Locuste bianche

Il romanzo Le locuste bianche (1958) di Chinua Achebe si delinea attraverso una parabola epico-brechtiana incentrata sul colonialismo.
Ma questo pone la domanda da sempre presente nel progetto brechtiano: chi è realmente chiamato a pensare attraverso questa forma di parabola?
Il romanzo è articolato in tre parti. Queste tre parti sono basate sulla inclusione dell’Altro nella struttura della narrazione. Che in questo caso si presenta secondo la forma seguente:
1) Autocoscienza (“Io” sono parte di questa società che descrivo attraverso il protagonista Okonkwo);
2) Comparsa dell’Altro nella fase dell’esilio;
3) Obnubilamento dell’Autocoscienza al ritorno dalla fine dell’esilio e scontro con l’Altro.
Il romanzo comprende venticinque brevi capitoli così ripartiti: tredici nella Prima parte; sei nella Seconda parte; di nuovo sei nella Terza parte.
Il bilanciamento tra Prima parte, di tredici capitoli, e le altre due parti, di complessive dodici capitoli, mostra chiaramente come alla base di questo romanzo sia lo squilibrio nel confronto con l’Altro. Uno squilibrio segnato da una unità in eccedenza. Che è ciò che deve essere lasciato cadere.
La fase dell’Autocoscienza è la più lunga. È il tempo in cui impariamo a conoscere Okonkwo, il protagonista delle Locuste bianche. La Seconda parte, dedicata all’esilio di Okonkwo nella terra del clan materno a causa di un incidente che ha provocato la morte di un uomo, è la parte che presenta la comparsa dell’Altro. È una comparsa qui solo mostrata come indiretta, attraverso il resoconto che ne fa un amico di Okonkwo, Obierika, che è andato a fargli visita nella terra dell’esilio. È quindi un Altro che compare, come riflesso, nella fase dell’esilio dell’Autocoscienza. La Parte terza è invece la fase che presenta l’obnubilamento dell’Autocoscienza, cioè la disgregazione dei valori tradizionali della civiltà Ibo, e lo scontro aperto con l’Altro.
La fase dell’Autocoscienza è la più lunga, comprendendo tredici capitoli. È il momento in cui avviene la descrizione orizzontale di un tempo orizzontale. E proprio qui sta la caratteristica delle Locuste bianche. Infatti Le locuste bianche è un testo che non si pone il compito di tramandare la memoria di un grande uomo, come nel caso delle saghe islandesi. Certo, Okonkwo è un personaggio rilevante all’interno della civiltà che il testo richiama. Okonkwo vuole emergere con gli strumenti che la sua civiltà gli mette a disposizione. Egli non li critica; li usa a suo favore. Sa che la sua determinazione è sufficiente per raggiungere un alto livello in quella civiltà. Il suo obiettivo è infatti diventare uno dei capi del clan. Con il padre, debole di carattere e pigro, si è dimostrato inflessibile. Sapendo di non poter contare su di lui, ha fatto sempre tutto da solo. Tuttavia Le locuste bianche non è costruito sul personaggio di Okonkwo, come la Egils saga Skallagrímssonar lo è sul personaggio di Egill, ma su ciò che lo attende, in quanto personaggio che agisce all’interno di una parabola. Questo perché Le locuste bianche è un testo composto per circolare in un ambiente diverso da quello che descrive. Il rapporto tra Okonkwo e la civiltà cui appartiene è semmai quello dell’Autocoscienza – e del suo scacco. Okonkwo si comprende in quanto comprende la propria civiltà; ma, soprattutto, Okonkwo è ciò che permette il funzionamento del romanzo di cui è protagonista, che ha la sua funzione nella presentazione della cultura Ibo e del suo sfaldamento a seguito della comparsa di una civiltà “altra”. Okonkwo può così funzionare come protagonista di una parabola di tipo brechtiano. Ciò che Le locuste bianche mostra svolgendosi come trama è infatti il rapporto con l’Altro, poiché nell’incontro con l’Altro si ha il punto fondamentale della trama, cioè lo sfaldamento dell’Autocoscienza in quanto accettazione della propria civiltà. Sfaldamento che porterà Okonkwo alla comprensione che nessuno, di quanti fanno parte del suo villaggio, combatterà ormai per difendere la propria civiltà, e quindi al suicidio.
La constatazione dell’Altro è il contro-tema della letteratura post-coloniale al tema della letteratura occidentale, incentrata sull’Altro. Ma questo contro-tema sorge come risposta al tema della letteratura occidentale, che è il tema dell’Altro. La letteratura post-coloniale introduce il tema di una colpevolizzazione tutta nuova, ma il meccanismo è lo stesso. Il romanzo occidentale ha sempre considerato l’Altro; ma è l’unico che possa tacitamente evolvere verso un’epica della distanza tra pari. In realtà questa Autocoscienza che organizza il materiale delle Locuste bianche è il tempo, cioè il tempo della letteratura post-coloniale, la quale si determina a partire dallo spazio, in quanto tempo della colonizzazione e della presa di coscienza, cioè nel rivolgimento di un punto dello spazio in tempo. Tema ben conosciuto nella filosofia occidentale come dialettica dello spazio e del tempo: «La negatività che si riferisce come punto allo spazio e sviluppa in esso le sue determinazioni come linea e superficie, nella sfera dell’essere fuori di sé è però altrettanto per sé e vi pone le sue determinazioni al tempo stesso come nella sfera dell’essere fuori di sé, con ciò stesso manifestandosi come indifferente rispetto all’inerte giustapposizione. La negatività posta così per sé è il tempo.» (G.W.F. Hegel, Enciclopedia, II, § 257, Utet, Torino, 2002, p. 111).
D’altra parte, la determinazione del romanzo come rappresentazione dell’incontro con l’Altro è ciò che la letteratura post-coloniale accetta della letteratura occidentale; capovolgendone ovviamente i termini. La letteratura post-coloniale ricicla così fasi della letteratura occidentale ormai superate nella letteratura occidentale e quindi temi filosofici. Qui lo vediamo operare con la teoria epica di Brecht, in Márquez lo vediamo operare con la tecnica di Faulkner. Ora si può dire che questa letteratura è un intralcio e svolge una funzione simile a quella del post-moderno, di cui pure è un attivo ingrediente. La letteratura del post-colonialismo si inserisce nel solco del postmoderno poiché ne condivide il tratto che ne è alla base: il ritorno al realismo in quanto residuo di realismo, integrato come realismo magico.
Okonkwo può quindi diventare protagonista solo ricorrendo allo sguardo sull’Altro, La narrazione è qualcosa che si svolge dal difuori (l’autore che organizza la storia da raccontare); e che non può essere svolta dal di dentro (le gesta del grand’uomo da tramandare). Okonkwo permette di rendere visibile la cultura Ibo, alla quale egli appartiene, a un pubblico estraneo ad essa, presumibilmente come è il pubblico occidentale, al quale il romanzo è rivolto.
Si è già notato che Okonkwo non riceve il suo statuto di protagonista a partire dalle grandi imprese da lui compiute, che il testo deve tramandare, ma solo in quanto rappresentante tipico di una civiltà e insieme come rappresentante tipico di un atteggiamento tipico nei confronti dell’Altro in quanto civiltà altra. Il suo è uno statuto di testimone passivo di una civiltà osservata nei suoi ingranaggi. Egli quindi offre solo la possibilità di mostrare gli ingranaggi di una civiltà in modo completo. Vale a dire in modo da evitare l’accusa di “mancanza di civiltà” o di “pensiero selvaggio”, che da quella civiltà “altra” lo hanno sempre raggiunto. Le locuste bianche ha il compito di dimostrare che la cultura Ibo era una cultura in sé completa, in grado di formare uomini e di distruggerne altri, come del resto tutte le civiltà e non aveva bisogno di un apporto da parte di un’altra civiltà. D’altronde, la figura di Okonkwo sorge solo nel momento in cui la civiltà di cui egli è chiamato ad essere il testimone è quasi già completamente scomparsa. Okonkwo è uno spettro, destinato a infestare non tanto la civiltà alla quale, in modo “tipico” apparteneva, quanto il romanzo occidentale. Infatti Le locuste bianche è un testo che trova il suo statuto solo all’interno della letteratura occidentale, come “romanzo”, il cui statuto, all’interno della civiltà occidentale, è tutt’altro che definito in modo univoco. Si consideri la struttura delle Locuste bianche: i tredici capitoli della Prima parte presentano il funzionamento della cultura Ibo attraverso il personaggio di Okonkwo; nel momento in cui la presentazione di questa civiltà ha raggiunto un livello di completezza accettabile, il personaggio di Okonkwo è eliminato, ricorrendo al confronto con la civiltà altra, cioè tramite il confronto con l’Altro.
Se la fase dell’Autocoscienza era la più lunga e si disponeva secondo la descrizione orizzontale di un tempo orizzontale, l’Altro è invece il fulmine che cade verticalmente e distrugge irreversibilmente la possibilità di una estensione in orizzontale. La Parte seconda e la Parte terza presentano infatti entrambe questa struttura; la Parte terza ampliando il movimento della parte precedente e concludendo con un contro-movimento da parte di Okonkwo: l’impiccagione, che lo muoverà, dapprima, verticalmente verso l’alto e, poi, dall’alto verso il basso, ponendo fine al suo scontro con l’Altro. L’immagine finale del romanzo è infatti quella dell’ufficiale inglese davanti al corpo appeso di Okonkwo, che progetta di scrivere un libro di etnologia. L’intero progetto che sta alla base di questo romanzo raggiunge così la sua totalità: Le locuste bianche era cominciato come progetto pseudo-etnologico da parte del suo autore, Chinua Achebe; e termina con uno pseudo progetto etnologico da parte di un personaggio di quel romanzo, il Commissario Distrettuale. Questo perché è lo sguardo sull’Altro che lo determina in tutte le sue articolazioni.
Il protagonista è un dato stabilito dall’Autocoscienza; l’Autocoscienza è un dato stabilito dalla civiltà occidentale. È questo il tributo che la letteratura post-coloniale si trova a pagare alla letteratura occidentale. Semmai l’Altro non deve essere né ignorato né demolito. Serve una filosofia che si disponga indipendentemente dall’Altro, cioè una filosofia finalmente in grado di evitare queste pastoie. Ma una tale filosofia potrà sorgere solo con il superamento del tema dell’Altro, che a sua volta richiede un mutamento antropologico. Per ora, quello che si può constatare, dando uno sguardo a tutto il pasticcio del colonialismo, è l’assoluta (quanto inevitabile) mancanza di spregiudicatezza dimostrata nel portare avanti il maledetto progetto del colonialismo, che doveva rispondere al bisogno di creare schiavi e ha creato eserciti invasori.

Chinua Achebe, Le locuste bianche, Mondadori, Milano 1962

La terra lavata

Uffa! Si è mai notato quanto l’italiano sia una lingua brutta, rozza e pesante? Eppure, quante cose si possono dire con questa brutta lingua ad essa opposte. Si può immaginare un sistema critico che funzioni in base a valori diametralmente contrari a quelli attuali (ad esempio secondo la gradevole legge del “come se…”) e conformarsi ad esso, in un ozio irresponsabile, per la redazione di testi prima di allora mai pensati. Una certa lettura dei testi di Jung può confermare l’abitudine a vedere nei racconti popolari il resoconto del raggiungimento di una personalità soggettiva a seguito del confronto con alcuni ostacoli. Per quanto Lo hobbit di Tolkien non appartenga alla categoria dei racconti popolari, questa narrazione ne sfrutta le articolazioni. Ma il vero tema è ciò che viene rivelato alla fine: il processo di avveramento delle leggende, vale a dire il processo attraverso cui le leggende giungono ad avverarsi chiamando quegli insiemi di sottoinsiemi costituiti dai personaggi e dai racconti – e quindi il contributo dei personaggi al compito finale, che supera l’interpretazione degli stessi personaggi in quanto individui. Ma le leggende si avverano perché trovano nella verità la loro casa, nello stesso modo in cui i personaggi sono mossi dagli eventi al fine di riconquistare la propria casa. Quando alla fine del racconto Bilbo commenta che le vecchie canzoni si sono rivelate vere, gli viene infatti risposto da Gandalf: «“Ma certo!” disse Gandalf. “E perché non dovrebbero rivelarsi vere? Certo non metterai in dubbio le profezie, se hai contribuito a farle avverare! Non crederai mica, spero, che ti sia andata bene in tutte le tue avventure e fughe per pura fortuna, così, solo e soltanto per il tuo bene? Sei una bravissima persona, signor Baggins, e io ti sono molto affezionato; ma in fondo sei solo una piccola creatura in un mondo molto vasto!”» (J.R.R. Tolkien, Lo hobbit, Adelphi, Milano 1979, p. 342). Proprio questa precisazione aiuta a cercare al di là della tendenza psicologistica di intendere il materiale di origine fiabesca, e al di là della tendenza che porta alla sopravvalutazione o alla sottovalutazione dell’io – che è poi la stessa cosa, partendo dalla stessa origine. Vale a dire di un individuo distaccato dall’insieme della razza di appartenenza, cioè da un destino di razza – che è ciò che concerne la narrazione.
Infatti Lo hobbit non si basa sulla formazione di un individuo tipo, quanto sulla necessità della distruzione di un’altra razza, apertamente mostrata in quanto inferiore. Così questa necessità si sviluppa attraverso un movimento che sembra possibile indicare in questo schema:

Introduzione La formazione della Compagnia (cap. 1)
Avventura 1 I tre troll (cap. 2)
Soccorritore 1 Il breve riposo presso Elrond (cap. 3)
Avventura 2 Il passo in montagna e l’agguato degli orchi (cap. 4)
Stazione Bilbo incontra Gollum (cap. 5)
Scorciatoie I lupi mannari e le aquile (capp. 6 e 7)
Soccorritore 2 Beorn (cap. 7)
Sequenza 1 I ragni (cap. 8)
Sequenza 2 Il re degli elfi (cap. 9)
Sequenza 3 La riconquista del tesoro (capp. 10-17)
Epilogo La svolta verso il luogo d’origine (capp. 18-19)

           

Stazione: il luogo dove Bilbo ottiene qualcosa, un oggetto magico (l’anello), da cui deriva un prestigio
Sequenza: un insieme di situazioni a cui Bilbo deve fare fronte
Scorciatoie: il luogo dove Bilbo è soltanto un peso

 Il capitolo iniziale (1. Una riunione inaspettata) e quello finale (19. L’ultima tappa) hanno funzione complementare: l’abbandono della casa per le multiformi avventure, nel primo capitolo; la riconquista della casa al termine delle avventure, nell’ultimo capitolo.
Beorn ha funzione di crocevia tra i due movimenti. E questo per varie ragioni:
1. È un personaggio collegato all’antica civiltà germanica. È un berserkr. La sua fattoria ricorda l’antica casa germanica (vedere il disegno della “Sala di Beorn” a p. 141, che riproduce il salone della tipica “casa lunga” di epoca vichinga).
2. Vive in una casa di tipo germanico, e si serve di animali domestici. La domesticazione degli animali ha però lì funzione accessoria, che scade a decoro, come si vede negli animali che apparecchiano la tavola per il pranzo.
3. Divide il romanzo in due parti: prima dell’incontro con Beorn, Bilbo è stato solo un peso per i suoi compagni. Dopo l’incontro con Beorn, Bilbo si dimostrerà un valido aiuto per la compagnia. Il cambiamento di prospettiva è rimarcato dalla partenza di Gandalf alla fine del capitolo di Beorn. Dopodiché Gandalf verrà ritrovato solo nel cap. 16 (Un ladro nella notte). La posizione di Bilbo all’interno della Compagnia riflette quindi tre momenti diversi dell’azione: il momento in cui l’azione viene avviata (e Bilbo è soltanto un peso fuori luogo); il momento in cui l’azione tocca il culmine (e Bilbo riassume in sé la posizione del guerriero e del raziocinante); il momento in cui l’azione viene risolta (e quindi Bilbo deve farsi da parte, non essendo egli un guerriero, in modo da lasciare il posto al vero guerriero, cui spetterà la conclusione della vicenda).
Elrond ha una funzione simile a quella di Beorn (è infatti stato compreso nella categoria Soccorritori). Anche Elrond è una figura che vive tra due mondi. Rappresenta una sosta per la Compagnia e divide due momenti importanti nel modo di fare di Bilbo: prima dell’incontro con Elrond, Bilbo se la deve vedere, anche se in modo piuttosto impacciato, con i tre troll; dopo l’incontro con Elrond, Bilbo ha a che fare con Gollum, ma ormai potrà dimostrarsi all’altezza della situazione, tenendo testa al nemico e riuscendo a conquistare l’anello, anche se in modo casuale, oggetto che tanto prestigio in seguito gli conferirà. All’uscita dalla Casa di Elrond è quindi quella di Beorn che attende per convalidare la posizione di Bilbo.
Le tre grandi sequenze nelle quali si manifesterà l’abilità di Bilbo hanno infatti il loro successo grazie all’uso dell’anello da parte di Bilbo. Queste tre sequenze comprendono: il combattimento contro i ragni di Bosco Atro (Mirkwood); la fuga dalla dimora del Re degli Elfi Silvani in cui sono prigionieri i nani della Compagnia; e, ultima, lo scontro con Smog.
Queste tre sequenze ruotano intorno alla possibilità della presenza di un ordine sociale: nella Sequenza 1 (i ragni) l’ordine sociale è del tutto assente; nella Sequenza 2 l’ordine sociale concerne un ordine di tipo sovrannaturale (gli elfi); e nella Sequenza 3 l’ordine sociale concerne l’ordine umano nella doppia forma della distruzione di Pontelagolungo (Lake Town) ad opera di Smog e della costituzione di un nuovo ordine attraverso la ricostruzione della nuova città su cui regnerà Bard. Questo ordine sociale non prevede l’esistenza di ciò che può essere definito come una razza inferiore. Anzi, ne prevede l’assoluta soppressione. Si intende per “razza inferiore” quella razza (o quelle razze) che un progetto della creazione permette di identificare come nocive al progetto della creazione e quindi degne di essere soppresse, ai fini di un ripristino della consonanza originaria della creazione. Questa interpretazione delle razze inferiori è tipica delle opere composte da Tolkien. L’epistolario riporta una diversa possibilità di composizione dei testi, volta non a dimostrare la giustezza della eliminazione delle razze inferiori, ma a riportarne un possibile avvicinamento nella forma di una celebrazione per capovolgimento. È ciò che Tolkien ha liberamente escluso dalla realizzazione: «Ho iniziato una storia che si svolge circa cento anni dopo la Caduta (di Mordor), ma si è rivelata sinistra e deprimente. […] Ho scoperto che anche in epoche così antiche ci fu un fiorire di trame rivoluzionarie, incentrate su una religione satanica segreta; mentre i ragazzi di Gondor giocavano a travestirsi da orchi e andavano in giro a fare danni. Avrei potuto ricavarne un thriller con il complotto e la sua scoperta e la sua sconfitta – ma non ci sarebbe stato altro. Non ne valeva la pena.» (J.R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza Lettere 1914-1973, lettera del 13 marzo 1964, Bompiani, Milano 2001, p. 387).
L’assenza di un ordine sociale (nel cap. 8) è segnalata dal fatto che i nani e lo hobbit, ormai alle strette, cercano di far parte di un ordine, dapprima solo intravisto da Bombur in qualità di sentinella come insieme baluginante di luci. Grazie al fatto di far parte di quell’ordine, essi potrebbero (secondo i loro intendimenti) ottenere il cibo di cui hanno urgente bisogno in quel momento. L’impossibilità di farne parte li relegherà nel non-ordine rappresentato dai ragni. Notare che il tentativo della Compagnia è rivolto verso un ordine diverso dalla propria appartenenza di razza, cioè verso l’ordine degli elfi (e quindi verso un ordine sovrannaturale). Quindi l’azione di Bilbo è l’azione di tendere alla fusione con un ordine sociale pertinente.
Più si va avanti, più le sequenze diventano complicate. Questo si vede nella parabola delle armi di Bilbo, la quale si esplica secondo una suddivisione che identifica: spada, in un primo tempo, contro i ragni; pietre e canzoni di dileggio, in un secondo tempo, contro i ragni; astuzia silenziosa contro gli elfi; dialogo astuto con Smog. Il lancio di pietre contro i nemici è un elemento presente nelle saghe islandesi. Colui che le tirava era un abile lanciatore e poteva uccidere un nemico con un tiro, come dimostra la Grettis saga.
Smog è il vero nemico contro cui la Compagnia deve confrontarsi. È il drago come è rappresentato dal Medioevo latino, ma non dall’antica civiltà germanica: che vedrà il drago come una specie di rettile volante con ali di pipistrello. Il drago antico-germanico era invece una specie di enorme verme o serpente (parola usata in antico nordico: ormr), senza zampe e senza ali, che poteva solo strisciare. Tuttavia il colpo di Bard sembra scagliato in ottemperanza dell’antico resoconto germanico. Il drago è sopra la città, Bard è infossato in un punto della città in fiamme. Ha sopra di sé il ventre indifeso del mostro. Gli basta alzare l’arma per colpirlo a morte. Il riferimento a Sigurðr uccisore di Fafnir è quindi tutt’altro che lontano. Ma è un lampo – come il suggerimento lanciato da Bilbo attraverso il messaggio del tordo.
Solo dopo la distruzione della rappresentazione latina del mostro si ha la riconquista della casa. La riconquista della casa ha avuto l’importante aiuto da parte di Beorn, personaggio che, anche attraverso il nome, si collega alla civiltà germanica. Il sottotitolo originale del romanzo precisa questo movimento: There and Back Again. Si tratta di andare “là” e poi di “tornare indietro”. La riconquista del tesoro – in sé – è quindi un elemento di secondaria importanza. Infatti gran parte del tesoro rimane nel luogo dove Smog lo custodiva. Così come gran parte del tesoro è stato costituito accumulando il frutto di tante rapine diverse effettuate in più luoghi. Anche la riconquista agisce in punti diversi, riguardando un insieme diverso. Ma quello che è da riconquistare è – sostanzialmente – la casa. Vale a dire: ciò che già si possiede; cioè la razza, che è la saga. Ricomponendo lo strappo dalla casa e facendo in modo che il mondo si costituisca come ciò che non fa più paura.
Notare infatti il cammino opposto delle armi usate da Bilbo: la spada (arma germanica) contro i ragni; l’astuzia silenziosa nella caverna degli Elfi Silvani; il linguaggio ingannatore con Smog nella forma della dialettica volta, non a convincere, ma a frastornare, impedendo di comprendere la verità. A Smog, che vuole sapere il suo nome, Bilbo risponde: «“Io sono colui che scioglie gli indovinelli, colui che strappa le ragnatele, la mosca che punge. Io fui scelto per il numero fortunato. […] Io son colui che seppellisce vivi i suoi amici e li affoga e li ritira vivi fuori dall’acqua. Venni dal fondo di un vicolo cieco, senza esserci mai caduto. Io sono l’amico degli orsi e l’ospite delle aquile. Io sono il Vincitore dell’Anello e il Fortunato; e sono il Cavaliere del Barile”» (p. 254).
Così lo scontro finale è una battaglia che coinvolge razze diverse. E che ne distrugge quasi completamente una (quella degli orchi). La diversità delle razze è segnalata, in Tolkien, dalla successione entro i vari momenti dei movimenti della creazione, in quanto processo non cristianamente unitario, bensì di tipo polifonico, secondo uno schema – di tipo gnostico – che Il Silmarillion precisa. La grande battaglia tra le cinque razze (Orchi e Lupi, da un lato; Elfi, Uomini e Nani, dall’altro) lava la terra e la rinnova.
Ma ancora, per quanto riguarda le armi, è da considerare l’ultima freccia di Bard, quella che uccide il drago: la freccia proveniente «dalla fornace del vero Re sotto la Montagna» (p. 283) e dotata quasi di vita propria, mossa dalla vendetta nei confronti dell’uccisore del suo forgiatore.
Gli arrivi differiti presentati nel primo capitolo e nel capitolo di Beorn si ritrovano nella battaglia finale, con i rinforzi che giungono in momenti diversi: prima i nani, poi le aquile, infine Beorn in forma di orso. In questo ritrovarsi attraverso tappe differite c’è una sequenza essenziale, e infatti tale sequenza compare nei momenti fondamentali del libro: all’inizio, nella casa di Bilbo; verso la metà, nella casa di Beorn; alla fine, nello spazio della battaglia dei Cinque Eserciti. Gli “arrivi differiti” indicano la stretta nei confronti della razza inferiore, ghigno nella creazione, razza che deve essere eliminata, quando il modo di pensare dell’azione ne indica – finalmente – i tempi. Ma che meno che mai prevede il soggetto in quanto forma contenitore dell’azione.
«I canti tramandarono che tre quarti dei guerrieri degli orchi del Nord morirono in quel giorno [il giorno della battaglia dei Cinque Eserciti], e le Montagne ebbero pace per molti anni.» (p. 326). Così la soppressione delle razze inferiori rigenera la terra. Non a beneficio di tutti gli oggetti della creazione, ma solo di quello principale. Poiché la razza inferiore, secondo quando concerne un progetto che parte dallo gnosticismo e arriva a Miguel Serrano, non è il risultato dell’atto divino della creazione, ma del demiurgo demoniaco.
Allora propriamente, la domanda “che cosa ho in tasca?”, colta per errore come uno degli indovinelli nell’oscurità, può suonare nella forma più consona al rivolgersi della sua oscurità: “che cosa ho in mente?”

Insiemi plurali

Maneggiare in modo diverso le categorie della forma del romanzo è una cosa che non riusciamo ancora a fare con disinvoltura. Questo perché non riusciamo a pensare al di fuori delle solite, acquisite caratteristiche che, per noi, costituiscono il romanzo, cioè l’arte massima della narrazione. “Finnegans Wake”: A Plot Summary di John Gordon (Gill and Macmillan, Dublin 1986) è un esempio di questa assenza di disinvoltura. In questo libro vengono ripercorsi i diciassette capitoli di Finnegans Wake riassumendone la trama, cioè allineando gli eventi sulla base del naturalismo; ma la domanda da porre è: a quale livello si pongono questi “eventi”? L’intento sembra essere quello di considerare Finnegans Wake un romanzo “normale”, semplicemente mascherato da cosa strana, ingarbugliata come la trama di un sogno – poiché di un sogno infine si tratta. La tesi fondamentale del libro di John Gordon è che Joyce, scrivendo Finnegans Wake, non abbia per nessun motivo abbandonato il naturalismo, forma che, precisa John Gordon all’inizio, ha sempre contraddistinto la sua arte, a partire da Dubliners: «From beginning to end, Joyce remained a mimic in the root sense of the word.» (p. 1). Lungo tutta la produzione di Joyce l’arte di mimare (cioè di fornire uno specchio della realtà) cambia notevolmente e in Finnegans Wake giunge a livelli sino ad allora inimmaginabili. Ma si tratta sempre della stessa arte – secondo Gordon. E forse è proprio così. Quello che sembra mancare è la possibilità di uscire da un’arte che si presenta come multiforme copia della realtà (“multiforme copia” quanto si vuole, ma pur sempre copia). Al posto dell’individuo dovremmo vedere qualcosa come “oggetti plurali”, che probabilmente è più simile a ciò che ha guidato Joyce lungo la composizione di Finnegans Wake, aprendo così l’avvicinamento a quell’aggregato che può essere infine rintracciato come insiemi plurali. Quindi non si dovrebbe riassumere la trama riducendola agli individui, ma seguire il gioco d’espansione degli insiemi plurali. L’esplorazione di Finnegans Wake dovrebbe avvenire proprio facendo a meno dei soliti parametri. Quindi, anziché vedere la vicenda naturalistica sotto la superficie caotica, bisognerebbe considerare il caos come modo utile per abbandonare il naturalismo. Sono sempre stato dell’idea che l’arte di scrivere debba preventivamente tendere a una distruzione di qualsiasi lingua. Ma che, nel caso particolare, è la lingua che lo scrittore si trova a usare. Perché la lingua è proprio ciò che lo scrittore deve violentare, prima di ogni altra cosa, come ben sapeva Sade. Qualunque cosa si possa dire di Finnegans Wake, bisogna partire da questo principio: Finnegans Wake è un testo che non prevede il discorso. È probabile che Finnegans Wake sia proprio il primo testo composto nell’ottica del rifiuto del discorso razionale. Che è come dire il rifiuto all’allineamento razionale. Questo perché il richiamo deve essere verso ciò che è il disprezzo. Del disprezzo della ragione, prima di tutto. Al metodo di Joyce (pur sempre fondato sullo stream of consciousness) bisognerebbe contrapporre il metodo messo all’opera nei Canti di Pound, vale a dire un metodo che prevede un romanzo non più fondato su di un personaggio – in quanto equivalente a ciò che prevede una teoria intermedia del soggetto. Il risultato è che in Joyce è sempre il personaggio a parlare. Bisognerebbe invece arrivare a un romanzo in cui sia il linguaggio a parlare e a dettare la trama, costruendo di tanto in tanto – ma mai secondo la forma di una necessità – qualcosa come un individuo parlante. E quindi a parlare attraverso gli individui.

Musica automatica

Ho sempre pensato che la “genialità” di ciò che ci si ostina a chiamare popolo italiano non consista in nient’altro se non nella possibilità, che ha avuto il “popolo italiano”, di intravedere la nostra epoca moderna, fatta di decadenza e idiozia, grazie alla degenerazione razziale che fatalmente lo costituisce. Dante ha visto la moderna società multirazziale, soggetta all’islam, nella sua idiozia di poema e commedia all’italiana. Heidegger riconosceva nel Faust il merito di avere previsto l’epoca delle macchine. Niente di tutto questo si vede nella puttanata di Dante. Eppure in un punto gli Italiani hanno previsto l’epoca moderna: nella musica. In realtà la musica degli Italiani è sempre stato uno straccio di vergogna per quel popolo miserabile. Niente è più lontano, da quello straccio di popolo che sono gli Italiani, quanto la musica. Che riassume ciò che si può fare nella filosofia richiamando ciò che nella filosofia non si può fare. Per quale motivo si può dire che la musica italiana abbia precorso e percorso i tempi, fino a configurare l’epoca moderna? C’è un punto in cui la musica italiana ha previsto il futuro: il punto fisso piantato dalla stupida musica di Vivaldi. Ho sempre odiato la musica di Vivaldi. Musica automatica, musica che infastidisce. “Musica automatica” è l’espressione con cui io identifico quello che Miguel Serrano definiva con l’espressione “replicazione golemica”. Musica che è solo attesa di qualcosa che non si sa bene che cosa sia. Qualcosa che non arriva mai e che, appunto in quanto attesa, dà sui nervi. Musica che sembra volere distrarre, ma che invece ha lo scopo di infastidire. Perché è musica che non è musica, essendo solo fatta per riempire qualcosa che non si vuole fare vedere. Ma musica che tuttavia riempie il tempo. Quale tempo? Il tempo dell’attesa. Ma che senso ha, per una musica, fissarsi come tempo dell’attesa? Eppure quello che mi ha sempre infastidito nella musica di Vivaldi è questo essere fissata in un tempo dell’attesa. Ma ora ho capito in che cosa consiste la musica di Vivaldi: è la musica delle segreterie telefoniche. Genialmente preparata in quello schifo di città cloaca. Musica che dà sui nervi, musica ripetitiva. Ma anche per questo ci voleva genio: il genio latino, il genio cloaca. “Genio” della razza. Genialità dell’idiozia. Musica automatica. Ora capisco perché non ho mai amato la musica di Vivaldi.

H.C.E. – Il segno

È risaputo che la lettura di Finnegans Wake comporta difficoltà enormi di lettura.
Len Platt (Joyce, Race and ‘Finnegans Wake’, Cambridge University Press, Cambridge 2007) propone una semplificazione di queste enormi difficoltà di lettura suggerendo una presa di posizione univoca da parte di Joyce, valevole per tutta la stesura di Finnegans Wake. Presa di posizione che popone una precisa traccia degli eventi narrati in Finnegans Wake, e che riconoscerebbe il punto culminante di tale narrazione nell’evento della detronizzazione di HCE, Humphrey Chimpden Earwicker, oste di Chapelizod, da parte del figlio Shaun. Ma presa di posizione che avrebbe guidato tutta la composizione di Finnegans Wake. Tale presa di posizione, da parte di Joyce, sarebbe da riconoscere nella presa di posizione contro l’ideologia della razza da parte di Joyce; ideologia tanto malevola (e tale riconosciuta da Joyce) quanto prevalente in Europa nel tempo della stesura di Finnegans Wake.
Ma c’è da chiedersi: è sufficiente questa presa di posizione, evidenziata in Joyce, Race and ‘Finnegans Wake’, e, nel testo Joyce, Race and ‘Finnegans Wake’, attribuita a Joyce nella composizione di Finnegans Wake?
Questo perché la domanda fondamentale che deve essere posta sembra invece disporsi attraverso la forma: che tipo di romanzo si è infine presentato tramite Finnegans Wake?
La razza è ciò di cui è impossibile parlare: «Obsessed with all origins – the first building; the first city; the first act of sex; the first writing; ‘the first peace of illiterative porthery in all the flamend floody flatuous world’ (this being claimed of the prankquean tale at 23.9-10), and so on – the Wake is also famously concerned with originary language. But here the idea of the first ‘yew’ and ‘eye’ (23.36) is a matter of comic treatment rather than ‘science’. ‘Pure’ language is entirely compromised not just by the fact of cross-language puns and portmanteaus but inasmuch as the Wake revels so much in its own ‘contamination’. The genetic model of historical linguistics, which ignored what it constructed as irrelevancies or ‘unsystematic intrusions’ and focused on an essential ‘core’, is entirely undermined by the Wake.» (pp. 19-20).
Questo perché tutto è confuso all’origine. Nel romanzo che scruta all’origine. Solo la lingua è ciò di cui lo scrittore può disporre. Ma cosa succede quando lo scrittore rifiuta la lingua che dovrebbe determinare il suo ricordo nel tempo?
Solo la lingua è ciò che permette di parlare di razze. Così bisogna precisare che non esistono razze pure, così come non esiste lingua originale. Tutto è frutto di commistioni. La lingua è lo schiavo della razza.
Ma così si può aprire il discorso relativo alla differenza tra autentico e inautentico.
E proprio la razza, precisa Joyce, Race and ‘Finnegans Wake’ aprirebbe il discorso allo “sporco”; sempre ampiamente presente in Joyce. Ma questo perché, secondo l’intento di Joyce, Race and ‘Finnegans Wake’, lo “sporco” è ciò che si oppone alla teoria ufficiale della razza presente nel periodo in cui Finnegans Wake veniva composta.
Ciò che non si può pensare in modo razionale ha diritto di sfuggire alla comprensione nazionale. Quindi Finnegans Wake (che è un romanzo che parla del tonfo, da parte dell’individuo qualunque, nello stemma della razza) deve porsi come romanzo incomprensibile. Ma questo perché lo stemma della razza è il tonfo dello stemma. Cioè della razza. Finnegans Wake butta all’aria una delle certezze più comuni relative all’arte dello scrivere: la certezza relativa alla comprensibilità affidata da sempre all’arte dello scrivere da parte di colui che si pone come “autore”. Che è quello che non riguarda lo snobismo dell’artista d’avanguardia. È proprio quello che Umberto Eco non ha compreso – ma peggio per lui! (Dio stramaledica l’Italia!)
Finnegans Wake non si presenta come opera difficile da comprendere, quanto come testo impossibile da comprendere nella sua totalità. L’avere affrontato, come tema di composizione di Finnegans Wake, il tema del sogno comporta, da parte del testo di Finnegans Wake, l’accettazione della difficoltà che si presenta come ciò che non può essere accettato nel dire del tempo del risveglio. Poiché ciò che è fondamentale del sogno è appunto la sua incomprensibilità nel tempo che succede al sogno, cioè ciò che riguarda il tempo del risveglio. Che è il tempo della razionalità del dire. Che si è sempre esteso, prima della comparsa di Finnegans Wake, alla possibilità di dire razionalmente il sogno. Quindi di dire il sogno secondo ciò che non pertiene al modo di dire del sogno, ma ciò che è il modo di dire il sogno che è ciò che rimane del sogno – nel tempo del risveglio – del linguaggio del sogno.
Infatti Joyce, in Finnegans Wake,  non sembra volere razionalizzare il percorso del sogno, o l’interpretazione del sogno, quanto riprodurre il meccanismo del sogno. Che, lacanianamente, è il linguaggio del sogno. Percorso che si manifesta nella immersione dei temi della razza. Che non devono condurre da nessuna parte. Poiché la razza è proprio ciò che non ha più parte.
Nella razza, in quanto tuffo impreparato negli archetipi collettivi, è proprio ciò che si nasconde, impreparato nella razza, ciò che sfugge al discorso razionale, che è il discorso nazionale così come noi lo intendiamo. Poiché razionale e nazionale è ciò che appunto può essere scambiato. Joyce, Race and ‘Finnegans Wake’ dimostra proprio come sia difficile, adesso, affrontare il tema della razza. Poiché la lingua che noi abbiamo come dato nazionale è proprio ciò che si è formato per non parlare di ciò che noi ancora chiamiamo “razza”. Che per noi è ciò che razionale, che forma ciò che è nazionale.
Notare infatti: la copertina del libro presenta Joyce in atto di avanzare. Ma avanzare chissà verso dove. Eppure nel disegno Joyce sembra avanzare con decisione. Ma avanzare con quello che è riconosciuto essere il “passo dell’oca”. Collegando immagine di copertina e titolo del volume (Joyce, Race and ‘Finnegans Wake’), si potrebbe supporre che il libro tenda a coinvolgere Joyce, almeno nell’epoca di Finnegans Wake, nella ideologia della razza presente in Europa nell’epoca della composizione di Finnegans Wake. Ma questo è proprio quello che Joyce, Race and ‘Finnegans Wake’ tende a mettere da parte. Anzi, a contrapporre. Eppure questo è ciò che viene lasciato al lettore, in quanto spazio libero di pensare, che solo il lettore può fare, nel momento in cui ha a disposizione un testo – Finnegans Wake – che si pone di raccontare la caduta a terra nel mondo degli archetipi collettivi della razza, quando il romanzo, nella forma finale di Finnegans Wake, si pone come romanzo che rifiuta la comprensione del suo dire come forma estrema di accettazione del proprio lettore. Poiché la domanda è: dove si va?