La parata della civetta

a) Il titolo
Risalendo all’originale della frase di Shakespeare, posta da Leonardo Sciascia come epigrafe al Giorno della civetta, si ha l’impressione che il testo descriva gli scherni che la civetta si attira addosso dagli uomini quando compare di giorno.
Il titolo mostra però un’attenzione particolare nella sua articolazione: IL GIORNO della civetta, cioè il giorno in cui la civetta ha tutto il diritto di comparire di giorno. Nella battuta di Shakespeare non c’è il minimo accenno ad un simile periodo. La precisazione del titolo, se giustamente interpretata, può fornire allora una giusta indicazione per la comprensione del romanzo.
Considerando il titolo Il giorno della civetta nella forma IL GIORNO della civetta, è allora lecito fare delle considerazioni sull’apparire della civetta nel suo giorno.

b) La parata
Quello che Il giorno della civetta descrive, se così interpretato, è ciò che succede nel periodo di tempo in cui la civetta non può fare a meno di non mostrarsi di giorno. Quindi tutto il testo non è altro che la rappresentazione letteraria, o il travestimento letterario, dei movimenti della civetta che si muove nel suo giusto giorno.
È quindi ovvio, per affrontare il romanzo, prestare attenzione a ciò che la civetta mostra nel suo giorno, cioè nel giorno in cui essa può muoversi in modo particolare.
Il giorno della civetta è un romanzo breve, o un racconto lungo, caratterizzato da una più che lodevole economia di mezzi e da una grande accuratezza nella descrizione dei tipi e delle situazioni. Non è quindi difficile fare uno schema della vicenda capitolo per capitolo (anche se il testo non presenta nessuna numerazione, e procede quasi allineando dei frammenti):
1) L’uccisione di Salvatore Colasberna, titolare di una piccola ditta di costruzioni edili.
2) L’interrogatorio dei soci di Colasberna da parte del capitano dei carabinieri Bellodi.
– 3) A Roma il capitano Bellodi sembra dare fastidio a causa di quell’inchiesta.
4) Il capitano Bellodi ottiene delle informazioni utili da un suo Informatore.
– 5) A Roma il capitano Bellodi continua a dare fastidio sempre per quell’inchiesta.
6) Si scopre che c’è un Testimone oculare del delitto, scomparso subito dopo l’omicidio.
– 7) Bellodi continua a dare fastidio.
8) L’Informatore viene ucciso. Ma prima di morire fa il nome di un capo mafia locale: don Mariano Ariena.
9) Il capo mafia viene prelevato dai carabinieri.
10) L’assassino di Colasberna confessa.
– 11) A Roma, questa volta Bellodi è diventato un bersaglio serio.
12) Il cadavere del Testimone viene ritrovato in una pietraia.
– 13) La pista imboccata da Bellodi è avvertita come qualcosa che crea una catena: dall’assassino di Colasberna, anello dopo anello, fino a certi ministri che stanno a Roma.
14) Bellodi interroga don Mariano Arena.
– 15) In Parlamento si discute animatamente dei fatti che, partiti da un piccolo paese siciliano, sembrano finire per coinvolgere esponenti del governo.
16) Il capitano Bellodi è in vacanza a Parma, sua città natale. Viene a sapere dai giornali che l’indagine da lui portata avanti è stata completamente smantellata e che don Mariano Arena è stato rilasciato.
Lo schema evidenzia un duplice andamento: la vicenda vera e propria seguita all’assassinio e i commenti, generalmente dislocati a Roma, che si fanno sulla vicenda. In questo schema è da rintracciare la particolare andatura della civetta che si muove di giorno, l’oscillare tra la Sicilia e Roma indica l’andatura goffa della civetta.
Due sono comunque gli elementi della narrazione: il primo, fondamentale, apertamente narrativo, che porta avanti l’azione; l’altro, secondario, con caratteristiche di commento dell’azione vera e propria, spesso limitata a semplici dialoghi. Il primo tipo di narrazione fa progredire l’azione di capitolo in capitolo; il secondo non è solo un commento, ma è anche il tentativo di far inciampare la vicenda, con il fine di bloccarne la progressione.
Seguendo la prima linea narrativa, si vede che il punto culminante è dato dal capitolo 14, l’interrogatorio del capo mafia don Mariano Arena da parte del capitano Bellodi. I successivi due capitoli funzionano infatti da finale: finale 1, un momento di una seduta alla Camera che discute sui fatti succeduti all’assassinio di Colasberna; finale 2, l’eco che giunge a Parma al capitano Bellodi, poco prima di una nevicata, dello smantellamento dell’inchiesta.
Sono queste due linee a costituire il movimento goffo della civetta alla luce del sole. È un andare buffo, sgraziato, non fatto per quell’ora, ma è un andare che tiene in equilibrio molte cose.

c) Un confronto
È quindi la scena presentata nel capitolo 14 a contenere il culmine della vicenda; senza di essa, l’insieme si sgretolerebbe.
Qual è allora l’elemento caratterizzante di questa scena? È contenuto in niente più che una mezza frase. Prima di richiamarla, sentiamo cosa dice don Arena verso la fine dell’interrogatorio: «“Io” proseguì poi don Mariano “ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… E invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi… E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre… Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo…”» (p. 65).
La frase che contiene tutto il senso del romanzo è una mezza frase che scatta a questo punto, come risposta del capitano alla classificazione di don Arena sopra riportata: «“Anche lei” disse il capitano con una certa emozione. E nel disagio che subito sentì di quel saluto delle armi scambiato con un capo mafia, […]» (p. 65). A questo punto la citazione si può fermare: il capo mafia prova stima per quel nemico e lo dimostra riconoscendogli il titolo di “uomo”, che per lui è il massimo riconoscimento attribuibile a un componente dell’umanità. Ma è fondamentale la reazione del capitano e questa reazione viene articolata in due momenti significativi:
1) Il capitano «con una certa emozione» riconosce in don Arena un “uomo”, risponde infatti: «Anche lei»;
2) Ma il capitano si sente subito a disagio, perché comprende di avere scambiato un saluto delle armi con un capo mafia.
È probabile che il capitano Bellodi non condivida la classificazione di don Arena, ma anche per lui il termine “uomo” è qualcosa di inequivocabile. Entrambi i personaggi, dai due lati della rispettiva linea di fuoco, si riconoscono in quel termine che diventa una specie di patrimonio comune. Si può praticare il “pizzo”, ordinare l’assassinio di diverse persone perché non si sono piegate a quanto richiesto, oppure destreggiarsi con piccoli informatori, non indietreggiare quando salta fuori il nome di un personaggio influente o addirittura di un ministro, ma, in tutti i casi, è sempre possibile comportarsi da “uomo”, e qualunque persona, se ne ha l’occasione, prova piacere a riconoscere nel nemico un “uomo”.
Arcipelago Gulag di A.I. Solženicyn presenta in un modo diverso le persone che si fronteggiano durante un interrogatorio. I casi presentati da Solženicyn sono completamente diversi da quello del Giorno della civetta, essendo persone sottoposte a interrogatori per attività antisovietiche, ma un qualcosa della situazione è comune. Soprattutto, Solženicyn non racconta la vicenda dal punto della legge, ma dal punto di vista di colui che ha infranto la legge. Ad essere osservato non è quindi colui che viene interrogato per un crimine che ha commesso, ma colui che interroga. La considerazione è la seguente: «Erano ancora dei russi ed erano più o meno in grado di capire le più semplici frasi russe come “è permesso?”, “permettetemi una parola!”. Ma quando stavano seduti come ora, fianco a fianco, dietro un lungo tavolo, e ci mostravano le loro facce bianche tutte uguali, pasciute, felici, prive d’ogni pensiero, era chiaro che erano tutti degenerati da tempo in un tipo biologico a sé stante, e che l’ultimo legame fra di noi era stato definitivamente troncato – non rimanevano che le pallottole.» (A.I. Solženicyn, Arcipelago Gulag, 2 voll., I Meridiani Mondadori, Milano 2001, tomo II, p. 343). Solženicyn non riconosce nei nemici che ha di fronte degli “uomini”, e nemmeno il minimo barlume di umanità in loro, ma li classifica come esempi di degenerazione, come un tipo biologico a parte.
Perché il capitano Bellodi – in quel momento culminante dell’azione – vede in don Arena un “uomo” anziché un esempio di degenerazione razziale, come fa invece Solženicyn in una situazione simile, anche se con le parti capovolte?
Perché nel Giorno della civetta due personaggi contrapposti, il capitano dei carabinieri Bellodi e il capo mafia don Mariano Arena si trovano a condividere uno stesso tipo, mentre in Arcipelago Gulag, una situazione simile, anche se di segno opposto, porta alla definizione di due tipi diversi, tanto che tra i due tipi possono esserci solo le pallottole, vale a dire la selezione razziale?
Nel Giorno della civetta due personaggi contrapposti si riconoscono come appartenenti allo stesso tipo; in Solženicyn personaggi analogamente contrapposti si riconoscono come due tipi razziali diversi – o per meglio dire, come un tipo ancora conforme a un tipo stabilito di razza e come un tipo nuovo, originato in seguito a una complessa degenerazione razziale.

d) Considerazioni
È adesso possibile trarre delle considerazioni su quello che la civetta dà a pensare con la sua parata. Vale a dire, trarre considerazioni sulla parata della civetta nel suo giorno.
Le due modalità si oppongono in seno alla parata nello stesso modo in cui ne costituiscono l’incerto procedere: parata vera e propria, di tipo seriale e di segno nominale (la “parata” in quanto sostantivo); di tipo puntale e di segno verbale (“parata” in quanto participio passato del verbo “parare”). Progressione e inciampo costituiscono indissolubilmente questa parata. La parte progressiva tende alla scena madre, il confronto tra il capitano Bellodi e il vecchio capo mafia; l’inciampo tende all’arresto del suo movimento unidirezionale, non nella forma di una interruzione definitiva, ma nella forma di un rimescolamento procedente a doppia via. È quanto si vede nel processo di “sicilianizzazione” dell’Italia intera accennato nel capitolo finale: «“Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia…”» (p. 74).
Ciò che costituisce “l’Italia tutta che va diventando Sicilia” è ciò che fa sì che un giovane e onesto capitano dei carabinieri e un vecchio capo mafia si riconoscano nel rispetto da attribuire al vero uomo e che possano provare, ciascuno per proprio conto, autentico rispetto reciproco.
C’è un momento in cui il testo sembra comprendere questa importanza del termine “uomo”, e accennare una riflessione: «A un giornalista, che gli aveva chiesto del capitano Bellodi, don Mariano aveva detto “è un uomo” e insistendo il giornalista per sapere se intendeva dire che, come uomo, era soggetto ad errore, o se invece non mancasse un aggettivo a completare il giudizio, don Mariano aveva detto “che aggettivo e aggettivo: l’uomo non ha bisogno di aggettivo; e se dico che il capitano è un uomo, è un uomo: e basta” risposta che il giornalista giudicò sibillina, e dettata sicuramente da irascibilità, probabilmente da malanimo. Ma don Mariano aveva voluto esprimere, come un generale vittorioso nei confronti dell’avversario sconfitto, un sereno giudizio, un elogio: e così veniva ad aggiungere un tocco di ambiguità, piacere e insieme irritazione, ai sentimenti che si agitavano tempestosi nell’animo del capitano.» (p. 73).
Il testo sembra soltanto accennare ad una riflessione, ma poi si ferma lì. È invece in quel punto che si dovrebbe fare una riflessione, in questo sentimento di fratellanza, in questo non poter fare a meno di scorgere l’uomo là dove non ci si sarebbe mai aspettato di trovarlo, in questo senso di commozione che ci invade quando, all’improvviso, ciò che prima si teneva lontano come “altro”, appare invece essere come ciò che è di casa intorno a noi, perché è tutto questo che, fra l’altro, fa sì che si possa accettare come “di casa” cose invece ignominiose come la mafia (e l’Italia).

 

Leonaro Sciascia, Il giorno della civetta, Adelphi, Milano 2015.

ControVortice

La nozione di “Capitale Vortice” di Pound richiama il Rinascimento italiano. Ogni forma di rinascimento è plasmata sulla forma del Rinascimento italiano. Tutto in Pound nasce sempre da una visione italiana. Non per niente Pound ha passato gran parte della sua vita qui vicino, nella maledetta Italia. Quello che adesso serve è un Nuovo Inizio a partire da una Grande Germania dello spirito. Vale a dire da una base di civiltà germanica, che deve escludere tutto ciò che è legato alla civiltà latina. Prima di tutto alla civiltà italiana. Come parlare – adesso – di civiltà germanica, se tutto ciò che era germanico è stato inquinato dalla invasione della civiltà latina? L’idea di “Grande Germania” è qualcosa che può essere pensato in Europa a partire da Heinrich Himmler. Questo è anche qualcosa che prevedeva la scomparsa della piccola Germania a favore di una più grande Germania. Appunto una Grande Germania dello spirito. Con il risultato di salvare l’Europa dalla minaccia che già allora la attendeva. Dove va a parare il Vortice di Pound? Dove si muove, questa previsione di un “arcobaleno della gravita”, cioè di una traiettoria? Nel multiculturalismo della civiltà multirazziale. Che dire poi di Frobenius, richiamato da Pound? Dal concetto di “Capitale Vortice” di Pound si può facilmente arrivare a quello di civiltà multirazziale, che è alla base della nozione di multiculturalismo – stranamente imperante oggi. Goethe ne sapeva qualcosa. Mai sentito parlare di Weltliteratur? Questo perché da una nozione (il Rinascimento) che ha la sua origine nella stramaledetta Italia – vale a dire tra il meticciato italiano, come giustamente lo stesso Goethe aveva riconosciuto – deve sempre derivare una nozione degenerata. Sempre più avviata nella degenerazione (secondo la fisica che sostiene l’arcobaleno della gravità nella sua traiettoria). Deve ancora arrivare il periodo del grande disprezzo. Ma quello che dico io è che serve un “ControVortice”, un movimento che si opponga al vortice che Pound fissava nella “Grande città” della maledetta Italia. Questo deve soprattutto implicare un contro-rinascimento che sia anche fissato in una saggistica anti-Montaigne.

L’abbaglio del realismo magico

Si è mai notato come i primi tre racconti di Mondo piccolo. Don Camillo (1948) di Giovannino Guareschi, intitolati rispettivamente Prima storia, Seconda storia, Terza storia, ricordino la tematica del realismo magico? In questi racconti abbiamo la minaccia blasfema che spaventa Dio, la tomba del cane morto che difende la terra, la fidanzata morta che attende il suo fidanzato puntualmente per anni nello stesso luogo. Questi racconti, dice Guareschi, hanno la funzione di presentare l’ambiente dove agiscono don Camillo e Peppone, ma non appena essi arrivano l’incanto si smorza. Il caso di Guareschi è appena un soffio, ma ce n’è abbastanza per riconoscere nel realismo magico “ufficiale” – quello applicato al colonialismo – un gioco truccato. La letteratura postcoloniale è creata dai critici – e da quei critici propinata ai lettori come letteratura caratterizzata da quello stile particolare, ma in realtà non è così. Perché Guareschi non ha continuato quella sua vena narrativa? I racconti di don Camillo e Peppone sono bozzetti simpatici, ma di gran lunga inferiori. Tuttavia il libro finisce con un’altra sorpresa. Gli ultimi tre racconti (La paura, La paura continua, Giallo e rosa) sono legati dalla trama comune. Una persona viene uccisa. Chi ha commesso l’omicidio? All’omicidio ha assistito un bambino, il figlio dell’ucciso. Che ha visto in faccia l’omicida e lo ha riconosciuto. Che ha rivelato in confessione il nome dell’omicida a don Camillo, il quale però è tenuto al segreto della confessione e quindi non lo rivelerà mai. Così due persone sono in pericolo: il bambino; don Camillo. Peppone sa che don Camillo sa chi è l’omicida, ma sa che don Camillo non lo rivelerà mai, come infatti don Camillo gli conferma a voce. Un racconto giallo si interrompe così con la violazione del principio basilare del genere: l’assassino non viene svelato, le persone messe in pericolo dal non svelamento del nome dell’assassino rimangono in pericolo. E l’azione resta sospesa.
Non sarebbe male partire da Guareschi per liquidare il realismo magico. Il Dio semita impaurito dalle minacce di un padre il cui figlio di due anni sta morendo, la tomba di un cane che diventa il protettore della terra su cui è sepolto, il fantasma di una ragazza che attende ogni sera il passaggio del suo fidanzato appoggiata a un palo del telegrafo, sono immagini che vanno ben oltre l’abbozzo di uno sfondo come era visto dagli occhi di un bambino. La tecnica usata qui è la stessa di quella del realismo magico: una terra maledetta, appena sfiorata dalla civiltà; un ambiente dove i morti si uniscono ai vivi, gli dei possono essere raggiunti da pochi personaggi eccezionali – e, se è il caso, messi in pericolo, e alcuni animali diventano spiriti protettori della terra. La Bassa cova l’uovo di Macondo. Il realismo magico è un’aggiunta arbitraria alla letteratura postcoloniale; o, se si vuole, il tema del colonialismo è un’aggiunta arbitraria alla rappresentazione di una terra che possiede certe caratteristiche di base (scetticismo nei confronti del progresso, attaccamento alle origini, diffidenza verso ciò che è straniero). Questa aggiunta arbitraria è una truffa che ha lo scopo di creare un genere letterario autonomo e lanciare un’accusa all’Occidente. Ma meno che mai c’è l’ombra del complotto; chi lo fa, agisce per sé.
Dumézil parlava di due tipi di magia: una alta, tipica delle due funzioni superiori, e una bassa, tipica della terza funzione. Una magia di alto livello, sacerdotale e guerriera e una magia plebea, per lo più contadina. Il realismo magico è un modo di vedere la terra dal basso, nei suoi legami con la gente bassa. Non c’è niente della catena aristocratica che passa per la terra per sorpassarla alla fine che è all’inizio. C’è la casualità di essere in un ambiente tanto magico quanto primitivo.

Il cedimento

La musica è un sistema di equilibrio tra costrizione del ritmo e liberazione dal ritmo, così come l’Artista è colui che deve bilanciare opera e mancanza di opera.
Questo rimanda alla differenza tra ambiente e mondo. Ma “liberazione dal ritmo” non implica mancanza di regolarità. Le musiche primitive del meticcio Šostakovič e del meticcio Rossini hanno la loro spiegazione a partire dagli animali, cioè in una regolarità che si limita a seguire un ritmo percussivo (per cui, più che di musiche, sarebbe il caso di parlare di ricorrenze ritmiche). Questo è il modo di comprendere la musica da parte dei meticci (si tratti di meticci russi o di meticci italiani). Questo perché un meticcio è qualcosa che ha la sua spiegazione nell’animale anziché nell’essere umano. La musica nasconde in sé la filosofia. Oppure la filosofia è ciò che in essa deve essere infine tratta fuori, vale a dire recuperata. Almeno in un primo tempo.
I grandi compositori tedeschi dovranno sempre combattere contro l’influsso del meticciato italiano nella musica. La musica sarà qualcosa da depurare da un influsso negativo. Pensate a quello che diceva Gobineau sull’origine della musica.

Filmmusik

La musica è pensiero a una diversa velocità rispetto a ciò che al pensiero è permesso per tramite della lingua. Questo non vuol dire che la musica abbia bisogno della parola (come Mann semplicemente intendeva nel Doctor Faustus). Proprio tenendo lontano le parole, oppure giocando con esse, la musica si determina in quanto pensiero a livello superiore. Il vero inconveniente per la musica è rappresentato dalla evocazione di qualcosa ad essa esterno, vale a dire il richiamo ad un “programma”.
Se le sinfonie di Mozart rappresentano un passo indietro rispetto al livello raggiunto da Haydn, quelle di Beethoven rappresentano un passo a lato, come a dire che la sinfonia è finita. L’Eroica e la Pastorale sono le sinfonie che più piegano la musica alla rappresentazione di qualcosa d’altro: sentimenti eroici, sentimenti pastorali. La musica sinfonica è condannata a diventare musica d’accompagnamento. Beethoven stravolge la sinfonia. Così la musica comincia a diventare qualcosa compatibile con l’ascolto distratto, come poi sarà con la colonna sonora musicale del film. Il dato più importante di Beethoven è la variazione continua, che si esprime a pieno nelle ultime sonate per pianoforte e negli ultimi quartetti, che escono dalla rappresentazione extra-musicale. L’espansione della musica da camera indica il tramonto dell’orchestra, ormai abbandonata al suo destino di commento di un’azione e dei sentimenti a quell’azione collegati. Sul piano sinfonico il vero genio che riscatterà l’orchestra dall’impegno della rappresentazione sarà Bruckner.
In Beethoven questo spostamento verso il programma scompare nei concerti. Il Concerto per violino, i cinque concerti per pianoforte e il Triplo concerto non hanno niente di avvicinabile alla “musica a programma”. È come se lì la musica si concentrasse sul solista in un movimento centripeto.
La colonna sonora dei film comprenderà sempre l’orchestra, non chiamerà mai un piccolo gruppo da camera. È appunto una questione di “colore orchestrale” che ormai ha preso gioco in tutto il campo. Vale a dire: la musica sarà solo accompagnamento. La musica è invece a tutti gli effetti ciò che ha lo statuto del pensiero, come la letteratura, quando è ad alti livelli. Ricordare l’uso del colore orchestrale nella scena della forgia delle pallottole nel Freischütz. Si è di fronte a un processo che accompagna il romanticismo. Beethoven ammirava l’uso dei clarinetti in quella scena. Il carattere stesso della scena è sintomatico: dal punto di vista tematico è povera, ma il colore strumentale le conferisce una grande potenza.
Con il romanticismo si crea uno strano rapporto tra sinfonia e musica a programma. L’esempio massimo è la Sinfonia fantastica di Berlioz, che cerca un equilibrio tra “programma” e forma sinfonica; è infatti rispettata la successione dei vari tempi della sinfonia e la struttura generale. La sinfonia vera e propria tenderà ad essere abbandonata nel romanticismo (come si vede in Schumann). Il romanticismo esalta la musica a livello teorico, ma la spoglia a livello pratico.