La mia vita in Germania prima e dopo il 1933 di Karl Löwith contiene un curioso ritratto di Heidegger: «Tra di noi Heidegger era soprannominato “il mago di Meßkirch” … Era un piccolo grande uomo misterioso, un sapiente incantatore, capace di far sparire dinanzi agli astanti quel che aveva appena mostrato. La sua tecnica espositiva consisteva nel costruire un edificio concettuale che poi lui stesso demoliva per porre l’ansioso ascoltatore dinanzi a un enigma e lasciarlo sospeso nel vuoto […] La sua conoscenza era sconfinata quanto la diffidenza dalla quale essa scaturiva. Il frutto di questa diffidenza era una critica magistrale di tutto ciò che della tradizione restava ancora in piedi. […] Intanto egli stesso sorvegliava sospettoso le entrate e le uscite della sua tana di volpe, nella quale tuttavia non si trovava affatto a suo agio …» (cit. in Antonio Gnoli e Franco Volpi, L’ultimo sciamano. Conversazioni su Heidegger, Bompiani, Milano 2006, p. 7).
Che cosa se ne può dedurre?
L’esposizione di Heidegger tendeva a creare un edificio concettuale che subito dopo egli stesso demoliva. In questo consisteva la tecnica di Heidegger come «sapiente incantatore», vale a dire di Heidegger in quanto “mago”.
Egli aveva una forte diffidenza nei riguardi della tradizione, che lo portava a porre quelle domande che di solito, fino ad allora, a nessuno era mai venuto in mente di porre.
Egli stesso non si trovava a suo agio nel proprio pensiero e ne frugava con ansia la struttura, alla ricerca di una possibile via di uscita, se mai ce ne fosse stato bisogno.
Questo ritratto restituisce a Heidegger qualcosa di nietzscheano. Heidegger vi appare come un distruttore del discorso filosofico in una misura analoga a quanto lo è stato Nietzsche.
Quindi: il pensiero tradizionale del passato viene visto come un territorio estraneo nel quale è difficile abitare; un pensiero del tutto nuovo deve isolarsi da quello del passato, per stabilire, faticosamente, la propria fisionomia.