alla parte di quella stessa carcassa, cioè la testa maligna, la parte della carcassa del negro riconosciuta come la parte che ha macchinato l’inganno, destinata alla esposizione spiccata sopra un bel palo ritto davanti a tutti secondo la logica che parte dalla matematizzazione del mondo della razza bianca, dal negro Babo imitata fino all’estremo. Atufal comporta, in una sola vivente immagine, le due parti della carcassa, destinate a due compiti diversi: distruzione ed esposizione, ma Atufal suona come una presa in giro della sovranità, come solo il meticcio può impostare. Il meticcio negro Babo ha organizzato quella presa in giro della regalità, con la stessa logica con cui il meticcio italiano Giovanni Boccaccio ha organizzato, nell’ultima giornata del suo triste Decameron, la presa in giro della regalità – infatti il meticcio pensa sempre nello stesso modo, si tratti di un negro o di un italiano.

Bene, ma giacché si parla di letteratura italiana, devo dire che non ho mai capito, al di là di tutto questo, l’importanza che gli italiani hanno conferito a quei vecchi graziosi mucchietti di parole che, secondo loro, costituirebbero la “poesia” di quel meticcio italiano che risponde al fantasioso nomiciattolo di Giacomo Leopardi: me lo può spiegare infine qualcuno? Faccio presente che il falso periodo di accalmia è il bonaccione tempo che mi permette di avvicinarmi ai graziosi mucchietti di parole del meticcio italiano Giacomo Leopardi… nel suo fantasioso nome, per sgretolarli (quanto mi dà fastidio, questo bastardo di italiano, con i suoi vecchi mucchietti di parole, è una cosa che non so dire).

Che cosa comporta la rivolta degli schiavi sulla nave San Dominick? Il ribaltamento di tutto il linguaggio e di tutti i rapporti tra gli umani presenti su quella nave; la depressione davanti a una tale situazione, dove le cose non sono più quello che sono sempre state fino ad allora. Il capitano BC è la vittima di questa situazione perché è colui che, in quanto capitano, ne avverte fino in fondo le diverse implicazioni. Anche quando, una volta finito l’incubo, dopo avere testimoniato su quanto accaduto, BC non riacquisterà più la sua salute, perché sa che quanto accaduto è un avvenimento di portata irreversibile, da qui le due posizioni: il mondo non ha memoria del negro (cioè della Rivolta degli schiavi), che è ciò che compete agli umani: Delano a Benito Cereno «“Ma il passato è passato; perché farci sopra la morale? Dimenticatelo! Guardate, il sole che risplende lassù ha dimenticato ogni cosa, e anche l’azzurro mare, e anche il cielo azzurro, hanno voltato pagina.” | “Perché non hanno memoria” rispose l’altro, sconsolatamente; “perché non sono umani.” | “Ma i dolci alisei che ora vi sfiorano le guance non vengono forse a voi come una carezza risanatrice e umana? Amici caldi, amici sicuri sono gli alisei.” | “Con la loro costanza non fanno che spingermi alla tomba, señor” fu la presaga risposta. | “Voi siete salvo,” esclamò capitan Delano, sempre più sorpreso e addolorato “voi siete salvo; che cosa ha gettato su di voi quest’ombra?” | “Il negro.” | Ci fu un silenzio, durante il quale quel tetro uomo seduto raccolse intorno a sé, adagio e macchinalmente, il proprio mantello, quasi fosse un sudario.» (pp. 80-1), il mondo è la memoria di ciò che ha fatto il negro. Il capitano Benito Cereno ha compreso, attraverso quella semplice avventura che lo ha coinvolto, capitano di una nave a ventinove anni, il significato universale della Rivolta degli schiavi. La rivolta degli schiavi, per quanto soppressa, è ciò che lega la memoria dell’abitante della terra alla presenza della cosa che ha promosso quella rivolta che, per quanto vinta, comporterà sempre l’esistenza di un mondo non più piacevole da abitare come prima da parte della razza che ha diritto di abitare la terra – che è quello che Tolkien riconosceva alla fine del Signore degli Anelli dopo la riconquista della Contea da parte degli hobbit; perché la serenità del vivere, dopo la comparsa della razza degenerata, non può più essere la stessa, per chi abita la terra.

Nietzsche ha riconosciuto, nel cristianesimo, la più grande rivolta degli schiavi mai organizzata, e nella sua vittoria finale la prima trasvalutazione di tutti i valori fino ad allora riconosciuti come tali, per cui ciò che era “buono” è potuto, da allora, diventare “malvagio”. Per contrastare un fenomeno del genere, secondo Nietzsche, era necessario l’allevamento di un nuovo tipo umano, in grado di opporsi ad ogni forma di rinascita del cristianesimo e a tutti i suoi perniciosi effetti, primo fra tutti l’uguaglianza di tutti gli esseri umani, la sacralità della vita umana, e poi via di questo passo in tutte le forme di rinascita dei principi del cristianesimo, cosa che porta all’allevamento del superuomo, cioè della forma che porta al di là dell’uomo.

Il negro Atufal è il negro che non si è adattato alla Rivolta degli schiavi, cioè a prendere il potere dopo che la Rivolta degli schiavi ha avuto luogo; il negro Babo è invece il negro che sfrutta il tema della rivolta degli schiavi per i suoi scopi, cioè per gli scopi della sua razza, che i bianchi degenerati gli hanno offerto, nella loro incredibile stupidità. In realtà tutti e due, il negro Atufal e il negro Babo, sono due negri, che sono solo il modo di pensare dei bianchi degenerati, che porta a distinguere una cosa, come il re negro Atufal in catene, come una cosa ben diversa da quell’altra cosa che invece è il negro Babo.

La San Dominick diventa così la rappresentazione del vero mondo moderno, dominato dal politically correct e dal pensiero unico di cui il santo cristiano domenicano, a cui isola e nave sono dedicati, è il triste portatore, cioè dal tristissimo cristianesimo, che ha portato alla trionfale rivolta di Santo Domingo, vale a dire alla rivolta degli schiavi negri capitanati dallo stupido negro Babo silenziosamente tonante.

Perché, adesso, possiamo dire che quello che l’esperienza della nave San Dominick ha rappresentato nel mondo, è l’esistenza dell’arte degenerata, e la conseguenza che l’arte degenerata esiste perché esiste la razza degenerata? cioè la consapevolezza che viene lasciata esistere nel mondo la razza degenerata, quando appare chiaro che, per eliminare la possibilità dell’arte degenerata, è necessario procedere alla assoluta rimozione della razza degenerata dal mondo che la razza bianca abita e che il meticcio invece solamente occupa, senza che questo processo giunga alla formula appena di una domanda?

La sorte toccata alla carcassa del negro Babo è il simbolo del racconto Benito Cereno di Herman Melville nella sua interezza consegnata al tempo, perché i due tronconi in cui la carcassa del negro Babo viene divisa, alla fine del racconto Benito Cereno, ripropone e ripete l’attento meccanismo con cui Herman Melville ha siglato il suo racconto, fino a raggiungere, a partire da lui, in quanto impavido scrittore del XIX secolo, noi, pavidi lettori del XXI secolo, di cui egli non poteva immaginare alcunché, fuorché l’inconveniente per cui, se storia è storia della razza bianca, allora storia della razza bianca è il risultato dell’incontro funesto con il negro, che è ciò che afferma, nella sua sconfinata tristezza, il personaggio Benito Cereno, senza che nessuno possa accogliere il suo vero messaggio che è quello che il racconto è chiamato a consegnare al tempo, adesso a noi, e poi ancora ad altri oltre noi.

Herman Melville, Benito Cereno, traduzione di Bruno Tasso, Rizzoli, Milano 2011

Rachel Cusk, Resoconto. Transiti. Onori

1. La trilogia

La trilogia di Rachel Cusk (Resoconto, Transiti, Onori) si pone come la successione di:

  • un romanzo basato sull’Ascolto, cioè un romanzo basato su un resoconto di ascolti;

  • un romanzo basato su un transito di personaggi, cioè un romanzo basato su un passaggio di personaggi;

  • un romanzo basato sulla presentazione di personaggi caratterizzati da un Eccesso, che li espone solo come personaggi straordinari, meritevoli pertanto di onori; vale a dire un romanzo basato su un insieme, che è {L’eccesso}, per cui l’ultimo romanzo apre a un insieme diverso, che le parentesi graffe suggeriscono richiamando ciò che è l’insieme;

cioè una successione che pone in risalto la posizione defilata della narratrice, che si basa solo in quanto colei che ascolta e che riferisce con garbo quanto ascoltato in certe circostanze, traendo poi delle conclusioni.

1. Resoconto

La trilogia dell’ascolto si precisa come una trilogia di ascolto di chiacchiere, che è quanto avviene ponendo la protagonista con il nome “Faye” (e poi bisognerà vedere i 3 modi in cui viene pronunciato il nome.) Il linguaggio non serve più per una finalità al di fuori di questo linguaggio, come nel caso di cambiare il mondo, ma per la produzione incessante di chiacchiere, che non hanno altro fine se non quello di essere scambiate in quanto quello che sono: chiacchiere che chiamano altre chiacchiere. Il nucleo di questa produzione di chiacchiere è qui evidenziata nell’industria letteraria. In una rete di chiacchiere i personaggi vivono la loro evanescente vita reale di “persone che vivono scrivendo”, cioè che si guadagnano la vita grazie all’industria letteraria, ma che poi hanno a che fare, con ciò che riguarda chiunque altro, che pure non vive scrivendo, cioè basando la propria vita sullo scrivere: matrimoni, divorzi, traslochi, figli – il tutto capitato sempre tra capo e collo all’improvviso.

Chiacchiera chiama chiacchiera; umani fatti di chiacchiera escono dalla chiacchiera per tornare nella chiacchiera. Il tipo antropologico che chiacchiera: benestante, che ama il confine tra ozio ed un lavoro sicuro, non si affanna più di tanto, non ha grandi ambizioni, mira solo a mantenere il proprio sistema di chiacchiere che gli garantisce quel sistema di vita. È sempre molto curata l’apparenza: al ristorante si è sempre attenti a cosa si consuma, anche in quanto a bevande (ricordare la preferenza di Ryan per le birre analcoliche, in 2, mentre è al bar con la scrittrice). La vita è solo esperienza di chiacchiera in un sistema di comparizioni.

Rachel Cusk si potrebbe definire una versione di Cioran senza la sgradevole patina pessimista, che era già stata del meticcio italiano Leopardi (ve lo ricordate, quel rompiballe in quel di Recanati?), per cui è più che giusto chiederci: che bisogno c’era del meticcio italiano Giacomo Leopardi, con i suoi graziosi mucchietti mormoranti di parole, tanto fastidiosi, tanto insistenti, visto che ci era già capitato la disavventura di avere quel garbato raccattapalle che era Emil Cioran?

2. Transiti

Il transito è l’incontro con le persone, che permette poi di riportare le chiacchiere e le storie che sono alla base di quelle persone o false persone – in realtà non c’è la rappresentazione di tipi umani. RC rappresenta la modernità, non scrive in base a un’ottica personale che impone di includere ma di escludere molte cose da ciò che costituisce la realtà (come ad esempio faceva Lovecraft secondo il saggio di Houellebecq). Il lavoro di chi scrive non consiste nello spiegare, cioè nel rendere più chiaro qualcosa, ma nel mostrare il collegamento di ogni parola con tutte le parole del mondo, cosa che si può fare solo sfuggendo alla possibilità di un tale collegamento – che è allora ciò che il testo composto presenta, per cui la letteratura è pubblico artificio, cioè fuoco d’artificio. La questione della letteratura non è trovare soluzioni, ma cercare l’enigma.

I romanzi di RC rappresentano l’inutilità della modernità, che tutto vuole fuorché l’incontro con l’enigma: nel momento in cui questi romanzi rappresentano il cambio di casa affrontato dai personaggi, ma non pensano ciò che comporta abitare la terra; rappresentano le difficoltà di allevare figli, ma non pensano ciò che è ciò che viene chiamato ad abitare la terra.

L’epifania finale che pone fine al testo, come nell’episodio al salone di bellezza, non è una epifania nel senso indicato da Joyce, ma un qualcosa per concludere in eleganza un momento qualunque di una persona là qualunque. Modernità in quanto non epoca che è senza storia, ma come momento senza capacità di inventare allora la storia. Storia e narrazione sono pietose menzogne per cui bisogna inventare una narrazione così come si inventa la storia, cioè senza pensare di basarsi su nozioni comuni. Funzione consolante dei romanzi di RC: abbiamo a che fare con le tante cose del mondo, pur non incontrando mai la Cosa. L’epoca moderna ha disgiunto il fare dal pensare la cosa da fare, per cui fa di tutto per avere a che fare con più cose, senza incontrare mai la Cosa. La narrazione di RC è una narrazione che traccia la modernità come epoca che può essere narrata a partire dal fatto che Dio è morto, ma mettendo in un canto l’epoca moderna come epoca che deve pensare se stessa a partire dal pensiero che “Dio è morto” – cioè a partire da ciò che non è stato ancora pensato, come, tra l’altro, dimostrano i suoi più che miseri brandelli di testi. Ciò che resta è la modernità come spoglia ipnotica. RC organizza un nominalismo ipnotico come base della modernità. Tra i personaggi non c’è nessuna interazione (considerare, a questo proposito, la Cena delle Lacrime che conclude Transiti). Faye ha sempre un aspetto ieratico e un tantino assente, ferma in una iconostasi che dovrebbe segnare l’ambito di due spazi, ma non segna niente, perché è un niente tra altre cose che sono puramente niente. La narrativa di RC è deprimente perché non vede un futuro diverso, ma si basa su quello che la realtà offre in quel momento, è una letteratura che tramanda quello che le madri hanno sempre sussurrato ai figli: “è sempre stato così, e non sperare di più”.

Notare i tre momenti in cui, in tutta la campata, viene precisato il nome della protagonista. Questo nome viene pronunciato tre volte in tutta la trilogia, sempre una volta sola a volume: la prima volta quando l’impiegata della banca la chiama per comunicarle che la banca non le concede il prestito richiesto (Faye stava tenendo una lezione di scrittura creativa); la seconda volta quando l’amico di un amico, con il quale è stata a cena, la prende per un braccio; la terza volta quando il figlio più giovane la chiama perché non si orizzonta nella città e teme di essersi perso andando a scuola (Faye stava tenendo un’altra lezione di scrittura creativa, e un partecipante si lamenta per il tempo perduto). Le tre chiamate suggeriscono un insieme che invece non c’è, se non in quanto {insieme che non c’è}, scadendo a livello di organizzazione di messaggio generalisticamente pubblicitario, per cui è curioso come certi atteggiamenti da post femminismo si ritrovino nella figura che, una volta, erano tipici solo della vecchia zitella acida.

3. Onori

Il terzo volume della trilogia presenta il ritorno dei personaggi e delle situazioni precedenti, come nella festa che chiude La signora Dalloway di Virginia Woolf. Ma qui il confronto si conferma nell’eccesso (Aarne-Thompson, motivo F601 sgg.) Tutti i personaggi coinvolti in questo romanzo hanno a che fare con un eccesso che costituisce il loro tratto di onore, cioè con ciò che li rende straordinari. Questa tecnica dell’eccesso, che in alcuni casi diventa dominio da parte di una monomania, come nel caso del giovane che fa da guida alla comitiva lungo la città, e che può ricordare un personaggio di Thomas Bernhard (soprattutto Perturbamento).

Scrivere un romanzo è adesso mettersi a fare quello che deve sfuggire al modo di fare dell’industria letteraria, cioè fare qualcosa in un modo del tutto nascosto, al fine di preservare quello che rischia di scomparire. L’industria letteraria vive sempre di più attraverso l’esibizione del proprio stato, che prevede l’esibizione di ciò che – in base al proprio genere – è chiamato a scrivere, ponendo incontri con il pubblico a superare proprio quello che è ciò che è l’opera. Così la questione è proprio l’opera, che è questione solo in quanto ciò che deve essere superato, perché il tema è l’inutilità della letteratura come professione.

Questa trilogia presenta un viaggio nel linguaggio come tuffo nella narrazione, dalla narrazione in cui Faye prende il volo per andare in Grecia, nel cui mare, color del vino, più volte si tuffa, al momento in cui lo stesso personaggio si ritrova a considerare la letteratura come qualcosa di morto proprio a causa della sua vivace vitalità: la letteratura muore come pratica di qualcosa di diverso, insediandosi come pratica qualunque per sbarcare il lunario tra divorzi e figli da parte di persone qualunque, cioè di persone che nulla hanno a che fare con ciò che pone di fronte la letteratura.

Perché la letteratura è qualcosa che rischia di scomparire? perché non accetta di trattare quello che invece è da affrontare, cioè la Cosa che, in quanto cosa del mondo dovrebbe proporsi come la cosa in grado di liquidare la modernità come giostra di cose che compaiono e scompaiono in un gioco. Qual è il tema che la letteratura deve affrontare e che non può essere affrontato pubblicamente, in interviste e dibattiti pubblici? La notte della letteratura porta all’antiumanesimo, che è ancora tutto da esplorare, prima che da praticare.

Differenza tra letteratura basata sulla riproduzione di dati della realtà (un ambiente, un tipo psicologico, in base al principio di realtà) e progetto letterario basato su un modello appena possibile (in base al senso della possibilità di Musil). Ogni romanzo ricrea la storia del romanzo – oppure si sforza di cancellare questa storia.

Nel caso di Ishmael e Faye bisogna avere chiaro che il personaggio che rintracciamo in alcuni testi letterari è solo il risultato di una nostra abitudine di leggere in un certo acquisito modo, mai posto in discussione, indipendentemente da ciò che il testo dice a proposito del personaggio.

2. La Nuova Composizione Letteraria

Byung-chul Han (La crisi della narrazione, Einaudi 2024) tratta di un diverso significato che la parola “narrazione” prenderebbe nell’epoca moderna rispetto a quanto era sempre avvenuto in passato: narrazione non sarebbe più ciò che lega ad un passato, bensì ciò che costituisce il riferimento puntuale ad una informazione nel presente, valevole solo in quanto ciò che ha valore di segno puntuale. Questo sarebbe ciò che porta verso il puro dato di informazione, che traccia l’informazione spoglia, che non può essere più narrata, ma soltanto indicata. L’epoca moderna sarebbe il momento di passaggio da una narrazione legata al passato ad una informazione puntuale. BcH si collega al saggio di Walter Benjamin Il narratore: ciò che collega al passato non è la narrazione, bensì la storia, che non ha nulla a che fare con la storiografia, che è la differenza che passa, in Essere e tempo, tra il vocabolo della lingua tedesca Geschichte, scelto da Heidegger per indicare la storia autentica, e il vocabolo della lingua tedesca Historie, scelto da Heidegger per indicare la storia non autentica, reso in italiano con la differenza tra storia e storiografiaper quanto tutto questo BcH non lo indichi.

La letteratura tratta, in questa fioca trilogia di Rachel Cusk, di tutto ciò che non è letteratura, facendo della persona che, lì, è chiamata a impersonare il ruolo di ciò che, in un tempo appena precedente, costituiva la parte di ciò che costituisce, ora, la letteratura, un nulla in rapporto alla letteratura, paragonabile a ciò che riguarda qualunque altra persona, abbia essa a che fare con un lavoro qualunque o no, che la espone a ciò che ha a che fare con gli elementi fondamentali che riguardavano tutte le persone che non hanno nulla a che fare con la letteratura, e che prima mai esse avrebbero voluto avere a che fare: divorzio, figli, lavoro, e il modo di legare tutto questo; ma aprendo però alla domanda fondamentale, che riguarda ciò che invece entra in contatto con la letteratura: “di che cosa deve, adesso, occuparsi la letteratura?”, questo ammettendo che la letteratura esista solo come accettazione di una domanda, e non come soddisfazione di un bisogno di genere, in quanto, cioè, letteratura di genere. Se, infatti, la trilogia fioca di RC dimostra che il lavoro di ciò che occupa il lavoro nel settore è ciò con cui ha a che fare qualunque persona, indipendentemente dal genere, indipendentemente dal lavoro che la impegna, tuttavia la trilogia di RC ha un esito diverso. La trilogia di RC richiama a questa sola domanda, presentando, nel suo incanto ipnotico di domanda che mai viene posta, ed eludendo in modo svagato ogni possibile risposta; vale a dire: che cosa è ciò che la letteratura deve cominciare a porre in quanto domanda fondamentale?

Letteratura non è avere a che fare con ciò che si conosce – in rispetto al principio di realtà, che quindi pone la letteratura in quanto resoconto di ciò che esiste in quanto ambiente e tipi conformi a quell’ambiente, ma ad essere aperti a ciò che non si conosce, in quanto di là a venire, che è ciò che apre al principio di possibilità in contrasto al principio di realtà – in contrasto a ciò che è solamente reale, impulso a scrivere è allora il richiamo verso tutte le parole del mondo che è ciò che prova solo chi è stato lasciato solo fra tutte le parole del mondo – che è ciò che chiama il nuovo nome nel campo dello scrivere.

Perché si pone così tanta attenzione a nascondere ciò che l’attività di persona addetta alla letteratura dovrebbe invece rivelare immediatamente (che è il compito affidato al personaggio di Faye)? O perché tale personaggio non ha nulla da dire, ed è quindi un bluff; o perché sa che quello che dovrebbe dire lo esporrebbe ad una messa all’indice immediato. L’alternativa richiama ciò che riguarda il principio di realtà e il principio di possibilità. Perché questa esibizione del bluff, non con l’intento di smascherare il bluff, bensì di fornire al bluff nuova vita?

La domanda sulla narrazione è ciò che adesso contrappone intrattenimento a domanda. Infatti autore non è chi crea, bensì chi – non creando – permette la nuova creazione, ponendo appunto la domanda sulla narrazione. La domanda riguarda la domanda stessa: “Siamo pronti alla domanda che si prepara, nella letteratura, che riguarderà allora ciò che sarà la nuova letteratura?”, che impone un passaggio di campo. La cellula tumorale vuole vivere nello stesso modo in cui vuole vivere la cellula non tumorale; a chi vede la differenza tra cellula tumorale e cellula non tumorale spetta la decisione su ciò che ha diritto di vivere e ciò che deve essere eliminato, questa frase capricciosa di Georges Canguilhem (Il caso e la necessità) mi è rimasta sempre in mente perché è ciò che determina colui che guarda.

Così l’unico modo in cui la questione genitori e figli può essere affrontata all’interno di una composizione letteraria è quella mostrata da Antonin Artaud, in quanto ciò che risiede nel simbolo, per cui, artaudianamente, la questione si pone come il porsi di ciò che è stato generato solo in quanto genitore di se stesso, che resta così sempre l’autore come ciò che si pone come increato perché mai nato – che è ciò che determina lo scrittore come ciò che è stato lasciato solo fra tutte le parole del mondo, che è quello che la Nuova Composizione Letteraria deve finalmente cominciare a mostrare e che mai la pseudo letteratura di RC potrà mai solo lontanamente avvertire. Lo sguardo sulla vita, che così esce, è uno sguardo ben diverso da ciò che si evince dai romanzi di RC, perché è lo sguardo che torna a chiamare il principio della selezione.

3. Via (Uno)

«Quando il ricco toglie un possesso al povero (per esempio un principe l’amata al plebeo), nel povero nasce un errore; egli crede che l’altro debba essere del tutto scellerato, per togliergli il poco che ha. Ma quello non sente affatto così profondamente il valore di un singolo possesso, perché è abituato ad averne molti: quindi non può mettersi nei panni del povero, e commette un’ingiustizia di gran lunga minore di quanto costui creda. Entrambi hanno dell’altro un’idea sbagliata. Il torto del potente, che massimamente indigna nella storia, è molto meno grande di quel che sembra. Già il sentimento ereditario di risultare un essere superiore con diritti superiori rende piuttosto freddi e lascia la coscienza tranquilla: noi tutti poi, quando la differenza fra noi e un altro essere è molto grande, non avvertiamo più nulla di ingiusto e uccidiamo un moscerino per esempio senza alcun rimorso.» (Friedrich Nietzsche Umano, troppo umano, I e Frammenti postumi (1876-1878), in Id., Opere complete IV/2, versione di Sossio Giametta, Adelphi, Milano 1977, aforisma 81, Errori di chi patisce e di chi fa, pp. 68-9.)

Questo è proprio ciò che la narrativa moderna non prende in considerazione come cosa degna di essere fatta oggetto della narrazione dell’epoca moderna in ciò che rimane come l’epoca moderna. Di che cosa parliamo, quando parliamo del meticcio italiano Dante Alighieri; del meticcio italiano Giovanni Boccaccio; del meticcio italiano Gabriele d’Annunzio?

4. Via (Due)

L’intervista di Adam Biles a RC (Rachel Cusk, “Onori”, in Adam Biles, Conversazioni letterarie, traduzione di Massimo Ortelio, Neri Pozza Editore, Vicenza 2024) ripropone, per quanto l’intervista sia datata 29 novembre 2018, ancora alcuni punti interessanti: 1) il silenzio, che costituisce il personaggio Faye; 2) le cose del mondo e la letteratura, che sfiorano il personaggio Faye; 3) l’inutilità della letteratura, che il personaggio Faye, indirettamente, grazie alla sua costituzione di personaggio attraverso i tre romanzi della trilogia, permette di mettere a punto.

Il silenzio di Faye è il silenzio che ha a che fare con il silenzio dello psicoanalista, secondo una prima intuizione di AB, che la stessa RC conferma in quanto tale, vale a dire in quanto silenzio che non fonda un nuovo dialogo, ma si pone come ciò che si insinua, in quanto silenzio, nel chiacchiericcio invadente della vita quotidiana che è solo silenzio, anziché rumore, in quanto non uso della lingua, cioè come ciò che serve solo a mettere a punto la descrizione di un caso clinico, secondo la più vecchia interpretazione della psicoanalisi – quella di scuola freudiana. Il modo migliore per verificare la forza di chi scrive è sempre porsi la domanda: “Qual è il rapporto tra chi scrive e la lingua usata nel testo che, adesso, abbiamo di fronte in quanto soltanto testo che possiamo leggere?”, questo perché non può esserci rapporto tra chi scrive e la lingua usata in quella occasione, per scrivere, se non c’è desiderio di violentare la lingua, indipendentemente dal fatto che quella lingua sia usata da uno scrittore oppure da una scrittrice.

I capolavori della letteratura, si tratti di Wilhelm Meister o di Benito Cereno, descrivono le cose del mondo in quanto parte di quella narrazione, cioè di quella cosa con cui i personaggi si trovano ad avere a che fare, per cui quei personaggi trovano il loro spessore solo tra quelle tante cose particolari che li hanno coinvolti a livello di finzione, e lì riportate, del mondo, in quel momento preciso, vale a dire nella tonalità scomoda stabilita dall’autore come la totalità della scomodità delle cose del mondo di stare insieme, intravista in un momento di nebbia. Rachel Cusk presenta le cose del mondo solo come informazioni con le quali i suoi personaggi hanno a che fare in quel momento illuminato dal raggio disperso della modernità, che disperde appunto il per-sé; che non hanno bisogno di alcuna tonalità narrativa, ma soltanto di una condivisione di informazioni, cioè di un modo “social” di essere nel mondo, che porta alla totale, trionfante, finale, desolante inutilità della letteratura, che riguarda solo la totalità di informazioni trasferite a un pubblico di “amici di una rete social” – il tutto in riferimento al personaggio Faye. Il raggio triste della modernità è ciò che si oppone ai raggi della notte, ma che impone il rapporto tra chi scrive e chi legge, che è il mondo fittizio in cui si muove il personaggio-truffa che è Faye.

Nella migliore delle ipotesi, la letteratura, nella forma desolante in cui essa, infine, adesso sembra giungere, sfinita davvero, fino a noi, – come la terra, anche la letteratura, è ciò che chiama il suo abitante, cioè il suo lettore, perché la letteratura, come la terra, è ciò che chiama ciò che è stato chiamato ad abitarla, in quanto abitante o lettore – è ciò parla delle tante cose del mondo, ma non parla mai della Cosa, che è ciò contro la quale ci si trova a sbattere quando non si hanno programmi stabiliti da svolgere, come nel caso dei molti trasferimenti di Faye, che è l’insieme delle diverse cose del mondo che chiama l’insieme {thing Ding þing}, che, solo in privilegiati momenti, lega le forme chiamate a stare tutte perfettamente quante insieme, sempre per la prima e unica volta, dando così vita all’incontro con le diverse cose del mondo, che sarà, allora, ciò che costituirà, nel mondo, l’Incontro con la Cosa, che è ciò che, in nessun caso, riguarda la vecchia Faye, che non ha nulla da dire, come si evince dalla trilogia che la riguarda, non avendo mai avuto a che fare con l’Incontro con la Cosa. Il richiamo non simbolico alle cose del mondo è la resa alla frivolezza che costituisce la modernità e quindi l’accettazione della letteratura come la cosa che può essere definita “inutilità della letteratura”, che pone la modernità in quanto accettazione della totalità delle cose del mondo con cui si ha a che fare, escludendo l’Incontro con la Cosa. È strano che RC chiuda l’intervista con questa frase, del tutto a sproposito, visto quanto riguarda i suoi libri, così avvolti nella modesta nebbia della tarda genitorialità, che sa di ultimo graffio di questa scrittrice, che appare sempre più come la versione saccente di Sophie Kinsella: «Ignorare il gruppo, rifiutarsi di compiacere il gruppo, ribadire che l’individuo è ciò che conta. Questo è ciò che fa un libro. È un individuo che parla con un altro individuo e questa è la sua forza. Ed esiste ancora. Questo tipo di romanzo mi pare vivo come sempre, anche se non è dove qualcuno pensa che sia. Ma è vivo come sempre. Solo che non vince premi letterari.» (p. 145). Scrivere romanzi non ha nulla a che fare con l’allestimento di storie, che è ciò che invece fa chi ha scelto il modo, come in questo caso, più comodo per sbarcare allora il lunario e sempre in questo caso più confacente: allestire storie, riconfezionare vecchie storie che altri, già vecchi compilatori, avevano preparato (come il caso, a livello infinitamente inferiore, di Chiara Valerio con Il grande Bob di Simenon, storia puntualmente riallestita nel romanzo nuovo dal titolo Chi dice, chi tace), mentre chi è portato a scrivere non sa con che cosa ha a che fare – e appunto questo stabilisce il suo ruolo nei confronti di tutte le parole del mondo, mentre il richiamo alla pura informazione è ciò che esclude ciò che ancora attende di essere affrontato a livello di ciò che costituisce la letteratura – che è appunto la Cosa che ci attende, in quanto cosa del dire, cioè della saga, che è la storia, per cui il guaio si ha quando chi scrive sa con che cosa ha a che fare.

Rachel Cusk, Resoconto, traduzione di Anna Nadotti, Einaudi 2018

Rachel Cusk, Transiti, traduzione di Anna Nadotti, Einaudi 2019

Rachel Cusk, Onori, traduzione di Anna Nadotti, Einaudi 2020

Claudio Vergnani, “Lovecraft’s Innsmouth”

Il turpiloquio non è indicato per il fantastico, perché ne spezza l’incanto, ne sprezza l’incanto – eppure Claudio Vergnani riesce a rendere efficace il turpiloquio nel fantastico. Volendo evitare di parlare di personaggi, la coppia Claudio e Vergy, da Claudio Vergnani inventata, rappresenta la stessa scissione che, nella letteratura, passa tra arte come sacro e arte come parodia.

In Lovecraft Country Matt Ruff è più attento nella costruzione dei personaggi, mentre in Lovecraft’s Innsmouth Claudio Vergnani si richiama in gran parte alla mossa dei fumetti, soprattutto nei due suoi personaggi principali, ma, nella messa in gioco del tema “Lovecraft”, il romanzo di Claudio Vergnani supera di gran lunga quello di Matt Ruff. La questione fondamentale consiste nella domanda: “Che cosa è lovecraftiano?”, che poi porta alla domandaCome funziona, realmente, ciò che è lovecraftiano?”.

Tanto Lovecraft Country quanto Lovecraft’s Innsmouth affrontano la questione della letteratura horror all’interno di un romanzo scritto per un indiretto confronto con il lovecraftiano, che è la questione della letteratura come spazio nel quale si può entrare in modo tutto particolare, così come i personaggi di Matt Ruff entrano nella terra che è stata di Lovecraft – visto che il romanzo è ambientato negli anni Cinquanta, mentre Claudio Vergnani mette in gioco la letteratura nella forma di un parco di divertimento a tema ricreato ad arte per gli appassionati dei racconti di Lovecraft.

Tema dell’Autore: così Autore è ciò che non deve più avere a che fare con la stesura di un testo, ma ciò che “ha a che fare con”.

Si può dire che lo scrittore è allora poco più che un dipendente di quel parco raggiungibile tramite l’acquisto di un pacchetto turistico, forse non proprio economico, comprendente il trasferimento nel luogo tramite la sgangherata corriera guidata dal simulacro del sinistro Joe Sargent di HPL? Joe Sargent è la prima figura veramente degenerata che incontra il narratore del racconto di HPL. In CV è invece una comparsa genuinamente stupita dalla strana figura che si vede comparire a un certo punto vicino al bosco quando, in una triste serata di pioggia, traghettava una coppia di turisti e un gruppetto di falsi turisti nella Innsmouth di Lovecraft. Joe Sargent di HPL era un degenerato, il primo degenerato con cui ha a che fare il narratore, e che poi lo intrappola a Innsmouth per la notte, simulando il guasto al motore della corriera che egli guida, quando il luogo della degenerazione, e non del divertimento, era solo lo spazio delimitato dalla sua suggestiva architettura d’epoca antica, che tanto poteva interessare un tipo come il protagonista e narratore del racconto, interessato all’antica architettura del luogo, ma era un luogo dove si poteva andare tramite l’acquisto di un modico biglietto di corriera – mentre il parco di divertimento modellato su Innsmouth porta alla Letteratura di intrattenimento, mentre i due personaggi di CV, che comportano lo sdoppiamento, rimandano a Pierino, il maledetto eroe nazionale del maledetto paese senza eroi: l’Italia. Italia = shitalian, il merdìtalo.

Dall’Italia agli Stati Uniti: Pierino s’infila in ogni pertugio del mondo, ignorante, fracassone, portatore di buonumore idiota. Pierino come colui che nasconde la propria origine perché mostruosa. Pierino è in questo caso la figura complementare di Joe Sargent. Pierino non è un personaggio riconosciuto, ma è la figura più giusta per definire ciò che, impropriamente, viene talvolta chiamato “popolo”, in mancanza di meglio, in presenza del meticcciato. Riepilogo della tematica di HPL esposta in ciò che sembra costituire la reale mitologia di Cthulhu: la terra abitata dai nativi (siano essi nativi americani oppure aborigeni australiani) rimane soggetta a vibrazioni negative, che un degenerato razziale di grandi capacità è in grado di raccogliere per portare alla estrema esposizione, tramite l’aiuto del meticciato amorfo, cioè della massa del meticciato italomongolo-semita, tanto simile alla massa degli insetti, secondo la precisazione di Hillman, che rappresentano la perfetta incarnazione dei Molti contro l’Uno.

Si può parlare di Dichterberuf – professione di oggi come vocazione di ieri. Che cosa evocano i sogni degli scrittori del genere fantastico? evocano i mostri, così abbiamo i mostri di Lovecraft e i “mostri” di Claudio Vergnani. La paura dei mostri, così come la repulsione verso gli insetti indicano lo sconcerto verso i grandi numeri: paura dei mostri, repulsione verso gli insetti sono indicazioni verso la massa (stando a quanto dice Hillman), gli italiani evocano sempre la massa degli insetti, così come gli orientali. La domanda: “ha, Pierino, diritto al riconoscimento?” è la domanda che ne nasconde un’altra: “hanno, gli italiani, diritto alla vita?”

Il parco giochi pensato da Claudio Vergnani è la sfida che nasconde, nella relazione tra tema e maschera, il rapporto tra letteratura e realtà, mentre ciò che deve essere il tema è il gioco che comporta a chi, sulla terra, spetta il diritto di vivere e chi deve essere eliminato, tema che pure non entra, in questo romanzo, mai in gioco – mentre abbiamo il tema del Gioco. La letteratura è un gioco, il parco divertimenti basato sulla letteratura è la messa in scena di un gioco, che non ha più nulla di ciò che ha a che fare con la letteratura, perché la letteratura di genere è il giochino, quando solo la grande letteratura intravede la possibilità del gioco, che deve allora sfociare nel Gioco del mondo, – questo perché, in quanto finzione, la letteratura si stabilisce in quanto “letteratura come menzogna”, ma, in quanto finzione letteraria, la letteratura è ciò che sogna il grande Gioco del mondo, cioè ciò che va al di là della letteratura, vedendo la possibilità di dare forma al mondo come si dà forma ad un progetto letterario, che è ciò che adesso non riguarda ciò che è letteratura. Il concetto stesso di opera letteraria non ha rapporto con tutta questa solfa, perché sfiora l’antiromanzo, dove la descrizione di comparse da quattro soldi eseguono gli episodi che, in un romanzo, dovrebbero invece essere narrati, che è la stessa tecnica straniante che può ricordare quella che è alla base del romanzo Teorema (1968) del finocchietto italiano Pier Paolo Pasolini, – e che in questo il romanzo di CV coglie al lampo di una parabola di freccia letteraria.

Infatti lo scrittore dà forma alla sua opera, mentre lo Scrittore è intento a trasformare se stesso, permettendo all’Opera, da parte di ciò che non riguarda lo scrittore, di raggiungere la forma.

Vediamo che, in HPL, Innsmouth è la degenerazione ad un solo passo di eclissi di distanza, raggiungibile con la corriera, al modico prezzo di un biglietto di corriera, che alla fine trascina con sé, chi non ha voluto evitare ciò che tutti avevano la possibilità di evitare, il passaggio nella degenerata Innsmouth, poiché lo spazio dove ha luogo la degenerazione è ciò che si deve evitare ad ogni costo; in CV Innsmouth è invece il parco divertimento, costruito a modello del racconto di HPL, dove si va per rilassarsi, pubblicizzato con tutti gli standard scintillanti della più moderna industria della pubblicità. In HPL la degenerazione è ciò che ha il suo recinto, così come i negri avevano il loro recinto, come indicato da Heidegger secondo Faye, mentre in CV il recinto è nient’altro che una recinzione di sicurezza a protezione di un parco giochi.

Che cosa si incontra, nella Innsmouth di HPL e nella “Innsmouth” di CV? si incontra il mostro come risultato della degenerazione razziale, con la differenza che, in HPL, si sa che il mostro esiste ed è messo da parte, cioè rinchiuso in un recinto, che è appunto un recinto di negri e meticci, mentre in CV il mostro è esibito in uno spazio protetto perché si sa che i mostri non esistono, ma che il mostro, anche nella forma modesta in cui può esistere, è nient’altro che la stessa cosa di tutto ciò che esiste, cioè una risorsa – nella peggiore delle ipotesi, qualcosa di diversamente abile.

Nel racconto di HPL i narratori con cui ha a che fare il protagonista sono di tre tipi: narratore che racconta per sentito dire (l’impiegato alla biglietteria di Newburyport, che pronuncia per la prima volta il nome “Innsmouth” davanti a lui), narratore che racconta per esperienza indiretta (il ragazzo nel negozio dove il protagonista, ormai consapevole di ciò che rappresenta Innsmouth, si rifornisce del cibo a lui necessario per la giornata), narratore che racconta per esperienza diretta (Zadok Allen, che racconta la Storia vera, cioè ciò che riguarda stare in quel luogo come punto d’incontro tra quanto avvenuto nel passato e quanto permane nel presente, quindi il tramite necessario, per il protagonista, per dare un senso alla sua visita nell’enigmatico e fatiscente villaggio di Innsmouth e nel quale egli ha trascorso tutta la sua vita). Ma tra i narratori va anche annoverata la conservatrice del museo, la signorina Anna Tilton, che spiega, oltre ciò che le consentirebbe il suo proprio orario di lavoro, la particolarità della tiara che costituisce il pezzo più prezioso del piccolo museo locale. La signorina Anna Tilton fa anche riferimento a un culto orientale diffuso a Innsmouth, noto come Ordine Esoterico di Dagon.

Dagon ha la forma del “personaggio defilato” che in Lovecraft’s Innsmouth appare nella forma di Mariko, guerriero ninja appena un poco più abbordabile della Molly del Neuromante, ma sempre nell’ottica di una razor-girl. Dagon può ricordare la divinità cananea metà uomo e metà pesce, ma preso di per sé, democraticamente parlando a livello di parola, ricorda il termine dago, termine dispregiativo con cui negli Stati Uniti erano indicati gli italiani e gli ispanici, rivendicato qui come falso etnonimo, sonoro sberleffo, rivendicazione di un degenerato culto locale. Oriente e Italia vengono così abilmente fusi. Un tema, in un racconto, dà vita a un personaggio in tutto un altro romanzo. Se non si pensa più per personaggi la cosa non sconcerta: basta pensare a ciò che sono le trasformazioni topologiche.

Nel racconto di HPL il vecchio Zadok è colui che dice la verità assoluta su ciò che è Innsmouth, cioè la causa prima della sua degenerazione; in CV è colui che dice la verità facendo credere che non sia la verità, mentre invece sta dicendo proprio la verità, proprio perché Innsmouth è ciò che non è, sembrando ciò che dovrebbe essere: è insieme l’attore pagato per recitare una parte e l’ideatore di tutto l’imbroglio.

Ma il discorso generale verte sempre sul rapporto tra mostro e fantastico in epoca moderna, quando il mostro non viene più visto in quanto “mostro” perché si crede solo nell’uguaglianza tra tutte le forme viventi. In CV il mostro è il nostro fratello più prossimo – che è quanto di meno lovecraftiano si possa pensare. L’atteggiamento da tenere verso il mostro è di umiltà, da qui il paradosso estremo: che, in Italia, porta al paradosso dello scrittore e meticcio italiano Gabriele d’Annunzio come maschera del “superuomo umile”. Il problema è invece ciò che è nocivo per la salute. Il primo vero mostro che incontriamo nel romanzo Lovecraft’s Innsmouth è il poveretto che sembra vivere nascosto dentro una chiesa. È un mostro più simile al lebbroso di Francesco d’Assisi, e Claudio, prima di lasciarlo, gli regala una fiala di morfina per alleviare i suoi dolori; il poveretto è subito apparso terrorizzato dalle armi che i due intrusi, credendo di avere a che fare con un pericolo, avevano spianato contro di lui.

Dalla musica di Olivier Messiaen al ticchettio fastidioso di Gioacchino Rossini, per un comodo vico di ricircolazione si precisa quello che, in questa fase estrema della modernità, deve essere il mostro, e si precisa nel momento in cui i tre personaggi sono davanti al portale, che dovrebbe portare all’incontro con i mostri veri, o con i Grandi Antichi, quando Mariko è intenta a scattare fotografie per documentare la presenza della razza aliena, e Claudio e Vergy concordano tra loro quale atteggiamento adottare con i mostri – e basandosi sul poveraccio incontrato, Vergy distingue: «“Malattia o maledizione, anche loro [cioè i mostri] in quanto a sfiga non scherzano.”» (p. 208). Il tema “mostri come risorse” prevede tanto lo sfruttamento del mostro all’interno di un parco giochi a tema, quanto il luogo dove nascondere rifiuti tossici pericolosi. Il mostro è prima di tutto una risorsa perché garantisce la riservatezza del luogo, perché garantisce, a quella parte di terra “mostruosa”, di rimanere nascosta, ma poi si rileva una risorsa in quanto ricca del tesoro da esibire, cioè i mostri.

Il tema del mostro come malato da accudire, anziché degenerazione da sopprimere, porta ad alcune riflessioni: da Frankenstein (1818) di Mary Shelley a Io sono leggenda (1954) di Richard Matheson a Trilogia dell’Area X (2014) di Jeff VanderMeer, cambia l’ottica con cui la letteratura occidentale guarda il mostro, sfociando in ciò che è lo sguardo sul semplicemente diverso, e solo potenzialmente cattivo, cioè sul tema del diverso che non è cattivo, anche se di aspetto spaventoso, ma che pure ha diritto ad un suo protetto spazio di vita, così come ogni altra forma di vita. Alessandro Dal Lago (Eroi e mostri. Il fantasy come come macchina mitologica, il Mulino 2017) nota la simpatia che, nel Beowulf, sembrerebbe essere presente nei confronti di Grendel: «L’autore sembra quasi provare un moto di simpatia per Grendel. Per rappresentare la condizione di questo essere rintanato nell’oscurità e tormentato dai rumori e dai suoni di una festa da cui è escluso, usa l’avverbio earfoðlice, “penosamente”, “impazientemente”, che comunica l’idea di un’attesa che non può essere soddisfatta. Più oltre, l’orco è definito dreamum bedaeled, “privo di piaceri” o “escluso dalle gioie” (della festa). Ma subito la natura di un essere fuori misura e fuori luogo, un vero e proprio outcast, è riportata alle sue origini maligne.» (p. 163).

Non si pensa più alla possibilità di eliminare il mostro perché non si pensa più alla possibilità di dare forma al mondo, che passa attraverso la possibilità di stabilire chi abbia, tra tutte le forme viventi, il diritto di vivere, e chi debba invece essere eliminato. Quando Claudio, Vergy e Mariko, nascosti nella caverna, vedono entrare i mostri, cercano di evitare a tutti i costi lo scontro, che vorrebbe dire – da parte loro – sparare nel mucchio di una masnada sgangherata e disarmata, perché quello a cui assistono è una sfilata di grilli dolenti: «Eravamo abituati a mostri e criminali feroci, determinati, spesso fieri della loro capacità di esercitare violenza senza farsi scrupoli. […] | Ma la corte dei miracoli di ombre deformi che ora avan­zava socchiudendo gli occhi gonfi e vuoti davanti alle nostre luci non faceva parte di quella categoria. Quelle creature si trascinavano a fatica su appoggi che erano stati piedi e che ora erano poco più di pinne, arrancando per spostare corpi flaccidi e squamati che ormai non erano più in grado di rimanere eretti. | I respiri erano rantoli faticosi, le vestigia di un atto dimenti­cato e inutile ma sopravvissuto nel tempo a ricordo di ciò che era stato. I movimenti goffi e scoordinati li sbilanciavano a ogni passo, e sembrava che solo stando uniti i più riuscissero a rimanere in piedi, appoggiandosi ai compagni. | No, non suscitavano terrore, rabbia e aggressività, ma compassione. Nei loro occhi permaneva una scintilla che nessun patto demenziale e ultraterreno era riuscita a spegnere.» (p. 230). In CV il mostro non è animato da una propria volontà distruttiva, in HPL abbiamo invece una sequenza precisa riguardante il mostruoso: nativi americani che suscitano vibrazioni negative alla terra – che il mago degenerato, di razza bianca, coglie e sfrutta per i propri scopi – che il meticciato amorfo rafforza schierandosi integralmente dalla parte dell’orrore cosmico; strato indigeno, potenze aliene, esoterista come componente degenerato della razza, meticciato, sono le potenze che trovano un immediato collegamento, e nell’insieme, in HPL, il mostro non è mai ciò che suscita compassione, perché è sempre ciò che minaccia la continuazione della vita della specie umana sulla terra. Nel racconto La maschera di Innsmouth la trasformazione in creatura mostruosa è qualcosa di gioioso, che promette una vita futura ricca di incanti, come si evince dal finale: «Preparerò la fuga di mio cugino dal manicomio di Canton e insieme raggiungeremo Innsmouth dalle tenebrose meraviglie. Nuoteremo fino al solitario scoglio e ci tufferemo nei neri baratri sottomarini ove sorge la ciclopica Y’ha-nthlei, dalle mille colonne, e nel rifugio di Quelli-degli-Abissi vivremo per sempre in un mondo di meraviglie e di gloria.» (H.P. Lovecraft, Tutti i racconti, a cura di Giovanni Lippi, traduzione di Claudio De Nardi, Mondadori 2015, p. 1217). Ciò che, all’avvio di questa sequenza, il mostro pone sul terreno è la questione della terra, terra che non può essere condivisa e che deve appartenere o ai mostri o agli umani. In Frankenstein di Mary Shelley la creatura è il diverso in quanto ciò che non si adegua alla norma, che dovrebbe suscitare compassione, soprattutto da parte del suo creatore, ma ispira invece ribrezzo e paura in tutti, fuorché al suo creatore; ma quando il suo creatore, accettando di creare la compagna per la creatura, come la creatura gli aveva chiesto, si rende conto che potrebbe così contribuire a creare la nuova razza di mostri che potrebbe diventare la nuova padrona della terra, allora si ribella e accetta di porre fine a quella particolare forma di vita nociva per la forma umana, scatenando nella sua creatura ciò che porterà, quello che finora era stato il diverso, a diventare mostro a tutti gli effetti. Compito dell’artista creatore è indicare la scelta possibile, relativa a quale forma abbia il diritto di abitare la terra, perché questo è il compito della letteratura, a differenza di quanto può essere classificato come letteratura di genere o paraletteratura, così come ha il compito di indicare il gioco, che, se giocato, diventa allora il Gioco del mondo, che riguarda la forma che ha sempre il diritto di abitare la terra. L’odio contro il mostro è l’odio contro la malattia, che propriamente non è odio, perché la malattia non è ciò che si può odiare per scelta, ma ciò che chiunque dovrebbe volere fuggire e distruggere.

L’insegnamento deve insegnare il disprezzo – ma è possibile insegnare ciò che si dovrebbe già conoscere per natura? Probabilmente c’è una fase in cui l’insegnamento è necessario – meglio ancora: l’insegnamento è prezioso in alcuni momenti di sconforto, è allora che sono necessari i grandi maestri. Il problema non è che cosa c’entra, ma che cosa centra questa frase.

In CV il mostro attacca perché esasperato dalle angherie di coloro che occupano lo spazio dove il mostro tira avanti la sua grama vita nascosta. Il mostro esiste, basta soltanto essere in grado di vederlo. cioè di riconoscerlo, come ha fatto HPL.

In questo romanzo Claudio Vergnani ha il merito di avere portato il parco giochi, ispirato alla letteratura, come ambientazione di un’opera letteraria basata sulla riflessione nel rapporto che passa tra letteratura e realtà, mentre il campo del gioco, in senso figurato, rimane come spazio non esplorato perché non portato nel gioco. C’è da dire che tanto HPL, così privo di umorismo come si ricava dai suoi testi, quanto CV, che pure insiste sull’umorismo, grazie soprattutto al personaggio di Vergy, vedono la possibilità del gioco, ma trascurano la possibilità di dare al mondo una forma qualsiasi in base al diritto del Gioco del mondo. Possibilità che deve passare attraverso il recinto, che sia recinto per negri, per italiani o per mostri mutanti.

Tanto in Matt Ruff quanto in Claudio Vergnani la terra è strato passivo (per quanto in Matt Ruff si arrivi all’eccesso di un anti Lovecraft raccontando di una casa infestata il cui spirito protegge la casa, ormai passata di proprietà a dei neri, contro gli aggressori bianchi, entrati di nascosto allo scopo di incendiarla – Lovecraft Country, capitolo I sogni nella casa di chi), indifferenti a coloro che ne occupano la superficie, siano essi mostri o criminali senza scrupoli e deturpatori dell’ambiente – un semplice racconto di HPL come La strada, dove un tratto di terra percorsa da una strada protegge i suoi abitanti di razza bianca contro un tentativo di attentato progettato da immigrati di origine russa, sarebbe in entrambi gli scrittori semplicemente impensabile; proprio perché entrambi gli scrittori non vedono più la questione razziale che invece costituisce il nucleo della narrativa formante di HPL – e questo vale soprattutto per Matt Ruff, che pure insiste sulle tensioni razziali degli anni Cinquanta nei luoghi dove si svolge il romanzo. In HPL tutta la questione razziale coinvolge il meticciato italomongolo-semita, che non può mai essere dalla parte del bene e il vero scontro è tra razza bianca e meticciato o forme completamente diverse.

Quello che MH non ha compreso, nel suo saggio su Lovecraft, è che, in HPL, la vita diventa non vita e l’odio diventa non odio, ma in nessun caso, ciò che porta a scrivere, diventa, lì, forza contro il mondo e contro la vita, perché affermazione e negazione sono così saldate insieme, dentro l’impulso a scrivere, come in un hegeliano nucleo di affermazione e superamento, che rende impossibile la traiettoria di un movimento senza l’altro, per cui la vita stessa rischia di diventare vita in quanto vita indegna di vivere, che è sempre vita, ma non mai semplice opposizione alla vita. Solo l’incontro con il mito, da un nido di parole, è ciò che chiama il ritorno e il nuovo Incontro.

La domanda: cosa c’è, nel mostro, che è così irriducibile, tanto da giustificare l’immediata sua uccisione, quindi la domanda fondamentale, con cui adesso abbiamo a che fare, è: “che cosa è che determina il mostro inevitabilmente come mostro, tanto da giustificarne la sua immediata uccisione?” nel momento in cui sappiamo che il mostro non si determina più nello stupore della sua forma, che determina una volta ancora di più la grandezza di Dio, quando Dio era il Dio del nemico, ma nemmeno nelle creature di alcuni racconti di HPL, appartenenti ai “grandi testi”, secondo la definizione di Michel Houellebecq, che appaiono come ridicoli assemblaggi di specie diverse (come i mostri che compaiono in Colui che sussurrava nelle tenebre), a noi rimane il nucleo della domanda: dove riconoscere il mostro? Assuefatti a secoli di cristianesimo, per noi il mostro non è nient’altro che il nostro fratello: ma spogliati di questo il mostro è l’essere appena poco più simile che ci appare davanti, cioè il meticciato italomongolo-semita, che compare nei testi di HPL, lì, sì, in tutta la sua forza di mostro, cioè l’essere appena più simile a ciò che ci appare davanti, vale a dire il meticciato italomongolo-semita, che compare nei testi di HPL, poiché non solo i “grandi testi” di HPL, ma anche i primi testi degli anni Venti di HPL contrappongono la razza bianca (tedeschi, inglesi, scandinavi, olandesi, celti) e il meticciato (l’impasto ottuso costituito da spagnoli, italiani, francesi, greci, slavi, che fa sì che il meticciato sia allora lo strato cuscinetto). A proposito degli orchi presenti nelle sue opere, Tolkien precisava: «Gli orchi sono degenerazioni della forma umana degli elfi e degli uomini. Sono (o erano) tozzi, larghi, con il naso piatto, la pelle giallastra e bocche larghe e occhi obliqui: una versione in brutto dei tipi mongoli meno gradevoli a vedersi (per gli Europei).» (J.R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere 1914-1973, Rusconi, Milano 2001, lettera 210 a Forrest J. Ackerman, giugno 1958, p. 309).

La questione è: “Che cosa fare di Pierino?”, che in questo romanzo, pierinamente, risorge? Il poliziotto che, all’ospedale di Boston, quando Claudio voleva dire la verità, deve raccogliere la deposizione di Claudio, espone sinteticamente quello che è la situazione degli italiani in Lovecraft’s Innsmouth: «“Lei mi fa schifo”, esordì. “Viene qui, combina le sue por­cate e poi si fa coprire le spalle da qualche organizzazione di emi­nenze grigie. Comodo. Con voi italiani se non è la mafia è qualche pezzo grosso ammanigliato con il governo. Lei è un vi­gliacco e se potessi le insegnerei come si sta al mondo. Ma non posso. Per cui avanti. Dica in fretta quello che ha da dirmi, io lo trascriverò e lei sarà libero di tornarsene in giro a vantarsi della sua bravata.”» (p. 312). Quello che era un pericolo, il pericolo del meticciato, diventa una litania di luoghi comuni che chiunque può snocciolare. Gli italiani sono solo dei vivaci fracassoni combinaguai ma non rappresentano il vero pericolo schierandosi, come razza, cioè come antirazza, dalla parte delle forze ostili al genere umano, cioè con il meticciato al quale, secondo la visione di HPL, essi appartengono. Così la domanda sui mostri presenta la variante: sono, gli Italiani, la fuffa presentati nel romanzo di CV, nella coppia Claudio e Vergy, o il pericolo presentato nei racconti di HPL?

Che forza è quella che CV riconosce negli italiani e che esprime tramite le coppia/sdoppiamento Claudio e Vergy? È una forza cieca, che trasforma il mondo, ma che niente sa della sua capacità di trasformare il mondo. Incontriamo Claudio nel primo capitolo, intento a trasportare sacchi di cemento per una ditta che dà lavoro in nero a stranieri e italiani che accettano di lavorare fuori delle regole. Claudio mette la sua capacità lavorativa a beneficio di una impresa fantasma e Vergy lo tira fuori, inserendolo in tutt’altro ambito lavorativo, senza che l’energia di Claudio, dimostrata nel suo umile lavoro come manovale, si dissolva. Questa energia minima di trasformare è ciò che Jünger ritraeva nel suo saggio L’operaio. Dominio e forma e Heidegger vedeva in questa energia la rappresentazione più elementare della volontà di potenza di Nietzsche. C’è da dire che l’energia rappresentata da Jünger era un principio cieco, senza una direzione guidata da una volontà, una semplice estensione di un principio vitale, colta al limite più basso. «Pioveva a dirotto; fango misto a cemento e intonaco goccio­lava dalla struttura in costruzione, rendendo scivolosi i pavi­menti sconnessi. Non per questo i lavori si erano fermati. No­nostante indossassi il mio pesante Stockman australiano, sotto i vestiti erano fradici. Andare su e giù per le scale di un palazzo di quindici piani in costruzione con un sacco di cemento in spalla, se non altro, mi manteneva caldo. Il che non significa che la rottura fosse minore. Il mio Casio – che a onta di tutti gli sbattimenti degli ultimi anni funzionava ancora – mi diceva però che il turno di lavoro stava finendo.» (p. 12). Questa energia elementare, che modifica il mondo, può essere vista sotto l’aspetto di Jünger e Heidegger, vincolata a un principio di forma e dominio, ma anche come pura energia distruttiva atta a rovesciare un sistema costituito, e si ha allora il principio dell’operaismo di Mario Tronti. In Jünger e Heidegger viene cancellato il principio di gioco presente nella volontà di potenza di Nietzsche, se considerata nella forma più alta, quella del superuomo, che nobilita il gioco; in Mario Tronti il gioco non è considerato in assoluto, poiché quello che conta è la trasformazione rivoluzionaria della società, che inevitabilmente deve spettare solo al proletariato. In entrambi i casi, il punto di partenza è lo stesso: l’operaio.

Il personaggio rimanda al rapporto tra ciò che, di vivente, sta sulla terra e l’abitante della terra del sacro. Ho sempre giudicato quello che, impropriamente, viene chiamata la poesia di Leopardi, come “graziosi mucchietti di parole”.

Tema dell’arte e della razza degenerata: i turisti che frequentano Lovecraft’s Innsmouth impestano quel luogo come gli italiani che dall’Italia sono emigrati in tutto il mondo impestando così tutto il mondo, non con mafia e spaghetti, ma con Dante e Boccaccio sotto il braccio. Claudio e Vergy, il professore Brandellini e Mariko raggiungono la città-set (cioè il parco divertimento) dopo una ricognizione notturna oltre la collina, in quella che dovrebbe essere la vera Innsmouth dei tempi di HPL: «La pioggia battente aveva reso le strade sterrate un unico pantano. Prima che il vento li portasse via, facemmo in tempo a vedere per terra qualche fiaccola spenta, carte di patatine e per­sino un berretto da baseball. Volevamo tutti credere si trattasse di ciò che rimaneva del divertimento serale.» (p. 99). La ricognizione notturna li aveva appena fugacemente portati nella vera Innsmouth dei tempi di HPL. Infatti il bastardo non può che imbastardire, dovunque esso vagoli nel mondo.

Quando andare nella terra è solo andare nella Terra del Sacro, allora andare nella Terra del Sacro non è più andare nella terra come terra dove andare – questo perché andare nella terra non è mai solo andare, perché è la terra a chiamare il suo abitante; ma quando andare nella Terra del Sacro come terra del Sacro Nord allora andare nel nord non è altro che andare nella Terra del Sacro, che è ciò che fa la differenza – perché il mostro è ciò che deve essere eliminato dal mondo, ma da quando il cristianesimo ha legittimato il mostro, per cui il mostro è il nostro fratello e l’idea di stabilire a chi spetti il diritto di abitare la terra, dando così forma al mondo, è una cosa che ripugna, come ormai ripugna vedere un adulto, che, tutto da solo, e con la massima concentrazione, è intento ad un gioco che è gioco di bambini, o forse questa visione crea solo un leggero imbarazzo, che è già compassione – così, quando un meticcio italiano si comporta in un modo appena appena un po’ strano, bisogna sempre porsi la domanda fondamentale relativa a ciò che non è il nostro fratello, domanda che allora suona come ciò con cui bisogna fare i conti: “Che cosa vuole, questo bastardo di italiano?” perché vedere un italiano in Europa deve suscitare la stessa impressione che Mein Kampf comunica nell’incontro con il primo portatore di caffettano in quel punto riconosciuto come terra della razza bianca, cioè l’Europa. Quando un italiano procede in Europa, dovrebbe sempre suscitare la domanda: “Che cosa vuole, questo bastardo di italiano?”, così come quando un italiano viene sorpreso a stare in Europa, deve suscitare la domanda: “Che cosa vuole, questo bastardo di italiano?” perché un italiano deve sempre suscitare la domanda: “Che cosa vuole, questo bastardo di italiano?” questo perché un bastardo può solo imbastardire, indipendentemente dalla volontà che può animare quello sputo di singolo individuo, sia o non sia, quella cosa lì, un bastardo di italiano, perché un bastardo è sempre un bastardo di italiano, cioè un meticcio, che va eliminato. Per cui, quando si parla di ogni punto della terra come di una cosa con cui si ha a che fare, bisogna sempre avere pronta la domanda: “Che cosa vuole, questo bastardo di italiano?”.

Narrare è tutto fuorché raccontare una storia con delle parole scelte fra le tante possibili – ma quando chi narra è solo ciò che è stato lasciato solo fra tutte le parole del mondo, che cosa rimane delle parole?

Claudio Vergnani, Lovecraft’s Innsmouth, Dunwich Edizioni, Roma 2015