Mozart

C’è qualcosa che non va nello stile di Mozart? Quello che non va, nello stile di Mozart, è quello che si presenta come l’introduzione dello stile di Haydn nello stile di Mozart. Inserito nello stile di Mozart, questa introduzione dello stile di Haydn mette in risalto quello che non va nello stile di Mozart. E permette di vederlo meglio – nella sua povertà?
Mozart ha composto cose altissime imitando qualcosa dello stile di Haydn (la sinfonia “Linz”, i quartetti “Haydn”) ma appunto come imitazione di qualcosa dello stile di Haydn. Manca, da parte di Mozart, lo stile come base? Qual è lo stile di Mozart?
Con Mozart si ha lo sfaldamento dello stile classico, che con Haydn ha avuto il suo culmine. In Mozart il tema è sempre qualcosa di isolato (come poi sarà nelle Kinderszenen o nelle Waldszenen romantiche). Il tema non è più qualcosa che funziona come costruzione di un insieme organico (come nella forma-sonata di Haydn), ma qualcosa di autosufficiente, che tende a vivere solo nel suo isolamento. Il punto più debole di Mozart è infatti la grande forma. La sinfonia Linz o il Quartetto delle Dissonanze lo dimostrano “appieno”, cioè andando a fondo. Perché Mozart potesse creare delle grandi forme doveva appoggiarsi a Haydn. Mozart è stato un punto di passaggio tra classicismo e romanticismo. E per questa ragione nella storia della musica ha la funzione di precursore del romanticismo.
Mozart rappresenta la dissoluzione dello stile classico in un modo molto diverso rispetto a Beethoven. Infatti Mozart rappresenta questa dissoluzione dall’interno. In Beethoven era sempre fondamentale la grande costruzione, per quanto ormai diversa da come si era manifestata nel classicismo. In Mozart la disgregazione avviene dall’interno, cioè dalla cellula del tema, che non chiede più la cornice della forma. Il tema di Mozart è qualcosa che chiede una vita autonoma di per sé, come i temi delle scene per pianoforte di Schumann. Questo è l’altro aspetto del romanticismo.
In Beethoven il tema è inquadrato in una struttura formale, che rispetta ancora i modelli della forma classica. In Mozart il tema è qualcosa che è insofferente di una struttura – e che ne fa a meno –, essendo qualcosa che deve manifestarsi al di fuori di una struttura.

Tromsøs siste vognmann

Ora posso dire che la voce di Odd Andersen, che, quando col piacere della consuetudine, ho imparato a conoscere, e mi è capitato di ascoltare, mi ha accompagnato, per più di dieci anni, in quelle sale della birra di Tromsø, era simile a quella di “Radiolina” Roberto Maini, alla quale non ho mai prestato attenzione, quando non potevo fare a meno di passargli accanto, giù in fondo nella maledetta Italia. (Dio stramaledica l’Italia!) Tutte e due le cose mi aspettano. Tutte e due le voci sono state un accompagnamento nel mio andare in quelle due parti del mondo con le quali ho avuto a che fare. Andare frettoloso, in una terra che ho sempre disprezzato, quando accostavo Maini giù nella maledetta Italia; andare con attenzione, quando riconoscevo Odd Andersen, seduto tra i suoi amici, oppure ne sentivo solo la voce nella Ølhallen, seduto al posto di Hallvard, dove, per una conformazione del locale, non lo potevo vedere, su nel Sacro Nord, che io allora potevo creare.
Una volta è passare per non vedere, ma poi è fermarsi per proteggere. Lo spazio diventa così tempo. Il Nord non lo posso più proteggere. Che cosa è del mondo che vorremmo proteggere? Che cosa è della persona che abbiamo visto scomparire, tempo dopo tempo, quando tempo è solo attimo, intorno al nostro andare nello spazio diventato tempo – di colpo solo per noi?
Niente risponde alla domanda “chi sono?”, se non c’è la domanda “che cosa è rimasto?”. Figure che, conosciute, chiamano adesso: Wilhelm Reich, Nietzsche. Ma Nietzsche deve funzionare come un polo di maggio innalzato tra Heidegger e Sade. Questo perché bisogna mantenere alte le tradizioni germaniche.
L’odio nei confronti del meticcio italiano è ciò mi sostiene dal profondo. L’odio nei confronti di ciò che io chiamo (in segno di disprezzo verso il “popolo” italiano) “il meticcio italiano” è ciò che deve determinare il carattere di ciò che è veramente europeo. Ma l’odio verso il meticcio italiano è ciò che deve richiamare all’odio verso ogni tipo di razza sotto-umana. L’odio verso ogni tipo di razza sotto-umana è questione di istinto. Riconoscere una razza sotto-umana è questione di silenzio. Il resto è rumore fatto modernità.
Nei confronti dei meticci italiani ho sempre avuto la stessa forma di diffidenza. L’odio verso ogni tipo di razza sotto-umana è quel mormorio che non può essere consegnato alla modernità, poiché è ciò che la modernità non tratta ma bistratta. Che cosa sono gli Italiani? Un miscuglio, un bastardume, un meticciato. Un miscuglio di mezzi Negri, mezzi Zingari, mezzi Ebrei, mezzi Arabi, mezzi Indios. Parlare di Italiani è il modo più spiccio per parlare di razza sotto-umana – quando non si hanno più spiccioli da spendere. Gli Italiani sono l’autentico meticciato che ha conquistato il mondo. Le forme sub-umane che lo compongono sono solo feccia che impesta il mondo moderno: sono la feccia del mondo che però lo imposta come faccia del mondo. Quando si parla di Negri, di Zingari, di Ebrei, di Arabi, di Indios, di meticciato, si parla solo di feccia. Feccia che deve essere eliminata attraverso il richiamo a un grande sciacquone. Ma dove trovare l’anello della catena che, tirandolo, spazzerà via tutta quella feccia dal mondo – azionando il grande sciacquone? Vale a dire: dove trovare il grande sciacquone?
Solo uno Stato Mondiale – ma beffardamente, nei confronti della globalizzazione – potrebbe prendere in considerazione l’autentico progetto mondiale di una eliminazione delle razze sotto-umane attraverso un grande sciacquone. Infatti l’unico modo, per cui la “globalizzazione” potrebbe essere richiamata, è il progetto globale della eliminazione delle razze sotto-umane. Questo perché è possibile parlare di Europa solo attraverso una rifondazione dell’Europa a partire da Auschwitz. Così questo progetto deve prendere in considerazione tanto il progetto degli abbattimenti mirati quanto il progetto della costituzione di una nuova schiavitù. Auschwitz è il progetto da cui l’Europa deve partire per una rifondazione dell’idea di Europa.
Le razze sotto-umane devono infatti rispondere a questo doppio intendimento: abbattimenti mirati e costituzione di una nuova schiavitù (per “abbattimenti mirati” si intende la soppressione di quegli individui che, appartenendo alle razze sotto-umane, non possono funzionare come schiavi; per costituzione di una nuova schiavitù si intende la messa in opera di una nuova casta di schiavi; la compresenza del concetto di abbattimenti mirati e di ricerca di una nuova casta di schiavi è ciò che porta alla formazione di un nuovo concetto di essere umano).
Che è ciò che porterà al nuovo inizio della filosofia.

Roberto Maini nella maledetta Italia
Odd Andersen alla Ølhallen

 

Roberto Maini (video)          Odd Andersen (audio)

L’ultimo dio

Ragnarök di A.S. Byatt e Il richiamo del corno di Sarban possono essere accostati in base al tema del ritorno del mito, rappresentato, in tutti e due i testi, dal richiamo al tema folklorico della Caccia Selvaggia. In entrambi i testi il protagonista, o il personaggio a lui più vicino, vivono una esperienza che li porta a essere sfiorati dalla Caccia Selvaggia, e a rischiare di essere, secondo modi diversi, inglobati nel corteo della Caccia Selvaggia (nel Richiamo l’inglobamento viene evidenziato dalle diverse nazionalità presenti nella foresta dove scorre la Caccia; in Ragnarök l’inglobamento viene evidenziato dalla comunanza di sorte con colui che è stato portato a combattere nell’aria). Essere sfiorati dal mito è sempre una esperienza avvertita come pericolo. Quando il mito è finito – in entrambi i testi la fine del mito è segnata dalla sconfitta della Germania nazista –, la nuova vita viene avvertita come stato di profonda depressione. Cioè come depressione indotta dalla scomparsa del mito dal mondo, per cui la vita compare come un grande vuoto che accerchia tutto intorno chi si è trovato nello stato di colui che si identifica come colui che è soltanto sopravvissuto. Tolkien ha suggerito come la sconfitta del nazismo avrebbe potuto significare il rutto della brutta Europa che stava emergendo da tutte le parti contro tutti gli europei rimasti. Tolkien partiva dal mito, e aveva accusato la Germania nazista di proporre una lettura inglobante del mito germanico ad essa favorevole. Ora possiamo dire che quel balbettio, allora appena consegnato in quella lettera di Tolkien, ha realmente segnalato la brutta Europa che si stava preparando, che è ciò che gli Europei si trovano adesso intorno da tutte le loro parti. Che è ciò che, intorno a loro, gli Europei sono chiamati a dovere chiamare Europa, ma che è solo una cosa estranea che gli Europei stentano a scacciare via – in quanto cosa del tutto estranea agli Europei e che, per gli Europei, suona solo come accerchiamento. Questo perché l’Europa non è più la terra degli Europei. Dire adesso “Europa” equivale a segnalare dove si trova il massimo pericolo. Infatti l’Europa rischia di non essere più la terra della razza bianca d’Europa. Che è ciò che rappresenta il massimo pericolo per la razza bianca. La razza bianca d’Europa è ciò che ha determinato l’Europa, per cui è tanto più giusto dire adesso: l’Europa alla razza bianca d’Europa!
Eliminare ciò che richiama il nuovo concetto di “essere umano”, è ciò che comporterà la nuova epoca. Il vecchio concetto di essere umano, di cui noi non possiamo fare a meno di parlare, è qualcosa che viene da una lontana filosofia. Pervenire a una nuova definizione di “essere umano”, non è solo ciò che porterà a un nuovo inizio della filosofia, ma anche ciò che deve condurre alla pratica degli “abbattimenti mirati”. Lovecraft ha segnato questa epoca come il peso dei sogni che alcuni si trovano a doversi portare addosso. Ma per questo ci vogliono sempre più filosofi scellerati (secondo la felice definizione da Klossowski utilizzata nei confronti di Sade).
Il testo di Borges dal titolo Ragnarök (incluso nella raccolta L’artefice), per quanto non sia un racconto, bensì il resoconto di un sogno, è ciò che permette di collegare i due testi: il primo per il titolo, il secondo per il richiamo al tema del sogno. Il testo di Borges potrebbe diventare il racconto che si è andato a pescare alla fine del mondo, in una delle tante spazzature del mondo. Infatti solo così il testo di Borges può essere richiamato: in Europa suona il richiamo del mito; alla fine del mondo, in una delle spazzatura d’Europa, si presenta il ritorno di una accozzaglia di dei, provenienti da Roma e dall’Egitto, che porta al loro – legittimo – “linciaggio”.
L’Europa non è ancora pronta per il politeismo – questo è ciò che il resoconto di Borges rende evidente attraverso il richiamo alla degenerazione degli dei prodotta dalla persecuzione condotta insieme dalle religioni della razza semita (“la Luna dell’Islam” e “la Croce di Roma” di cui parla il testo). Per meglio dire, a partire dal testo di Borges è evidente che l’Europa non è ancora pronta per il ritorno degli dei indoeuropei. Cioè degli dei della razza bianca. Questo perché l’Europa non è ancora pronta per la razza bianca d’Europa. Infatti nel testo di Borges tornano tutti gli dei, dei romani e dei egiziani. Indifferentemente dalla razza. Infatti il racconto di Borges non è ambientato in Europa: il ritorno di quella accozzaglia di dei è qualcosa che viene visto subito come qualcosa che puzza di malavita. Gli dei, nella terra alla fine del mondo, sono diventati perfetti malavitosi di quartieri di metropoli alla fine del mondo. Il loro andare per il mondo li ha soltanto impoveriti e stretti insieme nel cerchio della malavita alla fine del mondo.
Contro Faye, bisogna sempre pregare Dio affinché ci aiuti a portare a noi l’ultimo dio di Heidegger. Infatti dice Faye: «Quanto al contenuto di fondo, la mitologia nebulosa e più che torbida dei Beiträge non incita ad augurarsi che l’umanità conosca mai l’avvento di questo “ultimo dio”, tanto più che il titolo stesso della sezione, Die Zukünftigen, non può non ricordarci “Die Kommenden”, cioè il titolo della rivista del Bund degli Artamanen da cui è emerso Himmler, e alla quale Ernst Jünger fornì in particolare numerosi articoli» (p. 392), che è proprio l’insieme nebuloso che si chiede. L’incontro con il mito deve essere un pericolo. Se non c’è pericolo, non c’è incontro col mito. Perché non c’è pensiero – e pensiero è pericolo. Il testo di Borges rappresenta il falso ritorno degli dei, proprio perché non presenta l’insistenza di questo pericolo. È un pericolo che viene “fatto fuori” con il richiamo a una scena da film (le pistole estratte). C’è un regolamento di conti a livello di malavitosi, come è giusto che sia in uno stato spazzatura, dove la maggior parte di quelli che vivono lì sono italiani.

E. Faye, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, L’Asino d’oro, Roma 2012

Sarban, Il richiamo del corno

Quando, dopo quattro anni di prigionia trascorsi in due campi di concentramento tedeschi, il tenente della marina britannica Alan Querdilion fa ritorno in Inghilterra, le persone che lo avevano conosciuto si rendono conto che è diventato un qualcosa di diverso da quello che era prima della partenza per la guerra. Riporta il narratore del Richiamo: «Forse troppo spesso si dà per scontato che il tempo e una dura guerra siano causa di grandi cambiamenti nel carattere di una persona, e in seguito mi stupii di aver dato così poca importanza a quanto era cambiato Alan. Perfino la sua trasformazione dall’esuberante giovanotto sicuro di sé, vivace, pieno di energia, che eccelleva in ogni sport, in quella creatura silenziosa, apatica e insicura, mi era sembrata soltanto far parte del generale stato di appiattimento e di disfacimento del mondo e dell’affievolirsi della forza e del morale di cui l’Inghilterra pareva soffrire fin dal 1939.» (p. 6). Di diverso avviso è la madre di Alan, che, rispetto al narratore, dà una diversa interpretazione di quella trasformazione. Riporta il narratore: «Ecco come stavano le cose per lei: “Loro” avevano rimandato indietro il suo corpo, più o meno sano, e con quel tanto di capacità mentali che gli permetteva di occuparsi dell’amministrazione quotidiana della piccola fattoria che suo padre gli aveva lasciato; ma si erano tenuti il resto. Che cosa gli avevano fatto? O che cosa lui aveva fatto a se stesso durante i quattro anni trascorsi in quel campo di prigionia?» (p. 7). Eppure il tempo è passato per tutti. Ma il tempo di quella guerra non è passato per tutti come lo stesso tempo di quel tempo. Perché solo Alan è stato così segnato da quel salto nel tempo di quel tempo di guerra? Si potrebbe rispondere che Alan era stato rilasciato – in un primo tempo – per essere richiamato in un secondo tempo tutto diverso – che è ciò che riporta quanto riportato dal narratore del Richiamo, in quanto ciò che è stato segnalato dal Conte – quando, secondo il resoconto, il Conte lo ha rilasciato. Che cosa ha segnalato quella guerra? Infatti per alcuni non ha segnato nulla, che è quello che ha fatto infuriare Faye. Ma queste sono solo cosette da ridere! Eppure questa risata apre alla domanda: “chi è che fa il resoconto del Richiamo?”. Qui abbiamo una interpretazione sociologica che si oppone a una interpretazione più difficile da classificare.
Ascoltando il richiamo, Alan ha detto “sì” al mito. E ha imposto la necessità del mito, cioè la possibilità del suo ritorno. Due sono le possibilità del ritorno del mito, che l’avventura di Alan nel tempo riporta nella forma di resoconto compiutamente storiografico. Alla fine del resoconto (che appare come storia raccontata davanti al camino), il Conte lo lascia libero, ma gli fa una promessa, che lo richiama al vincolo di quella doppia accettazione, segnalata dall’altro richiamo: «Cross». Che è ciò che suona come la possibilità offerta di tenere fede al ritorno del mito. Che impegna entrambe le figure, Cacciatore selvaggio e selvaggina, a una nuova battuta di caccia come parte del mito della Caccia Selvaggia. Infatti il richiamo «Cross» vale tanto quanto richiamo all’attraversamento – cioè come richiamo ad andare oltre – quanto come richiamo alla sosta nel luogo in cui si è raccolta la Croce prima del suo balzo. Questo perché la minaccia che pende sul cerchio del mondo è sempre la Croce che, partendo da Sud, dove ha la sua maledetta origine di razza, balza stramaledettamente verso Nord. Quindi la Croce è tanto ciò che deve essere “attraversata” quanto ciò su cui ci si deve soffermare in quanto pensiero da svolgere per andare veramente oltre. Che è appunto ciò che Alan si impegna a fare rispondendo a quel secondo richiamo.
La foresta è il luogo dove si incontrano gli interventi correttivi fatti nella nuova epoca sui corpi che la nuova epoca raggiunta dovrebbe essere in grado di indicare come oggetti. Ma la foresta è pure lo spazio dove si incontra il mito. Eppure c’è da chiedersi: c’è stata una nuova epoca, secondo quanto riportato dal romanzo Il richiamo del corno? A metterlo in dubbio non è solo il timore di Alan di essere realmente passato, almeno per un certo periodo di tempo, “dall’altra parte”, ma è la persistenza del concetto di “essere umano” in quella nuova parte raggiunta. Questo si nota già a partire dalle constatazioni degli schiavi impiegati nella clinica secondo quanto segnalato da Alan e riportato dal narratore del Richiamo. Lo schiavo non è mai qualcosa che è stato fatto per attirare l’attenzione, eppure questi schiavi sembrano proprio essere qualcosa fatti per attirare l’attenzione, o almeno una particolare attenzione. Attirare l’attenzione di un ospite che ha suonato a lungo, prima atteso e poi finalmente accolto. Tutta quella struttura sembra infatti tenuta in piedi per ospitare quell’unico ospite, che è colui che determina l’interpretazione dei sogni. E questo richiama il meccanismo del sogno.
Il mondo può essere il sogno di una sola persona, che a un certo punto decide che certi altri devono uscire di scena e nuovi altri devono entrare e che alla fine decide che anche per lui è arrivato il momento di uscire di scena. Infatti la questione è questa: la cornice. Il sogno è raccontato all’interno di una cornice. Non si ha il sogno sulla base di una interpretazione dei sogni redatta da colui che formula la nuova interpretazione del sogno. Si ha il racconto di un periodo lontano, fatto in un tempo di profonda depressione. Il salto nel tempo, che tanto ha turbato Alan, e il passaggio dei raggi Bohlen, che tanto hanno turbato il dottor Wulf, sono solo il limite della cornice. Questo perché il Richiamo è solo il racconto che compare incorniciato. Nelle case dei cacciatori le corna indicavano il trionfo riportato dalla caccia. Ma la caccia alla quale qui si chiama è qualcosa che chiede di andare oltre il trofeo delle corna. Che è ciò che la caccia chiama nel richiamo finale: «Cross». Infatti Alan non mette le corna a Elizabeth (fautrice della caccia) con Christine (ragazza-selvaggina). Poiché entrambe le donne sono i bracci di una Croce che deve essere oltrepassata, anziché abbracciata. Infatti ci si deve chiedere: se il riconoscimento della nuova epoca raggiunta era stata ottenuta con l’addizione, cosa c’è da chiedere, come sottrazione, nel momento in cui si rioltrepassa la barriera?
Il salto temporale subito da Alan avviene in due direzioni: in avanti, in un segmento nel tempo, nell’anno 102 dell’era hitleriana; all’indietro nel tempo, in un punto del tempo, nella sala di uno jarl, mentre, seduto sul suo há-sæti, lo jarl è insieme alla sua schiera.
Alan è l’unico vero ospite di quello spazio diventato tempo. Tutto è costruito in rapporto ad Alan, perché tutto è uno scenario attentamente costruito per essere mostrato ad Alan. Lo jarl non ha mai avuto nessun altro ospite nella sua sala: l’unico vero ospite è Alan; il dottor Wolf non ha mai avuto altri ospiti nella sua clinica, perché l’unico vero ospite è Alan. E tutto lo scenario è un sipario di messa in scena allestita per Alan. Il tipico lavoro del sogno, che rende tanto simile un sogno a un rebus, si vede soprattutto nell’uso fatto con i nomi propri all’interno del Richiamo. È come se tra personaggio e cosa mostrata dal suo nome ci fosse una legge di spiegazione dell’uno nell’altro attraverso la trasformazione.
Filastrocca dei nomi parlanti: porsi sul sentiero di Þórr, dopo avere scavato una prima volta, in compagnia dell’amico dal nome giusto, il lungo tunnel, e avere incontrato il lupo della fontana delle querce, permette di raccontare l’incontro con la ragazza-selvaggina, che chiude al tempo della fuga attraverso il lungo tunnel, ma fornisce il giusto kit per aprire al tempo del ritorno del mito a colui che ha in sé il cuore del leone necessario per fare questo.
Tipologia degli interventi correttivi che si incontrano nella foresta:
a. Le ragazze-selvaggina. Solo costume cucito addosso. Quello che Alan incontra qui è l’intervento minimo. Ma, avendo una volta risposto al richiamo del mito, Alan si espone al vero richiamo, che è ciò che il Conte gli suona in diversi modi. Per cui l’esemplare di ragazza-selvaggina deve essere eliminato, in quanto zimbello, cioè cosa che si sa fasulla in quanto “cosa”. Tempo che annulla tempo. Tempo della spiegazione: infatti Kit fornirà la spiegazione circa quel tempo di interventi.
b. I ragazzi-scimmia. A livello degli interventi, essi costituiscono la formula per una pura storiografia. Tempo di raccoglitori: i ragazzi-scimmia hanno la sola funzione di raccogliere la preda. Tempo del puro spettacolo. Gli interventi servono solo a creare un tipo curioso da vedere, ma atto al solo riporto della preda.
c. Le donne-gatto. Rappresentano il risultato pieno degli interventi. Che chiama il tempo della caccia. Che è il tempo della ricerca della fonte.
Alan ha a che fare con due donne: Elizabeth, la sua fidanzata prima del tempo del salto nei due tempi, fautrice della caccia, erede di un primo nome semita. L’etimologia del primo nome semita è un richiamo al dio semita come “perfezione” del dio oppure come richiamo al riposo del giorno di festa in onore del dio semita. Ogni etimologia è una eredità. Ogni vocabolario etimologico è una eredità che può chiamare una accettazione quanto un rifiuto. Ma ciò che l’esperienza di Alan riporta è proprio il disinteresse verso questo tempo di sosta nel tempo che chiama a una eredità. Christine North, la Fanciulla-selvaggina coinvolta nella caccia, appunto in quanto selvaggina, ed erede, a sua volta, di un nome semita, non introduce qualcosa di diverso: niente scampo per Alan. Christine North è l’essere doppio, come direbbe Clarisse, che pensa di unire Cristo e Nord – e che poi redime Alan, perché porta in sé il richiamo alla funzione della redenzione. Christine North, precisa di essere sempre stata chiamata, in casa sua, col nome Kit; infatti Christine North è appunto un kit che permette ad Alan, dopo il loro incontro, di trarsi d’impaccio, cioè di sottrarsi da una situazione di imbroglio a causa di un impiccio del tempo, grazie a un kit di comportamento. Il Nord è ciò che può essere adesso vissuto come qualcosa che può essere solo patito. Christine è la versione di sogno di Elizabeth che giunge a Alan nel tempo del sogno in cui il sogno viene avvertito come tale. Il tempo del sogno è il tempo in cui il mito ha la parvenza di un qualcosa passibile di essere soltanto segnato come rebus. Questo perché tutta la storiografia del Richiamo è esposizione della struttura del sogno. Il tempo di guerra è allora il tempo di un sogno collettivo. Se tutte le persone – imprigionate, allora, in quel tempo di guerra – potessero sognare insieme, allora sognerebbero il ritorno del mito, che ha la figura dello jarl del Richiamo. Così come, per Clarisse, Moosbrugger è la figura che corrisponde al sogno collettivo del suo tempo, perché se tutte le persone del suo tempo potessero sognare in quel tempo insieme, allora esse sognerebbero Moosbrugger.
In quel tempo, da Alan visitato come salto, riportato come “soggiorno nell’altra parte”, manca una nuova nozione di essere umano. Che è quello che invece doveva imporsi con la fine dell’epoca della metafisica, in quanto inizio di una nuova filosofia. Invece in quella nuova epoca, riportata dal Richiamo, è vigente la nozione di essere umano dell’epoca pre-nazista, cioè l’epoca della vecchia filosofia. Questo è segnalato da ciò che dice Christine North quando, con fatica, si toglie il costume di ragazza-selvaggina: «“Ah, maledetta precisione tedesca!” esclamò lei con disprezzo, e buttò la maschera fra i cespugli. “È incredibile quanto si diano da fare perché ogni minimo dettaglio sia perfetto. Quei guardacaccia sono dei monomaniaci, e quello che li rende veramente disumani è la loro impossibilità di capire che tu sei un essere umano: ti stanno intorno per ore, affinché il tuo costume sia esattamente quello che ci vuole per la parte che ti hanno affibbiato in uno dei loro spettacoli, eppure senti che non hanno la più pallida idea di chi hanno di fronte”.» (p. 91). Ma la stessa mancanza di una nuova nozione di essere umano si nota anche in ciò che Christine North aveva poco prima detto delle donne-gatto: «“Io non ho mai visto quelle donne-gatto, ma me ne hanno parlato. E soprattutto le ho sentite. Devono essere quelle operate, immagino”.» (p. 88). Tale mancanza è perfettamente segnalata dal commento di Alan: «E la naturalezza del suo tono mi turbò più delle sue parole. L’asportazione chirurgica da un corpo perfettamente integro di quell’elemento che gli conferisce la luce di un’anima umana per lei non sembrava una fantasia da incubo, ma pura routine.» (p. 88). In entrambi i casi, i riferimenti sono sempre a un caso dello spettacolo. Uno spettacolo è qualcosa cui si può partecipare oppure no, di cui si può anche ricordare di averne solo sentito parlare. Sembra, a ben guardare, che queste donne-gatto dell’era nazista funzionino come i cantanti castrati del tempo in cui la musica era dominata dai maledetti Italiani. Quindi viene sempre da chiedersi: in che tempo ha condotto, quel “salto” nel tempo? E infatti è da chiedersi: gli slavi fanno gli schiavi – giustamente. Che cosa è dell’altro meticciato, cioè dei latini?
Eppure il calendario è cambiato. Il testo lo segnala chiamando il tema dell’incertezza di Alan: egli ha sempre paura di essere stato “dall’altra parte” (cioè nel mondo dei pazzi) almeno per un certo periodo limitato di tempo. Ed è qui che va notato il calendario, perché in questo periodo è stato considerato dal saltatore di tempo. Il calendario segna l’anno 102. Il calendario combina “0” e “1”, ma poi sembra suggerire “2” come somma. Questo perché bisogna pensare il sogno nella sua struttura di segno, cioè di rebus. Nel sogno tutto è in riferimento al sognatore. Ciò che impiega il sognatore in quel tempo è il tempo passato in compagnia con l’infermiera di notte e con l’infermiera di giorno. Che coinvolge il ritmo di giorno e notte. Infatti le persone sono sole solo nei sogni.
Conoscere il vuoto non è la cosa più dolorosa che cada addosso, ma è la cosa più vuota che possa alla fine cadere addosso. Essere svuotati, e comprendere che da lì comincerà l’esperienza senza fine del vuoto, è ciò con cui l’uomo, privato del mito, ha a che fare da quell’ora in poi con ciò che gli rimane come tempo da vivere. Si è solo ancora l’unica cosa al centro di sguardi concentrici. Non c’è più un mondo. Ci sono solo balbettii e discontinuità. Ma il richiamo del mito è ciò che ha segnato colui che adesso dovrà sempre andare alla ricerca del mito.
Il dottor Wolf è la prima vittima di questo vuoto che balbetta da qualche parte. La caccia del lupo è la caccia che comprende un tipo organizzato di caccia, dove ogni componente del branco ha il proprio ruolo. Il richiamo del corno si presenta come una spiegazione di un grande svuotamento: il vuoto come pura assenza, che è ciò che si vede di Alan dopo il suo ritorno, considerando la sua forma, quando gli sguardi si concentrano su di lui come il vuoto che ha condotto a quella forma, che suona però come la perdita del mito; ma anche ciò che accerchia il dottor Wolf nello spazio della sua clinica, dove il mito era pure presente. Infatti nessuno, all’interno di quella clinica, all’infuori di Alan, porge ascolto al richiamo del corno, nelle notti in cui lo si sente suonare. Questo perché lupo e gatto hanno lì uno scollamento, avendo lì il dottor Wolf, unico fra tutti i personaggi del Richiamo, perduto il suo nome.
La storia è ciò che viene dopo il vuoto. Alan è adesso alla ricerca della gatta perché si è posto, prima, alla ricerca del mito. Rispondendo al richiamo dello jarl, Alan torna nella casa dell’amico per raccontare la storia, essendo egli alla ricerca del gatto, che non è il gatto domestico, ma il gatto selvatico che la nuova epoca, da lui intravista nel doppio salto, segnala come le donne-gatto. La storia è ciò che la Casa del Capo giustifica come tale, cioè come verità. Il racconto nella Casa del Capo è ciò che, adesso, deve essere affrontato. Quando il gatto è ciò che, adesso, nell’intimità di un ambiente familiare, offre la possibilità di un resoconto, vale a dire della possibilità di una possibile storiografia, con l’intento di andare oltre una narrazione storiografica. Così come, prima dell’era della storiografia, la sala dello jarl era il luogo che permetteva l’accesso al ritorno del mito e non dello spettacolo. Che è ciò che si ferma con l’abbandono del mito, in quanto storiografia. Quando lo jarl riconosce il suo vero ospite, dalla civiltà dello spettacolo si passa alla promessa di una civiltà che fa a meno dei falsi ospiti come ospiti ai quali offrire uno spettacolo. Il falso ospite che vomita alla fine dello spettacolo delle donne-gatto è la controparte dell’ospite accettato malamente, che vomita sulla testa del falso ospite la birra cattiva offertagli. Ciò che viene vomitato, è il falso ospite.
La parola della lingua germanica köttr, che indica il gatto domestico, è di origine latina. Il gatto domestico non era conosciuto nell’antico territorio germanico. Le operazioni indicate nel Richiamo ricreano il vero gatto, cioè il gatto selvatico delle foreste germaniche. L’incontro con il mito è il massimo pericolo. In certe occasioni toglie la parola e fa suonare come uno strumento ebete; ma il mito chiama a un nuovo e più profondo incontro, non con il tempo, ma con lo spazio, che è ciò che Alan non ha potuto compiere nel suo salto, perché lo ha vissuto solo come salto nel tempo. Per questo il conte lo chiama a una nuova caccia (come spazio del tempo), sotto una nuova luna (come tempo dello spazio). Infatti il Conte non considera più di tanto l’ospite per il quale ha organizzato lo spettacolo della caccia, ma riconosce di colpo il suo vero ospite, cioè Alan, e lo consegna – in un primo tempo – alla Foresta come selvaggina; ma per poi dargli appuntamento, nel momento in cui lo libera, quando invece potrebbe ucciderlo, per una nuova caccia «sotto un’altra luna».
Quando Alan ha risposto al richiamo del corno, ha confermato di rispondere al segnale del mito. Che comporta vivere nella pericolosità che, nel momento vissuto da Alan, era rappresentato dalla pericolosità della foresta germanica. Infatti né le infermiere né il dottore, nello spettacolo a lui offerto, erano intenzionate a rispondere a quel richiamo. Lo ignoravano, perché lo ritenevano un richiamo a qualcosa che suonava solo come richiamo a una distruzione. Solo Alan ha dimostrato interesse, pur abitando nella stessa struttura con le infermiere e con il dottore. Il richiamo è per pochi. Perché questo è il vero futuro di Alan. E questo è appunto ciò a cui il Conte lo chiama come richiamo a un nuovo incontro. Il nuovo incontro è ciò che comporterà la nuova comparsa del mito, che comporterà un nuovo richiamo. Però Alan dovrà passare il tempo della vita nella terra senza mito come periodo di vita di un individuo che è soltanto un rimasuglio ebete, al centro di sguardi malevoli, nel tempo in cui il mito sarà stato bandito dalla terra.
Poveri noi, prigionieri soltanto di parole. Poveri noi, responsabili del tempo, tanto del tempo del mito quanto del tempo dell’assenza del mito, cioè del tempo in cui il mito è passato via. Ma il tempo in cui il mito si è eclissato via è il tempo in cui il mito ha annunciato il proprio ritorno nel silenzio siglato dal futuro, quando futuro è solo silenzio che suona sbiadito nella geometria frattale che un cristallo di neve appena serve a fare cadere.
Il finale del testo originale è preciso: «“Cats are a damn nuisance, whether you let them out or try to keep them in.”». Sono i gatti, che si cercano, e non le “gatte” – come non può fare a meno di indicare la traduzione italiana. La parola antico nordica köttr è di genere maschile. Ma che cosa si cerca, tornando indietro, a cercare il gatto?

Sarban, Il richiamo del corno, Adelphi, Milano 2015 (prima edizione digitale)

A.S. Byatt, Ragnarök

L’immagine è più della somma delle parti. Qui l’immagine è la composizione delle due parti in cui il libro è diviso. Che pure non dice niente dell’insieme. Giustamente, secondo quanto si è detto subito. La prima parte comprende la campagna, dove la famiglia vive in tempo di guerra; la seconda parte comprende la città, dove la famiglia riprende a vivere in tempo di pace alla fine della guerra. Il tempo di guerra è il tempo del mito, della corrispondenza tra mito e natura che si presenta come corrispondenza di una scoperta che avviene lungo una linea orizzontale. Ma il mito afferra come vento di tempesta e fa ruotare nella guerra. Dove non c’è più orizzonte, ma solo altezza da cui cadere. Il libro si apre con l’immagine della Caccia selvaggia e la didascalia: “La Caccia selvaggia di Wotan”, descritta subito dopo nel testo con attenzione d’inizio. Così il tempo della guerra è collegato al senso della fine. Più niente ritornerà. Primo fra tutti non ritornerà il padre di famiglia, aviatore, afferrato dal vento della tempesta e destinato a perdersi dentro la schiera urlante. Il vento che afferra, afferra infatti tutti. Perché il vento, come i libri, è un labirinto di tempi e sospiri. E un labirinto soffia dappertutto per confondere le idee. Ma il mondo che si presenta è anche fatto per essere lasciato. Così come il libro con le sue idee di labirinti. Il complicato sistema di fiori e larve del mondo verrà quindi osservato da tanti altri. E adesso si tratta di pensare la fine. Il mito non è storia. Il mito è pluralità di versioni e di interpretazioni; storia è cancellare qualcosa di ciò che è stato allo scopo di reinterpretare. Non c’è più amore per il caos quando, come adesso, c’è solo derisione. Nessuna consacrazione della casa, nel tempo del ritorno del neoclassico. Meticciato e fraudolenza. La musica è una diversa velocità di pensare – che pure è quanto è stato detto a proposito dell’ultima sonata di Schubert. La musica è pensiero a una più potente velocità. Ma da tempo è stato notato il rapporto tra musica e mito. Se musica è un modo più veloce di pensare, allora questa velocità è appunto ciò che può uccidere. Cose che avvengono nel tempo della Caccia selvaggia, quando tutto è trasportato in vento di tempesta. Che cosa è allora la fine della vita? La domanda si pone contrapponendo i miti nordici a quelli cristiani. L’insieme dei miti cristiani è ciò che la bambina impara al catechismo. Che è la contrapposizione tra mito nordico europeo e mito semita – che viene da lontano. Ma lontano è qui ciò che viene da fuori. La Caccia selvaggia è la bestemmia che mastica terra. Che però è lo schiaffo al dio straniero. Il dio straniero è il dio della razza semita. Tra tutti gli dei, il più ingombrante. Chi è lo straniero che viene trovato a ingombrare la casa? Ancora una volta il dio del vento si scaglia contro il bianco Cristo dei semiti. Il mito semita vince. La schiera volante cade abbattuta per sempre a terra, non più dei ma folletti che corrono a nascondersi negli angoli della casa. Rilasciato dal vento di tempesta che lo aveva afferrato, il padre può fare ritorno a casa e la famiglia ricomposta può fare ritorno nella grande città abbandonata nel tempo di guerra. Il tempo di pace è il tempo della fine della scoperta che ha sognato segnando il mondo. Il tempo incantato dei racconti è allora giunto alla fine. La quotidianità avanza gelando le cose. Il mondo non è più ciò che si segna in orizzontale, ma ciò che si deve imparare a conoscere e delimitare sognando in profondità. I piccoli giardini delle case sono recintati. È una brutta forma di Europa che ormai, a guerra finita, si prepara. Con la sconfitta del mito è venuta fuori una brutta Europa; ma se il mito non ci fosse stato, l’Europa di adesso sarebbe ancora più brutta. Solo sono forme vuote. Dal mito si passa al romanzo del più grigio realismo. Così la conoscenza è solo sapere scientifico, che insegna come maneggiare le cose del mondo. Della schiera urlante che aveva trascorso il mondo si salva qui solo quello che più di tutti ne aveva abituato i margini, inafferrabile e maligno, dannoso infaticabile masticatore di intrighi. Si salva per la sua intelligenza che suona precorritrice di quella moderna – ora altrettanto dannosa come allora. Intelligenza affascinata dal caos e dalle leggi che regolano un caos riscattandone la caoticità in una scienza moderna capace di salvare il mondo tanto quanto di affrettarne la distruzione. Dove porta l’interesse per il semidio Loki? Il pensiero raccolto in quel mezzo dio è come il pensiero raccolto in un meticcio che si sforza di pensare per ottenere soltanto un tornaconto. Ma un meticcio è sempre qualcosa come un qualunque altro meticcio. Ed è ciò che ci si sforza di volere vedere, quando noi cominciamo a non vedere più. Perché forse questo è l’inizio: l’occhio non è fatto per vedere. Il buio non è fatto per nascondere. Nella quotidianità, dove tutto si nasconde nel settore del fantasma, si sceglie di vivere tutti insieme come bufali placidi dentro una placida paura. Ma la fine degli dei porta i fantasmi del Nord. Quando c’è solo terra dove andare, allora non c’è più terra dove andare, perché così non c’è più tempo per la Terra del Sacro, che è la terra dove andare. Questo è il canto della terra, quando terra è solo ciò che può essere messa nel canto tra tutti più sguarnito. Per quanto nel Nord non ci siano fantasmi. Nessuno spettro ha mai avvolto, là, di un lenzuolo la tomba dell’anima semita. Ma la morte – a volte – scherza a trasformare i sopravvissuti in fantasmi. Che è quello che a noi ci rimane.

[Il Capo]
A.S. Byatt, Ragnarök. La fine degli dèi, Einaudi, Torino 2013

[La Schiera]
R. Musil, L’uomo senza qualità, Mondadori, Milano 1998
K. Koffka, Principi di psicologia della forma, Boringhieri, Torino 1970
C.G. Jung, “Wotan”, in C.G. Jung, Opere, 10/1, Boringhieri, Torino 1985
F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita (Considerazioni inattuali, II), in Opere di F. Nietzsche, III/1, Adelphi, Milano 1976
Cl. Lévi-Strauss, Mitologica, III: Le origini delle buone maniere a tavola, Il Saggiatore, Milano 1999
Th.W. Adorno, Filosofia della musica moderna, Einaudi, Torino 1959
F. Hoyle, La nuvola nera, Feltrinelli, Milano 1979
R. Safranski, Heidegger e il suo tempo, Longanesi & C., Milano 1996
R. Boyer, Il Cristo dei barbari, Morcelliana, Brescia 1992
D.A.F. de Sade, I romanzi maledetti, Newton Compton, Roma 2011
G. Dumézil, Du mythe au roman, la saga de Hadingus et autres essais, Puf, Paris 1987
J.R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere 1914-1973, Bompiani, Milano 2001
G. Dumézil, Loki, Flammarion, Paris 1986
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F. Nietzsche, Genealogia della morale, in Opere di F. Nietzsche, VI/2, Adelphi, Milano 1976
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J.-C. Schmitt, Spiriti e fantasmi nella società medievale, Laterza, Bari 1995
B.B. Mandelbrot, Gli oggetti frattali, Einaudi, Torino 1987