Hallvard Birkeland

Solo un nido di parole rende uno scrittore. Ma essere scrittore è ripiegarsi su uno snodo di parole. Infatti ciò che si snoda insegna sempre più a fare a meno del soggetto. Lo scrittore diventa così descrittore di tempi. Ho cominciato a sapere di Hallvard negli anni Novanta. Tempi ancora piovosi. Alla Ølhallen ho imparato a riconoscerlo. Arrivava con uno zainetto. Erano i pomeriggi in cui si manifestava quello che per me, per diversi anni, sarebbe stato ancora il dono della tarda estate artica. Ma dal 1983 la chiamavo così. Con il duemila cambierà. A volte lo vedevo già seduto al suo tavolino. L’unico tavolino in quella sala della birra per due persone. Preferivo il posto in fondo, quello a lato del segno Utferd (“Fortuna”). Sul suo sgabello Hallvard scriveva in un taccuino con la copertina nera, appoggiato al muro davanti alle finestrelle scure sotto la Storgate. Prendere appunti è tutto quello che deve fare uno scrittore. Da quelle finestre veniva la luce d’autunno. Qualche volta mi ha chiesto il giornale, quando nelle rastrelliere a muro nessuna copia era più disponibile dietro i due orsi imbalsamati. Forse allora non c’erano ancora. Sagome che si vedono ancora adesso. Cose per turisti. Per gente di passaggio. Il giornale si chiamava “Bladet Tromsø”. Ora si chiama “iTromsø”. Da allora, quando mi sono trovato ad occupare quel tavolino, l’ho sempre segnalato come “Il posto di Hallvard”. Poi nel tempo ho imparato a maneggiarlo. Entrando, e trovandolo vuoto, l’ho sempre strisciato lentamente sul pavimento, attento a non fare troppo rumore, ma in modo da ottenere lo spazio per il bagaglio che sistemavo contro l’angolo del muro, prendendo poi un sedile dai posti vicini, se lì non c’era o se solo volevo cambiarlo. Ormai mi muovevo con la disinvoltura di chi ormai quel luogo lo conosce. Il colore del legno del tavolino era perfettamente intonato a quello del soffitto, delle pareti e del pavimento. A volte mi è capitato di vederlo passare dopo essere entrato, dare un’occhiata e riconoscere il posto occupato da me. Indossava un maglione chiaro. Uno scrittore è qualcosa che serpeggia appena, furtivo in un tempo e in uno spazio contato, raccolto in un gomitolo tutto suo di parole mai svolto fino in fondo. Per questo lo scrittorte è la cosa più facile del mondo da schiacciare. Ma scrittore è colui che è chiamato a rendere conto intorno a un posto nel mondo. Questo perché scrittore è colui che, a differenza di tutti i suoi simili, riesce a fare a meno delle parole in quanto strumenti per comunicare, al fine di spedirle in spazi di bellezza impensati. Così mi sono reso conto che quello è il posto giusto per uno scrittore. Poi in inverno ho imparato a vederlo al venerdì prima della Quarta Domenica d’Avvento, quando il locale risuona pieno zeppo per l’apertura delle feste del Solstizio d’Inverno. Occupava uno spazietto in piedi, col bicchiere di birra appoggiato davanti. Ormai la città era cambiata. Laurizt non c’era più da tempo (l’ultima volta che l’ho visto era nel luglio 2006). Unni ho continuato a vederla sia alla Ølhallen che alla Jernbanestasjon. Una volta mi ha riconosciuto di colpo, al banco della Ølhallen, era in fila come me per pagare. Ordinava le birre come gli altri clienti. Odd Andersen l’ho visto e sentito l’ultima volta nelle feste del solstizio d’inverno 2014. Prima di vederlo, l’ho sempre sentito. Occupavamo due spazi diversi. Il suo ritratto lo fotografavo già da tempo. Adesso sembra che Goffy venga solo tra le 13 e le 14. Una volta Goffy mi ha detto: «Författaren är här!». Mi aveva visto sfogliare la copia di Hotel du Nord. Con il suo soffitto a volta, i mattoni della Ølhallen sono sempre stati un locale caldo e accogliente, tanto in estate quanto in inverno. La terra crea il suo abitante, ma con attenzione lo chiama da lontano. Quando forte è il pericolo. Le prime volte che frequentavo la Ølhallen i sedili non erano imbottiti. Poi ho visto fare la piccola pedana a sinistra dell’Utferd. Dalle finestrelle vedevo in estate l’autunno che mi avrebbe aspettato. Non ho mai amato la terra dove poi lo avrei visto arrivare strisciando. Amare e odiare è solo spegnersi a fianco di persone delle quali si sa a malapena un nome. Il calo di presenze lo si riconosceva nel modo in cui ci si muoveva disinvolti nei bagni. Dopo un po’ hanno messo i rubinetti con la cellula. Mi è capitato di farne vedere il funzionamento. Goffy occupava lo spazio in fondo, davanti al computer portatile. Su YouTube ho visto i voli dei modellini cadere a spirale in quei grandi cieli del Nord. Si riconoscevano sempre le forme dei monti. Forme dove i monti chiamano il mare, ma con un volo livido e freddo, come livido e freddo è il mare, quando livido e freddo è il dono di un ultimo dio appena prima del risveglio.

Oggetti biologici

Nella conferenza di Heidegger intitolata Il pericolo il punto centrale è rappresentato dalla frase in cui si ricordano i morti nei campi di concentramento, e anche i morti nella lontana Cina. In entrambi i casi si tratta di morti che suonano in modo smorzato. Per cui si pone più volte la domanda: “muoiono?”. Prima di porre questa domanda, il testo aveva ricordato il pericolo rappresentato da un ordinamento di cose che nella modernità vengono sistemate come cose tutte uguali tra loro, secondo un ordinamento che avanza pretesa di oggettività. Quindi come cose tra le quali non si pone più nessuna distanza. Vale a dire che rinuncia a un ordinamento selettivo. Dopo questa domanda, cioè dopo la domanda relativa alla possibilità di morire, l’attenzione si sposta sulla tecnica.
Si può allora porre la domanda relativa a ciò che fa sì che l’attitudine di presentare le cose come un insieme senza spazio tra loro, di cose tutte uguali tra loro, possa condurre alla domanda riguardante i morti nei campi di concentramento, e poi alla domanda relativa alla questione della tecnica.
Ritorniamo alla frase sui morti nei campi di concentramento. Solo l’essere umano giunto alla costituzione filosofica di un principio di essere umano può morire – dice il testo. Eppure il concetto di “essere umano” è un concetto accettato universalmente. Dove si insinua la differenza? Adesso noi riceviamo la notizia della morte di persone lontane nella conta delle carcasse dei migranti che vengono pescate nei vari mari a sud dall’Europa. Per arrivare ad avere una fine bisogna avere avuto un inizio. Avere una fine richiede avere comunque un inizio. Ma dove? Carcasse di migranti e oggetti biologici è quanto propone la vicinanza offerta dalla modernità. Che è quanto la modernità propone quando propone la vicinanza tra informazione e filosofia. Ma appunto in questo c’è da porre la domanda centrale posta nel punto di mezzo della conferenza: sono morti? La domanda deve aggirare l’ostacolo della vicinanza, che pone sullo stesso piano il puro oggetto biologico e l’essere umano. Se la filosofia non riesce a determinare una definizione precisa di “essere umano”, allora la filosofia è inutile. Ma nel testo di Heidegger abbiamo a che fare con una filosofia che scavalca questa inutilità e che stabilmente pone la differenza.
Questo perché a porre il luogo della domanda è la terra dove la domanda ha il suo reale inizio, cioè l’Europa.
Ma che cosa comporta l’accettazione dell’era della tecnica, su cui la parte finale della conferenza, quella dopo il passaggio sui morti nei campi di concentramento, consiste, ma non insiste?
In una ipotetica terza parte, la tecnica dovrebbe imporsi come tecnica di allevamento e tecnica di selezione. Che è appunto quello che spaventa gli sparuti esegeti di Nietzsche e di Heidegger che si sono avventurati da quelle parti. Losurdo e Faye primi fra tutti.
Così la conferenza di Heidegger richiama su tre questioni: il pericolo riconosciuto attraverso la vicinanza di tutte le cose; la questione della morte, che separa un essere umano da un puro oggetto biologico; la questione della tecnica al servizio della creazione di una nuova casta di schiavi, e della soppressione di quanti, tra gli oggetti biologici, non sono più in grado di funzionare come schiavi.
Il tempo del nazismo è ciò con cui l’Occidente deve essere portato a confrontarsi. Perché in questa sfida è ciò verso cui l’Occidente è portato nel suo nuovo inizio. Questo è appunto ciò che il pensiero dell’Occidente ha rifiutato di fare, ma che appunto la filosofia di Nietzsche e di Heidegger richiama a fare.
Solo il fuoco accompagna il pensiero. Nel fuoco l’uomo è messo di fronte alla responsabilità dei pregiudizi che gli franano addosso.
Perché questo è ciò che è necessario per accettare la sfida fondamentale che l’attende, cioè l’antisemitismo: cuore d’Europa.

Un archetipo collettivo europeo

Si può parlare di un archetipo collettivo europeo operante attraverso la bestemmia? Chi è colui che dà vita alla bestemmia in Europa?
Si parla spesso della inutilità della bestemmia. Si dice: chi crede in Dio non deve bestemmiare; chi non crede in Dio non ha alcun motivo per bestemmiare. Tuttavia questo potrebbe essere un modo blando di affrontare la questione della bestemmia.
(Incursione prima. La letteratura) Un personaggio della Nuova Justine di Sade dice: “Io non credo in Dio, ma vorrei che Dio esistesse per avere il piacere di insultarlo”. Qui è condensato tutto il piacere che prova colui che bestemmia. Questo testo di fantasia scatenata può aiutarci a capire molto del meccanismo della bestemmia. Prima di tutto la bestemmia in sé non soddisfa. Deve avere un bersaglio preciso. Questo bersaglio preciso deve essere il dio. Spesso si dice che colui che bestemmia è una persona che cerca Dio. Ma forse la questione è più sottile, perché chi bestemmia cerca, sì, Dio ma solo per offenderlo con lo schiaffo della sua bestemmia. Si offende per provocare una reazione. Quale può essere la reazione di un dio nei confronti di un uomo che lo ha insultato? Perché infatti un uomo dovrebbe mettersi a lottare contro un dio? Non è una lotta dal risultato scontato? Quale vantaggio può pensare di ricavarne colui che bestemmia?
(Incursione seconda. La storia) Le saghe islandesi riferiscono spesso l’arrivo del nuovo dio cristiano nell’Islanda “pagana”. Il nuovo dio viene riconosciuto come un dio straniero che gli abitanti dell’Islanda non vogliono accettare. Si sa che questo nuovo dio è un dio prepotente, giunto in Islanda con lo scopo di stravolgere la vita delle persone che abitano l’Islanda e di distruggere radicalmente la tradizione. Pertanto si sfida questo nuovo dio prepotente a duello, lo si insulta per costringerlo al combattimento. Lo scopo del combattimento è chiaro: cacciarlo dall’Islanda. Ma chi è che lancia questa sfida? Nei resoconti della tradizione islandese questo compito spetta a Þórr, il dio che Dumézil collegava alla funzione guerriera. Il dio della tradizione pagana era infatti la figura più adeguata per combattere contro il dio straniero.
Quanto riportato dai resoconti islandesi è vago, spesso filtrato dalle convinzioni dei redattori dei testi pervenuti, chi a favore della tradizione, chi della nuova religione straniera. Noi adesso possiamo essere più chiari in questi schieramenti, conoscendo cose che all’epoca non si conoscevano e potendo dare un nome a molte di esse: prima di tutto sappiamo il motivo per il quale il nuovo dio suonava straniero; parimenti sappiamo il motivo per il quale gli dei tradizionali erano gli dei del popolo. Possiamo infatti affermare con certezza che gli dei della tradizione minacciati dal nuovo dio sono gli dei della tradizione indoeuropea, nella loro versione germanica, dèi comuni alla tradizione dei popoli scandinavi, cioè della razza bianca; possiamo altresì riconoscere il nuovo dio prepotente che vuole distruggere la tradizione come il dio di un’altra razza, che non ha nulla a che fare con la razza indoeuropea, un dio che non appartiene alla razza bianca, perché proveniente da tutta un’altra razza, precisamente dalla razza semita.
A livello di archetipo collettivo, colui che bestemmia vuole scacciare via dall’Europa il dio semita perché sa che la sua terra non è terra per il dio semita. E vuole che – per nessun motivo – la sua terra diventi terra per il dio semita. Egli riconosce in quel dio prepotente una estraneità di razza così come una arroganza di razza e riconosce in se stesso il rappresentante della razza indoeuropea, riconoscendo pertanto la sua terra come la terra della razza bianca d’Europa. Egli quindi insulta il dio semita per costringerlo al combattimento e scacciarlo dalla terra della razza bianca d’Europa, che il dio semita, con la inequivocabile prepotenza della sua razza, ha invaso. Egli vede in quel meschino dio semita lo straccio dietro il quale la stracciona razza semita caracolla per entrare in Europa.

Cacciatori di nazisti

A volte Emmanuel Faye mette proprio di buonumore: «L’uso della parola Negerkral [da parte di Heidegger] è la cifra di un razzismo profondamente radicato. Raramente utilizzato, il termine tedesco Kral deriva da Kraal, parola olandese che sta per “villaggio”, che ritroviamo nell’inglese corral e che, in Sudafrica, designa il recinto per il bestiame: non siamo lontani dal “parco zoologico umano” di Peter Sloterdijk. Negerkral significa dunque “villaggio di negri”, o peggio: “recinto per negri”. Evidentemente, per il profondo razzismo di Heidegger il fatto di accostare l’Acropoli a un villaggio africano costituisce di per sé uno scandalo che non c’è nemmeno bisogno di commentare. La connotazione razzista di questo brano ci ricorda cosa già diceva dei “negri” e dei Bantu nei corsi del 1934.» (p. 360).
I cacciatori di nazisti fanno sempre più l’effetto degli sgangherati cacciatori di vampiri messi in scena in un film di qualche anno fa. Ma anche di quelli che si vedono caracollare nella pellicola dell’italo-americano Tarantino. È gente che fa sempre un po’ pena, ma pure non ha fatto il suo tempo.
Il nazismo aveva una ideologia favorevole alla formazione di un grande pensiero filosofico. Come dimostrato dal pensiero di Heidegger, che pure Faye non riconosce come pensiero. Egli infatti, quando deve parlare della filosofia di Heidegger, lo fa ponendo il termine filosofia tra virgolette, e la stessa cosa quando parla del filosofo Heidegger. Nel paragrafo “Il pericolo dell’opera di Heidegger e la sua discendenza negazionista” del nono capitolo discute sulla possibilità che l’ammirazione per il pensiero di Heidegger possa condurre di riflesso a una ammirazione per il nazismo, che quel pensiero ha prodotto.
Il nazismo era già di per sé “un altro inizio”. Qualsiasi altro inizio deve porsi sotto il segno di una opposizione assoluta al mondo giudaico-latino. Questo mondo, pur agendo come tale, non si riconosceva in quanto mondo, poiché si appellava a un vuoto dove i pensieri potevano manifestarsi. Tantomeno si riconosceva come razza. Il nuovo inizio, in quanto mondo germanico, riconosce il nuovo mondo e la razza che lo abita come insieme di caratteristiche indispensabili per la formazione del nuovo pensiero. È quanto Heidegger riconosce nel saggio Perché restiamo in provincia?, che Faye liquida come ideologia völkisch. Il nazismo si proponeva concretamente come l’alternativa germanica. Il nazismo non ha prodotto Heidegger, tanto meno Heidegger ha fatto in modo di “introdurre” il nazismo nella filosofia, ma opporsi alla visione del mondo giudaico-latino a favore della nuova visione del mondo germanica doveva per forza provocare un insieme che – per semplificare – comprende tanto il nazismo quanto Heidegger.
La domanda è fino a che punto sia ancora utile rimanere attaccati ai vecchi giudizi sul nazismo. Questi giudizi nascono invariabilmente dalla visione giudaico-latina del mondo e dalla sua difesa.
Che cosa è che spinge il pensiero di un filosofo? Tante cose. Se una di queste fosse la razza? Faye sembra a disagio davanti a questa possibilità, che pure la sua indagine sembra intravedere. Dall’io al noi. Ma anche l’io ha avuto le sue genealogie plurali.
Nel paragrafo “Dal revisionismo della risposta a Marcuse al negazionismo ontologico delle conferenze di Brema” (capitolo nono), giustamente Heidegger pone la domanda se le persone soppresse nei campi di concentramento nazisti siano mai realmente morte, visto che per la sua filosofia solo attraverso il raggiungimento dell’essere si può accettare autenticamente la morte. Nella filosofia la nozione di essere umano deve avere una valenza filosofica. Per cui, grazie a tale valenza, si può arrivare a dei paradossi se giudicati con il senso comune: l’individuo è immortale, come afferma certo idealismo, ad esempio quello di Gentile; certi uomini non muoiono mai, anche se vengono uccisi, come Heidegger può affermare in base al suo pensiero.
Faye precisa molte volte che l’intento di Heidegger sarebbe quello di distruggere la filosofia. Ma ogni innovatore fa piazza pulita. Nietzsche ha fatto lo stesso. «Io sono dinamite» diceva di se stesso. Nietzsche fa una vita randagia, nascosta, tutta ripiegata sulla sua opera segreta. Heidegger occupa un’altra posizione: carriera brillante, notorietà, conferenze, visibilità, ma il principio è lo stesso: distruzione del vecchio modo di pensare; apertura verso un altro tipo di pensiero, filosofia dell’avvenire. La filosofia di Heidegger può sembrare accademica, mentre quella di Nietzsche può spaziare verso l’antifilosofia, la lirica, il libro profetico. Ma l’intento è lo stesso: è un nuovo pensiero, sconcertante, che si fa avanti. Nel suo modo di affrontare “il problema Socrate” Nietzsche si scaglia contro la dialettica, l’arte di convincere con le argomentazioni del discorso ordinato proprio perché egli vede in essa la fine dell’aristocrazia, della razza greca. E infatti vede in Socrate il non greco, lo straniero, l’eversore di una grande tradizione. Giustamente dal suo punto vista, Faye rimprovera a Heidegger di non considerare mai Socrate: «Non sorprende quindi che nelle decine di migliaia di pagine che Heidegger ha lasciato non si trovi pressoché alcun riferimento a Socrate. Alla dialettica, che a partire da Platone permette la vitalità del dialogo filosofico e fonda l’esigenza intellettuale dell’interrogazione sui concetti, egli ha sostituito l’uso dittatoriale della parola ed esaltato la lotta, da condurre fino all’annientamento del nemico.» (p. 448), ma questo dimostra appunto che la questione è affrontata da Faye a rovescio.
Compito della filosofia è favorire un nuovo pensiero. È essere il nuovo, nonostante tutti i paradossi e le contraddizioni che questo nuovo, non ancora comparso appieno, possa portare nel pensiero ereditato dalla tradizione.
A volte Faye ha l’incanto di lasciare di stucco: «[…] in seguito alla sconfitta della Germania nazista Heidegger modificherà ancora una volta il suo discorso secondo il corso dell’‘evento’, affermando da quel momento in poi che “questa guerra mondiale non ha deciso nulla”. Eppure si tratta di una guerra che ha liberato l’Europa dalla dominazione nazista.» (p. 381).

Emmanuel Faye, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, L’Asino d’oro, Roma 2012 (I ed. Albin Michel, Paris 2005)

Meridione d’Europa

Miguel Serrano: «Anche se si potrebbe accettare come un comodo elemento di esposizione la teoria delle razze dell’anima e dello spirito, di Evola e Clauss, alla fine non si rende necessaria, complicando unicamente le cose, servendo per parlare di razzismo tra genti troppo mescolate e popoli meticci, senza arrivare a ferire i loro sentimenti, giacché un mulatto, o un indio, tra noi potrà sempre pensare che sebbene il suo corpo sia di colore, la sua anima potrebbe non esserlo. Nasce il sospetto che tutto fosse stato inventato da Evola per parlare di razza agli italiani del sud ed allo stesso Mussolini.» (M. Serrano, Adolf Hitler, l’ultimo Avatara, Edizioni Settimo Sigillo, 2 voll., Roma 2010, I vol., p. 120).

Adolf Hitler: «Si pensi alle devastazioni che l’imbastardimento giudaico appresta ogni giorno al popolo nostro, e si rifletta che questa intossicazione del sangue potrà solo dopo secoli, e forse mai, essere eliminata dal corpo della nostra nazione. Si consideri pure quanto questa decomposizione della razza abbassi gli ultimi valori arii del nostro popolo tedesco, e spesso li distrugga, cosicché la nostra forza di nazione portatrice di civiltà va sempre retrocedendo, e noi corriamo il pericolo di arrivare, almeno nelle nostre grandi città, al punto in cui si trova già oggi l’Italia meridionale.» (A. Hitler, La mia battaglia, in A. Hitler, Mein Kampf, Edizioni di Ar, Padova 2009, pp. 233-4).

Chi nasce Italiano, non muore di razza.