Con serena indolenza un nuovo modo di scrivere può venire avvertito nelle ultime lettere di Nietzsche quanto nelle ultime poesie di Hölderlin. Posto che in entrambi i casi si accetti ciò che porta a saltare da lampo a lampo.
Di quanto ha bisogno uno scrittore? Solo qualche cosetta: un banchetto, una stanzetta, una finestrella. E poi un parapiglia di tempi – dove posare un nido di parole.
Musil ne offre un’ipotesi di stile nella terza parte dell’Uomo senza qualità (capitolo 7, “Arriva una lettera di Clarisse”).
Progetto di deviazione scenica
Perché progetto di deviazione scenica? Perché la deviazione qui effettuata serve a evitare il pericolo rappresentato dalla epicizzazione del teatro. Il pericolo che si vuole evitare è l’epicizzazione del teatro, cioè l’adeguamento forzato a una tematica moderna da parte di una tematica pertinente al passato. Il senso della epicizzazione del teatro è fare man bassa di ciò che, nel passato in cui ha avuto origine la epicizzazione del teatro, questo tema suonava come tema di una libertà di scorrimento del mondo. Per cui, ciò che determina la epicizzazione del teatro è ciò che adesso suona in modo più appropriato come sradicamento forzato di un soggetto a un tema del passato al fine di adeguarlo a una tematica del presente.
Il progetto di deviazione scenica è chiamato adesso ad adattarsi alla Tetralogia di Wagner. Tema che diventa una teatrologia.
In che cosa consisteva l’urgenza di Wagner? Nell’opposizione al teatro d’opera francese e italiano. Essendo la radice di entrambe le forme la razza semita.
Qual era la funzione originale della Tetralogia nelle intenzioni di Wagner?
Che ne è della celebrazione dei miti della razza, una volta che essi vengono stretti nei movimenti sporcaccioni del teatro?
Quattro oggetti determinano le quattro giornate della Tetralogia: Anello (Oro del Reno), Casa (La valchiria), Spada (Siegfried), Mondo (Crepuscolo degli dei).
Ogni oggetto è regolarmente sperduto alla fine della rispettiva giornata.
Tranne uno, che è ciò che porta allo scorrimento del mondo. Essendo la sua porta la porta al modo del mondo, cioè ciò che si apre per l’uscita dalla Casa.
I quattro oggetti si rispondono così vicendevolmente: l’Anello ha una controparte nel Mondo, simboleggiato dal recinto, dal garðr, cioè dallo spazio reso chiuso nel Crepuscolo, e che racchiude la scena come Miðgarðsormr la Terra di mezzo nella visione mitologica, ma che qui lo rende pieno e alla fine lo consegna al fuoco. Questo perché la mitologia non impone la chiusura attraverso una pienezza. La Casa cela la Spada, che, svelta dalla trave, sfreccerà nel mondo in mano a Siegfried, diventando il nastro su cui i suoi spostamenti avranno luogo, cioè la sua strada. Ma in un mondo ormai dominato dall’insegna.
Questo perché gli oggetti si impongono davanti all’immagine dell’uomo. Sono simboli che sfuggono dalle mani dell’uomo e gli si impongono davanti allo scopo di dominarlo.
Ma questo è ciò che rimanda alla opposizione tra heimr e garðr.
Il garðr è la rappresentazione del mondo, lo spazio racchiuso nella beffa della rappresentazione del mondo. Nel Crepuscolo si passa dallo heimr della Valchiria e del Siegfried al garðr, perché il mondo è adesso pienamente recintato e rappresentabile in quanto spazio dominato e passibile di rappresentazione (da qui la caduta nel teatro del mondo del meticcio latino). I pezzi della spada riuniti nel Siegfried rappresentano la grande strada che, lanciata a minaccia degli dei, percorre ormai tutto il mondo (perché la minaccia verticale diventa la sicurezza di un mondo che si può scorrere in orizzontale senza pericoli, ma che pure taglia in due): l’Anello dei sentieri (hringveginn), la congiunzione di tutti i piccoli sentieri che si comprendevano intorno alla spada spezzata e che permettevano di raggiungere solo piccoli mondi o case. La rappresentazione del mondo riempie quello spazio che l’Anello, come nota Clarisse, e in base a ciò che poi dirà Heidegger sul vuoto che determina la ruota, deve determinarsi attorno al suo vuoto, al fine di determinarsi in quanto forma univoca, che non ha nulla che vedere con il nichilismo.
Il romanzo del giornalista
In un capitolo dell’Uomo senza qualità (parte II, 39) Musil ragiona sul rapporto che esiste tra uomo e azione non autentica e osserva che l’azione non autentica è ciò che il mondo ormai esige dall’uomo. Dal punto di vista dell’arte del romanzo, questa constatazione è una delle componenti all’origine del taglio saggistico dell’Uomo senza qualità. I personaggi diventano così delle incognite da affrontare – o con cui confrontarsi. Il romanzo evita quindi la grande trama e le grandi azioni. A diventare segno di pensiero è il rapporto stesso del personaggio col mondo, tanto che il romanzo finisce per mettere sotto accusa il mondo moderno. È quel minimalismo che si trova in Musil quanto in Proust – e anche in Joyce. Il romanzo postmoderno, in tutte le sue variazioni, non si chiede più il perché di questa situazione e ritorna all’azione nitida e grandiosa. Il personaggio non è più il perno di una domanda decentrata verso la parte dell’autore, di un inciampo da affrontare lungo la via dell’arte di comporre un romanzo, ma l’ingranaggio per far muovere quello che torna a essere un componente della trama (fuorviante ricorrere al termine riassuntivo “funzione”). La modernità non viene più messa sotto accusa o guardata con diffidenza, perché viene accettata e ringraziata della sua presenza. Quindi non ci si domanda mai se l’azione lì utilizzata sia autentica o no. Pura ricaduta in un rozzo rispecchiamento della realtà che riproduce una azione inautentica rendendola ciò che non è: autentica. La forma a brevi capitoli usata da Musil, il tono saggistico, è quasi una mirata riproposta della discontinuità aforistica di Nietzsche. Tracce disperse cancellate dal postmoderno con una alzata di spalle.
Eppure, tra tutte le arti, anche l’arte del romanzo è qualcosa di più di quanto si manifesta adesso nel postmoderno e prima del postmoderno nel più semplice realismo. «Insistiamo sull’arte del romanzo perché è all’origine di un malinteso: molti pensano che si possa fare un romanzo con le proprie percezioni e affezioni, con i propri ricordi o archivi, i propri viaggi e fantasmi, i propri figli e genitori, i personaggi interessanti incontrati e soprattutto il personaggio interessante che è sicuramente ciascuno di noi (chi non lo è?); da ultimo le proprie opinioni, a saldare il tutto. Ci si ispira, all’occorrenza, ai grandi autori che non avrebbero fatto altro che raccontare la loro vita, Thomas Wolfe o Miller. Si ottengono generalmente opere composite, dove ci si agita molto alla ricerca di un padre che si trova sempre dentro di sé: è il romanzo del giornalista.» (Deleuze e Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 1996, pp. 174-5).
Il romanzo del giornalista ha il suo culmine nel romanzo che mima il film.
Città della pianura (ed. or. 1998) di Cormac McCarthy può esserne un esempio. I suoi capitoli sembrano scene di un film. Tutto il libro ha molto del film: è una lettura piacevole quanto rilassante, ma sa troppo della visione di un film, che è la cosa più “piacevole e rilassante” possa capitare oggigiorno nel campo dell’arte. Solo immagini, niente simboli.
E proprio i dialoghi sono da considerare. Nel romanzo «Ciò che conta non sono le opinioni dei personaggi secondo i loro tipi sociali e il loro carattere, come nei cattivi romanzi, ma i rapporti di contrappunto in cui esse entrano e i composti di sensazioni che gli stessi personaggi provano o fanno provare nei loro divenire e nelle loro visioni. Il contrappunto non serve a riportare conversazioni reali o fittizie, ma a far emergere la follia di ogni conversazione, di ogni dialogo, anche interiore. Il romanziere deve estrarre tutto questo dalle percezioni, affezioni e opinioni dei suoi “modelli” psicosociali, che passano interamente nei percetti e negli affetti ai quali il personaggio deve essere elevato per vivere solo di questo.» (Deleuze e Guattari, cit., p. 195). In questa direzione va l’analisi della polifonia intravista da Bachtin.
Niente di tutto ciò in McCarthy, dove i dialoghi hanno una struttura cinematografica e andrebbero benissimo in un film. Il fatto che funzionino così bene in un romanzo è la cosa grave. Il personaggio è costruito come quello di un film: non ha spessore; è qualcosa di piatto. È un’immagine proiettata su uno schermo piatto – e niente di più. Quella che ci viene presentata è in fondo una letteratura pragmatica. Il dialogo non precisa il personaggio, ma lo fa vedere. Nessuno di quei dialoghi potrebbe essere riassunto, mancando di un nucleo; ma la scena che si vede è in sé perfetta.
Quello che salva Musil da quella sporcizia che sarà caratteristica del romanzo postmoderno è quel senso della distanza che Nietzsche intravedeva nel senso di razza in quanto mantenersi a distanza dalla sporcizia: «Da parte svizzera sono stato indotto a pensare che i numerosi, quasi sistematici fallimenti delle colonie tedesche o svizzere negli stati attorno a La Plata abbiano origine nel mescolamento delle nazionalità, vale a dire nella vita promiscua di elementi tedeschi e latini. Non si riesce ad avere un sentimento patrio, la sensazione di una casa, se si ha nelle immediate vicinanze la sporcizia italiana ecc.» (F. Nietzsche, Epistolario. Volume V, Adelphi, Milano 2011, lettera 656 del 2/1/1886, p. 136).
Come tutto ciò che è umbratile, il postmoderno cresce sempre all’ombra del set della democrazia e dell’anti-apartheid.
Una concezione pragmatica della letteratura è una letteratura che descrive veri uomini nel loro vero modo di agire, senza nessun contrasto di luce e di ombra. Non solo tutto è chiaro, ma tutto può essere catturato dalla letteratura ed espresso con semplicità. Si ha un reportage, e l’oggettività, in quanto adeguamento al tema, è il modo migliore per giudicarne l’efficacia.
L’Epilogo è la convalida del passaggio dall’arte del romanzo all’arte della visione. Città della pianura è la parte conclusiva di una trilogia che potrebbe ancora essere classificata nella categoria del romanzo di formazione. Ma quello che alla fine si manifesta è piuttosto una contro-formazione. Proprio perché si sforma qualcosa, anziché condurlo a formazione – cioè informarlo di un cambiamento.
Tutto sommato, Cormac McCarthy può essere indicato come qualcosa di poco più di uno scrittore dozzinale. Il risultato di un modo di guardare la vista – e una svista nella scelta. Così il modo di scrivere di McCarthy può essere spiegato attraverso l’inciampo con Musil. Infatti scrivere è un atteggiamento verso il mondo, che impone una divisione. È quello che salva l’arte dagli scrittori. Vale a dire ciò che sfonda l’arte inconsistente dello scrivere. Che è quello che rimane dell’arte degli scaldi. Questo perché ciò che è grande viene dal Nord. Ma quello che è importante adesso è la stessa costruzione iperrealista del cinema applicata al romanzo. Il romanzo inclina al cinema, il lettore sprofonda nello spettatore: vede le immagini e ascolta i dialoghi. Probabilmente qui c’è una tendenza presente in tutta la narrativa moderna. Il romanzo simula il film e il lettore, da arte sua, senza accorgersene, simula lo spettatore.
Che cosa mi piace dell’Italia
Che cosa mi piace dell’Italia? I terremoti, perché finiscono sempre per cancellare qualcosa di quella brutta cosa che è l’Italia.
Logiche ondulatorie
Logiche ondulatorie possono benissimo essere alla base di pratiche narrative del tutto nuove, quando logiche che hanno il loro fondamento nelle teorie che fanno capo ad Aristotele possono essere individuale alla base della narrativa tradizionale. Potremmo avere così una forma di narrazione che si distende in un modo che richiama la logica classica quanto un’altra che se ne discosta. Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister e Gli anni di viaggio di Wilhelm Meister ne costituiscono la prova più evidente, poiché non è qui questione di due tecniche narrative diverse, quanto di due modi diversi di organizzare il pensiero. Che è come dire: il modo in cui il pensiero tiene insieme i pezzi.
Cosa che non dovrebbe né stupire né sconcertare più di tanto, se si pensa al collegamento tra Retorica e Poetica nelle opere tramandate di Aristotele.
Ma il teatro è ciò che “viene da fuori”. Proprio su questo principio deve essere indagata la narrazione. Infatti la narrazione è ciò che ha la sua origine dove ancora adesso noi ci troviamo a parlare; a differenza del teatro, che è qualcosa che può essere identificato come ciò che a noi è estraneo, in quanto ciò che è venuto da fuori.
Da qui l’importanza del romanzo occidentale, che in qualunque forma si manifesti, ha sempre la sua origine più antica nell’epica a noi comune, indoeuropea.
Siamo in presenza di qualcosa di deviante? Sembra proprio di sì. Quello che Aristotele prende in esame e cerca di codificare è una discussione democratica, una battaglia di argomentazioni allo scopo di convincere. Viene in mente quello che diceva Nietzsche a proposito del problema Socrate: l’aristocratico comanda, non cerca di convincere.
È per questo che vale la pena riflettere su alcune connessioni: logica classica (nel suo rapporto con la geometria euclidea), democrazia, scienza, narrazione.
La logica di Aristotele ha le sue fondamenta su un principio democratico. È l’ordinamento del modo di pensare della maggioranza. Ha il fondamento nella discussione, cioè nel portare avanti argomenti al fine di convincere. La logica di Aristotele si presenta quindi come sistemazione della discussione democratica. Lo scopo è quello di insegnare a convincere. Ma soprattutto di accettare il dialogo come confronto alla pari. Il Nuovo organo di Bacone partirà dall’assunto di stabilire le leggi della prassi scientifica. Il pensiero logico deve essere al servizio del dominio tecnico del mondo. E non più un puro esercizio teorico delle leggi del pensiero. Ma il dominio tecnico del mondo è sempre a fianco dell’epoca della democrazia. Perché senza democrazia, non si ha dominio tecnico del mondo. Così scienza e democrazia vanno di pari passo. Hegel parlerà di scienza della logica, convertendo la logica in scienza e saldando giustamente i due progetti precedenti. Così il metodo scientifico esprime la volontà di dominare tutto il mondo rendendolo soggetto alla massa democratica.
È lo stesso metodo che si propaga, da Aristotele in poi, includendo anche la narrativa, essendo la narrativa uno sguardo sul mondo così come si configura in base a una teoria logica. Teoria logica che, indirettamente, è ciò che determina la possibilità della narrazione.
Bisogna comprendere ciò che determina la proprietà dell’inclusione. Partire da qui per determinare il ruolo della cassetta negli Anni di viaggio. Considerare che Meister ha rinunciato al teatro. Questa rinuncia è appunto ciò che apre la strada al periodo dei viaggi in quanto conoscenza del proprio mondo. Che si determina come orizzonte infinito. Infatti la rinuncia al teatro apre la strada a un nuovo tipo di romanzo. Il teatro è abbandonato in quanto riconosciuto estraneo al proprio mondo. È il romanzo che invece viene affrontato e modificato profondamente, ma sempre come parte della propria eredità.
È quindi una scansione del pensiero democratico nel suo insieme, col quale un bel momento bisognerà pure fare i conti.
Il richiamo alle tecniche narrative in un tale contesto può essere qualcosa che si richiama alla differenza tra discorso esteriore e discorso interiore. Con la caratteristica che il secondo ha la pretesa di offrire una sistematizzazione del primo.
Quindi bisogna precisare il modo in cui nella narrativa un tema viene trattato, e il modo in cui i vari personaggi vi si collegano, collegandosi poi tra loro. Infatti il personaggio è colui che padroneggia la lingua e la usa a proprio vantaggio. Allora, affinché una logica diversa possa stabilirsi, bisogna fare a meno del soggetto. E quindi dell’uomo. Che è la rinuncia dei Viaggi. Infatti qui si deve cominciare a proporre lo scarto indicato da Nietzsche. Questo perché non è l’uomo a parlare, bensì le lingue a parlare attraverso gli uomini.
Ma naturalmente, meno che mai questo progetto è chiamato a dimostrare qualcosa, lasciandosi semmai da ogni cosa attrarre, con l’indolenza del flâneur.