Dodici romanzi

1. R. Musil, L’uomo senza qualità
2. J. Joyce, Ulisse
3. J. Joyce, Finnegans Wake
5. W. Goethe, Gli anni di noviziato di Wilhelm Meister
6. W. Goethe, Gli anni di viaggio di Wilhelm Meister
7. A.S. Puškin, Evgenij Onegin
8. A.S. Puškin, La figlia del capitano
9. H. Melville, Moby Dick
10. H. de Balzac, Un tenebroso affare
11. D.A.F. de Sade, La nuova Justine e Juliette ovvero le prosperità del vizio
12. D. Defoe, Robinson Crusoe

I titoli sono scelti in base a una doppia esigenza: il romanzo deve mantenere una forma estetica, non deve essere una semplice descrizione naturalistica di fatti (il romanzo è soprattutto arte della digressione); deve andare oltre la natura che lo ha informato, vale a dire oltre la propria natura, quindi oltre la forma del romanzo, oppure rivoltarsi apertamente contro di essa. Il romanzo è arte dell’impossibile. Quindi? Quindi per iniziare è giusto chiedersi: non è il saggio critico la forma più lontana dal romanzo? La ricorrenza di tre nomi con due testi ciascuno, indica come il romanzo sia il tentativo di non conciliazione tra due opposti possibili: giorno e notte, progetto e digressione, poesia e prosa (e –  nel caso dell’estrema eccedenza – virtù e vizio). L’ordine dei titoli è dato dal tempo in cui essi sono giunti, ad uno ad uno, ad una mente attenta a tutto, fuorché alla distrazione. Ma il romanzo è anche arte della menzogna. È l’arte di quelle “robinsonate” che Marx segnalava in alcune delle proprie opere, come, qua e là, distrattamente, quanto tenebrosamente, ci si limita a indicare. Il numero “dodici” rimanda al turbine centripeto della Caccia Selvaggia; è anche il numero che si oppone al “dieci”, che invece rimanda all’asservimento della precettistica semita.

Civiltà messa a nudo

Donatella Di Cesare, Heidegger e gli ebrei (Bollati Boringhieri, Torino 2014), imposta bene la questione dell’antisemitismo in Nietzsche.
Ma gli Ebrei non hanno fatto tutto da soli. Al loro fianco hanno sempre trovato gli Italiani. Sbagliata l’impostazione di Nietzsche: “Giudea contro Roma”. È la civiltà germanica a contrapporsi all’insieme che comprende Giudea, Roma, Italia. E giustamente Lutero combatteva gli Italiani in quanto sede della menzogna papale.
Il progetto filosofico di Derrida è il segno di una sradicatezza. Tutta la decostruzione della metafisica, come intesa da Derrida, segna un capovolgimento del progetto di Heidegger. Con Heidegger una civiltà veniva messa a nudo. Non c’era soltanto il progetto di una nuova fondazione, vale a dire di un nuovo inizio della filosofia grazie a un rinnovato radicamento razziale, ma la possibilità di intendere la filosofia precedente come progetto razziale che ha sempre negato la propria origine di razza. In questo atteggiamento Heidegger continuava Nietzsche. Con Derrida tutto questo intreccio di possibilità si interrompe.
In Heidegger e gli ebrei Donatella Di Cesare delimita il contorno del progetto seguendolo da Nietzsche a Heidegger, passando attraverso Hitler.
Il progetto filosofico di Derrida è un progetto votato alla sradicatezza, cioè alla ripresentazione del progetto della decostruzione della metafisica inaugurato da Heidegger sotto il segno dell’assenza dell’appartenenza al suolo, del radicamento a un suolo d’origine. Progetto che in Heidegger prevedeva un nuovo inizio della filosofia a partire dalla civiltà germanica come modo di pensiero che autenticamente abita una terra, e uno smascheramento del precedente inizio della filosofia, appena tramontato, cioè della filosofia giudaico-romana, come metodo di pensiero che fraudolentemente nasconde la propria origine sulla terra.
Purtroppo, nemmeno Heidegger andava sino in fondo, cioè in fondo al primo inizio; in fondo alla Grecia.
L’Europa ha bisogno di un  nuovo antisemitismo. Di un antisemitismo rifatto da cima a fondo. Tale da comprendere Giudea e Roma, Ebrei e Italiani.
La filosofia di Derrida spoglia la filosofia di Heidegger del richiamo alla terra. Si configura come un richiamo alla deterritorializzazione. Heidegger e gli ebrei di Donatella di Cesare identifica il richiamo alla terra presente nella filosofia di Heidegger. Che passa inevitabilmente attraverso l’antisemitismo. L’Europa ha adesso bisogno di un diverso e più completo antisemitismo. Questo perché l’Europa o sarà antisemita o non sarà.
O l’Europa sarà antisemita o non sarà. Rivolgersi verso ciò che è antisemita è per l’Europa ritrovare il proprio cuore. Antisemitismo, cuore d’Europa. Rivolgersi a questo vuole dire fare i conti con il dio semita che dal Medioevo abita l’Europa con l’inganno, come un clandestino; vuole dire fare i conti con le razze che hanno facilitato e permesso l’ingresso in Europa del dio semita: Greci e Romani prima, Italiani dopo.

Europa antisemita

Gli Italiani devono essere assimilati ai Semiti. Un vero antisemitismo, purtroppo ancora tutto da formulare in Europa, deve comprendere gli Italiani.
Finalmente!
Li deve stringere entrambi in un nuovo, autentico antisemitismo; che sarà l’abbraccio che viene dal cuore dell’Europa.
Da lì è necessario partire per un nuovo inizio del pensiero.
Tutto ciò che è italiano ha impronta africana. Vale anche per ciò che è spagnolo; un po’ meno per ciò che è francese.
Nietzsche riconosceva con certezza da sonnambulo il carattere africano del paesaggio ligure.

La Croce va a Sud

Lo sguardo incantato nel progetto
All’inizio di Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi viene subito spiegato ciò che di strano si ripiega nel motivo del titolo: «Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia.» (p. 1).
Due considerazioni sono possibili:
1) Cristo appare come l’artefice di una civiltà, l’eroe culturale che, venendo dal Nord, avrebbe dovuto scendere lungo tutto il Sud;
2) ma, per un qualche motivo, questo viaggio dell’eroe culturale si è interrotto improvvisamente.
È aberrante che il cristianesimo, religione semita, quindi del Sud, sia visto come qualcosa provienente dal Nord, mentre invece è stata proprio la Croce, cioè il cristianesimo, ad andare a Nord – e sappiamo con quali difficoltà (Martin Carver, The Cross Goes North, Boydell & Brewer Ltd, Woodbridge Suffolk 2003).
A causa dell’interruzione di questo viaggio civilizzatore, sostiene il testo Cristo si è fermato a Eboli, deriva il carattere pagano del mondo contadino. Quel mondo pagano che il semita Carlo Levi osserverà e consegnerà al testo noto come Cristo si è fermato a Eboli.
Ricorrendo a questo artificio, il paganesimo può essere visto come ciò che è fuori del tempo; come ciò che è arretrato e degno di un illuministico disprezzo. Poiché di questo si tratta.
Da qui l’atteggiamento del narratore, atteggiamento che non è immotivato. Esso è infatti lo sguardo dell’intellettuale di una sinistra illuminista, che si identifica nella missione civilizzatrice del cristianesimo, e quindi nel viaggio verso sud dell’eroe culturale: Cristo. Il cui viaggio risulta poi improvvisamente interrotto.
Di che cosa parliamo? Della fastidiosa, semitica certezza del monoteismo culturale del meticcio italiano.
Indicare un Nord cristiano e un Sud pagano è allora un modo di capovolgere una questione già presente.
Poiché la Questione meridionale, di cui nel testo si parla, nasce proprio da questo capovolgimento. Non si tratta allora di una questione di inclusione, quanto di una questione di esclusione. È qui ciò di cui bisogna parlare.
«Nord e Sud uniti nella lotta!» Ma che cosa è Sud e che cosa è Nord, in quella flatulenza di geografia che è l’Italia?

Lo sguardo raziocinante – Ciò che mastica l’intellettuale
Prima riflessione: qual è il rapporto tra Cristo si è fermato a Eboli e il romanzo postmoderno di Umberto Eco? Per verificarlo è utile soprattutto partire dalla denuncia, dalla volontà di scrivere un romanzo per mettere sotto gli occhi una situazione – agli occhi dell’autore, vergognosa.
Seconda riflessione: Cristo si è fermato a Eboli potrebbe anche essere confrontato con Storia e coscienza di classe di György Lukács. Una delle questioni che ricorre in Cristo si è fermato a Eboli riguarda infatti la «coscienza politica» dei contadini (p. 71), di cui l’intellettuale riconosce con costernazione la completa assenza. Questi temi si intrecciano particolarmente nel penultimo paragrafo del libro (pp. 232-240).
Più precisamente: questo intellettuale riconosce la mancanza di storia, qui rappresentata da Cristo, e poi la mancanza di una coscienza di classe. I contadini sono pagani perché il paganesimo è ciò che viene prima della storia, cioè prima del cristianesimo. È il cristianesimo a mettere in moto la storia, a imporre la nuova e unica cronologia, dettata dalla nascita del suo eroe culturale.
Ma questo cosa comporta? Questo sguardo dell’intellettuale si concretizza in bozzetti ai limiti della comicità: si consideri, ad esempio, la scena nella miserabile stanza del prete don Trajella, con le galline appollaiate sul mucchio di libri (pp. 84-7). Il risultato non è mai tragico, perché è un qualcosa che sfiora la commedia. L’unica scena tragica, il mondo di Matera, appare nel racconto della sorella del protagonista, in una aggiunta tanto artificiosa quanto letteraria (pp. 76-81); artificiosa tanto da far piangere lacrime di sassi a tutto il neorealismo.

Lo sguardo becero – Il momento migliore per gridare: «Viva l’Italia!»
In gita in Italia, un gruppo di emigranti ricorda, in Cristo si è fermato a Eboli, le scampagnate domenicali fuori porta a New York: «La domenica mattina si saliva in treno, ma bisognava fare dei chilometri, per trovare la campagna! Quando eravamo arrivati in qualche posto solitario, diventavamo tutti allegri come ci si fosse tolto un peso di dosso. E allora, sotto un albero, tutti insieme, ci si calava i pantaloni. Che delizia! Si sentiva l’aria fresca, la natura. Non come in quei gabinetti americani, lucidi e tutti uguali. Ci pareva di essere ragazzi, d’essere tornati a Grassano, si era felici, si rideva, si sentiva l’aria della Patria. E quando avevamo finito, gridavamo tutti insieme: “Viva l’Italia!” Ci veniva proprio dal cuore.» (p. 89). L’Italia è tutta qui: nell’aria di merda di casa. Nel piccolo italiano di merda, che ha nostalgia dell’Italia di merda: il cuore e il culo hanno appena l’incanto di un bacio nel soffio di una distanza; così come, nelle case romane, le cucine e le latrine avevano appena il soffio di una paratia. È la commedia all’italiana che fa il suo sconcio capolino. Quindi è la commedia dell’arte che occupa di nuovo il palcoscenico ridipinto da Goldoni, e che ora viene occupato dall’intellettuale ebreo e italiano e di sinistra. È la logica dell’intellettuale di sinistra. Per Brecht era questione di fare arte attraverso la rappresentazione del bisogno di mangiare. Per l’intellettuale italiano si tratta del piacere impagabile di cagare.
Lo sguardo di questo intellettuale sul mondo contadino è sempre – in fin dei conti – derisorio. Lo si è mai notato? Sembra di no. Ecco una riflessione su quelle misere case di contadini: «Sotto il letto stanno gli animali: lo spazio è così diviso in tre strati: per terra le bestie, sul letto gli uomini e nell’aria i lattanti.» (p. 113). L’intellettuale intuisce i ritmi, vede la suddivisione dello spazio. Comprende l’ottimizzazione razionale di uno spazio limitato. Fa il suo mestiere di intellettuale. Ma cosa si può dedurre dalla sua osservazione? Che cosa provoca la lettura di questa sua osservazione? Soltanto riso. Riso di schermo. Riso beffardo da palcoscenico. Se questo intellettuale avesse scritto Il pensiero selvaggio, allora Il pensiero selvaggio sarebbe lo schermo di una grande comicità da avanspettacolo, un canovaccio da Commedia dell’Arte. Un mistero buffo plebeo e platealmente sporcaccione.
Dietro il testo serio e tetro, e socialmente impegnato di un intellettuale italiano c’è sempre la commedia italiana, o, se proprio si vuole richiamare la nuova oggettività cinematografica, il documentario stile Mondo cane: impeccabili entrambi nella loro irriverenza, nella loro tendenza a non perdere occasione per sfottere, nel loro becero qualunquismo. L’Italia è solo uno sfottò, una pernacchia, una scorreggia, una cagata: è un qualcosa che fa vergogna fare, che va fatta di nascosto, ma che alla fine, quando si è riusciti a fare, fa tanto piacere, poter gridare, nel vuoto in cui la si è fatta: “Viva l’Italia!”.

Lo sguardo menzognero – Il mito
Il semita Enea, si legge in Cristo si è fermato a Eboli, pone le fondamenta del potere di Roma; ponendo insieme le basi di quel potere che schiaccerà i contadini italici, cioè lo strato autoctono (pp. 130-132).
Notare come in questa ricostruzione manchi assolutamente qualunque accenno all’apporto indoeuropeo. Tutto si svolge tra agricoltori Italici e invasori semiti. L’Italia è giustamente tenuta fuori dalla civiltà indoeuropea.
Su questo sfondo compare il nuovo eroe culturale: Cristo. Cristo è il semita ripulito, de-eneizzato, che viene dal Nord, identificato nel testo come il luogo da cui la civiltà proviene, per civilizzare, ma che si ferma a Eboli.

Il tempo dell’Italiano di merda
Il tempo oggettivo rappresentato in Cristo si è fermato a Eboli occupa un anno. Ogni esperienza della vita, fatta suonare nell’arte di scrivere, suona come nota falsa. L’arte di scrivere non ha ancora in sé l’equivalente del serialismo dodecafonico. L’accusa di truffa è sempre pronta – e sempre passibile di legittimità.
“Cristo si è fermato a Eboli” è una contestazione e una constatazione etnologica da parte dell’Intellettuale italiano di merda, che riconosce appunto in Cristo l’eroe culturale della propria razza; ma è anche un titolo che si presta a suonare come una imprecazione: “Cristo! Si è fermato a Eboli!”: vale a dire: “perché non è andato oltre Eboli? Perché, proprio lì (Cristo santo!), si è dovuto fermare? Perché (Cristo santo!) non è riuscito a proseguire, portando anche laggiù la stramaledetta, fottuta cultura semita-italo-cristiana?” dell’Italiano di merda?.
Un Italiano di merda è un Italiano di merda. Un intellettuale di sinistra di merda è un intellettuale di sinistra di merda. Un italiano intellettuale di sinistra di merda è un italiano intellettuale di sinistra di merda. Un intellettuale italiano di sinistra di merda è un intellettuale italiano di sinistra di merda.
Dio ci aiuti a liberarci dagli Italiani di merda. Dio stramaledica l’Italia!

Carlo Levi, Cristo si è formato a Eboli, Einaudi, Torino 1945.

Tenebra

La letteratura nasconde pieghe di pensiero insospettabili. Almeno finché non si vuole spingere il pensiero attraverso rotte mai praticate sino ad allora: quando le frasi trite, rese scivolose dalle interpretazioni scontate, suonano musiche inaudite.
Non è questo forse il caso del celebre «Che orrore!» di Kurtz (Cuore di tenebra)? Possiamo infatti affermare di avere fatto suonare quella battuta nel modo ad essa più consono? cioè nella giusta tonalità? Oppure, se non si tratta di scala tonale, nel giusto principio strutturante relativo al tipo di musica?
A che cosa si riferisce quel «Che orrore!», che rimane così impresso tra la giungla di parole del racconto?
Siamo proprio sicuri che quel motto sia lì, nella notte di quella giungla di parole, per confermare le nostre certezze?
Le domande di Conrad in Cuore di tenebra:
Domanda 1. “Che cosa ci fanno i bianchi, adesso, in Africa?” Il colonialismo si rivela infatti senza senso. Questo non vuole dire condannare il colonialismo. Vuole solo dire che il colonialismo si rivela come qualcosa che non ha, ad un certo punto, più nessuno scopo. Anche ammettendo che il colonialismo sia nato con uno scopo (forse uno scopo che non si voleva nominare, forse che è rimasto senza nome perché tutti i nomi erano già stati assegnati), bisogna adesso ammettere che si è ridotto a un qualcosa che viene portato avanti senza uno scopo.
Domanda 2. “Dal colonialismo non ci si poteva aspettare qualcosa di più?”. Perché solo burocrati? La partenza era buona, ma l’arrivo ha presentato il conto peggiore. Si consideri l’episodio del burocrate che permette ai Negri di trattare i Bianchi con arroganza anche in presenza di altri Bianchi: qui è tutta l’inconsistenza del colonialismo, di quel colonialismo che ha permesso – come nota finale – “l’emancipazione dei Negri”.
Cosa dice infatti Conrad, in Cuore di tenebra, dei Negri? come li vede, come li sente, quando li ascolta da lontano, nascosti nella giungla delle sue fitte parole?
I Negri (nel capitolo 2) sono visti come esseri preistorici; tuttavia nel testo ci si stupisce che essi non siano completamente inumani e ci si stupisce persino del fatto che abbiano una certa parentela con il Bianco. Ci si stupisce che siano “umani”, quindi che appartengano al genere umano. Compiendo un viaggio a ritroso nel tempo della terra, si finisce per compiere un viaggio a ritroso nelle idee del tempo; cioè del tempo presente.
Apocalypse Now rappresenta lo scarto epico sul testo di Cuore di tenebra: la stessa cosa che succede nelle messe in scena teatrali, quando i costumi e la scenografia “attualizzano” la vicenda di un testo. È lo sguardo epico brechtiano in azione. Ma Apocalypse Now, proprio come Brecht, mette da parte il pensiero e impedisce il pensiero al suo pubblico. Nel teatro epico di Brecht tutto si svolge a livello del gesto che ieraticamente mostra qualcosa allo spettatore. Lo spettatore fa così a meno di pensare. Il teatro epico mantiene soltanto l’illusione di un pensiero; e regala al suo pubblico l’illusione di avere compreso. Il pensiero, se mai si può parlare di pensiero, è tutto consegnato nella cifra che trasporta un dato testo in una epoca non sua. Il Vietnam di Apocalypse Now non ha le vertigini della giungla di parole di Cuore di tenebra: niente giungla, in Apocalypse Now. Tutto si svolge a livello di un testo che solo un gesto mostra passibile di un confronto a ritroso.
Cuore di tenebra è basato sulla esperienza di una tenebra. Sul suono del viaggio che Marlow compie a ritroso e che giunge a conclusione nel punto di Kurtz. Ma questo viaggio porta proprio a sgretolare i principi umanistici, che, dietro al progetto del colonialismo, e nonostante il crollo del colonialismo, restano ancora ben saldi. Marlow si rende conto che i Negri non sono esseri umani e teme che egli, in quanto Bianco, possa avere una affinità con loro. È lo sgretolamento dei pregiudizi più accreditati che egli qui viene ad esperimentare. Questa esperienza ha l’aspetto di un vento d’eclissi che riempie di tenebra un cuore preso in prestito da un corpo di cane.
Che cosa è infatti il “cuore di tenebra”, il cui incontro minaccia tutti personaggi del racconto? Il battito di un altro cuore, la vertigine che rompe l’attimo quando si ha il crollo dei pregiudizi su cui una persona aveva fondato la propria esistenza. Questi pregiudizi sono qui condensati nel pregiudizio fondamentale: “ogni uomo è un uomo”, mai esposto in quella giungla di parole, ma sempre presente nell’arrancare tra quei tamburi nascosti nella giungla di parole. Questo è il crollo del pregiudizio giudaico cristiano, e ciò che di rimbalzo colpisce Marlow, rimpiattato nell’appena percettibile «Che orrore!» di Kurtz.