Losurdo: «Come sappiamo, in Nietzsche il richiamo alla grecità autentica, pensata in contrapposizione anche con la romanità, cede progressivamente il posto al richiamo al mondo greco-romano nel suo complesso, travolto dalla sovversione ebraico-cristiana. È per questo che, sul finire della seconda guerra mondiale, Heidegger rimprovera al filosofo di essersi ispirato non già alla Grecia bensì a Roma. E la celebrazione della prima in contrapposizione alla seconda è ben presente anche in intellettuali e personalità più direttamente legati al nazismo. Non così in Hitler, che bolla il cristianesimo in quanto responsabile della “fine di un lungo regno, quello del luminoso genio greco-latino”. Roma è tutt’altro che sinonimo di decadenza: “L’impero romano non ha mai avuto l’eguale. Essere riusciti a dominare completamente il mondo! E nessun impero ha diffuso la civiltà come quello”. In questo senso ha ragione lo Heidegger che comincia a prendere le distanze dal Terzo Reich a rimproverare congiuntamente al nazismo e a Nietzsche di essersi lasciati affascinare dall’opzione romana.» (D. Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico, Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp. 845-6.)
È proprio da constatazioni del genere che si può pensare alla possibilità di una storia razziale del pensiero. Così come Cacciari pensava a una geofilosofia.
La Lettera sull’«umanismo» di Heidegger, stesa nel 1946 per motivi quasi occasionali, è un bilancio del suo pensiero. Il punto di partenza è l’umanismo, che si caratterizza proprio a partire da Roma, e dalla distanza che Heidegger prende nei confronti della romanità: «È al tempo della Repubblica romana che l’humanitas viene per la prima volta pensata e ambita esplicitamente con questo nome. L’homo humanus si oppone all’homo barbarus. L’homo humanus è qui il Romano che eleva e nobilita la virtus romana attraverso l’“incorporazione” della paideia assunta dai Greci. I Greci sono i Greci della tarda grecità, la cui cultura era insegnata nelle scuole filosofiche. Essa riguarda la eruditio et institutio in bonas artes. La paideia così intesa viene tradotta con “humanitas”. L’autentica romanitas dell’homo romanus consiste in tale humanitas. A Roma incontriamo il primo umanismo. Nella sua essenza, quindi, l’umanismo resta un fenomeno specificamente romano, che scaturisce dall’incontro della romanità con la cultura della tarda grecità. Il cosiddetto Rinascimento del XIV e del XV secolo in Italia è una renascentia romanitatis. […] All’umanismo storicamente inteso appartiene perciò sempre uno studium humanitatis, che attinge in un determinato modo all’antichità, diventando così di volta in volta anche una ripresa della grecità. Ciò si vede da noi nell’umanismo del XVIII secolo sostenuto da Winckelmann, Goethe e Schiller. Hölderlin, invece, non appartiene a questo “umanismo”, perché pensa il destino dell’essenza dell’uomo in modo più iniziale di quanto non possa fare questo “umanismo”.» (M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», Adelphi, Milano 1995, pp. 41-2).
Franco Volpi: «La retorica del mito tedesco lo risucchiò [il problema dell’umanesimo] nell’orizzonte della contrapposizione tra la germanità, che rivendicava un primato culturale e, sul piano filosofico, un rapporto originario con la grecità, e la romanità latina, considerata “secondaria”, al pari dell’Umanesimo e del Rinascimento che ne dipendevano.» (Nota introduttiva, in M. Heidegger, cit., p. 23). Da notare quello che lo stesso dice in nota: «Se e in quale misura anche Heidegger cavalcasse il motivo di questa contrapposizione sviluppandola soprattutto sulla scorta della propria interpretazione di Hölderlin, è una questione che richiede un giudizio articolato e prudente.» (nota 2, p. 23).
In questo campo le ricerche di Faye sono benvenute. Ma bisognerebbe anche affrontare attentamente la posizione di Heidegger nei confronti della romanità e dell’Italia.
È importante mettere in campo il discorso sulla razza in filosofia. È il modo più veloce per arrivare alla domanda: “Chi parla?”
Su Farías e Faye
In merito alle teorie di Víctor Farías ed Emmanuel Faye: il significato delle loro ricerche cambierebbe notevolmente se il nazismo non venisse più inteso come il male assoluto; un male assoluto con il quale non si può avere a che fare senza compromettersi per sempre. Al contrario, il significato di Heidegger, così come quello di Nietzsche, verrebbe approfondito se si riconoscesse la possibilità di un pensiero che indaga ciò che deve ancora venire; cioè un nuovo modo di pensare – non come fatto eccentrico, ma come destino. Nel caso di Heidegger, questo avrebbe potuto succedere anche grazie al nazismo; ma è allora implicito che il nazismo stesso doveva contenere delle caratteristiche tali da spingere la comparsa di un pensiero del genere. La stessa cosa si può affermare per la ricerca di Domenico Losurdo nei confronti dei rapporti tra Nietzsche e il pensiero reazionario. Fino a che punto un pensiero può essere indipendente dalle mille sfumature di una modernità? Tanto il pensiero reazionario quanto il nazismo hanno posto alcune premesse che hanno costituito le basi per la formazione del pensiero di Nietzsche e per quello di Heidegger. Chi può dire che escludendo l’influsso del nazismo su Heidegger non si impedisca un approfondimento del suo pensiero?
È fondamentale confrontarsi con il fatto che tanto Nietzsche quanto Heidegger abbiano trovato spunti per il loro pensiero con le massime vertigini del pensiero reazionario. In pratica adesso si nega in modo assoluto che il pensiero reazionario e soprattutto il nazismo abbiano potuto creare un pensiero geniale come quello di Nietzsche o di Heidegger, e si cercano tutte le strade possibili per negare influssi del genere. Ma accettare tali influssi senza spaventarsene aprirebbe un nuovo campo alla conoscenza di questi autori.
Così la modernità sarebbe allora a un passo…
Dove può condurre Nietzsche?
«La gente non sa e non intuisce abbastanza dove io possa condurre. Sono un animale pericoloso e non sono fatto per essere venerato.» (F. Nietzsche, Epistolario. V. 1885-1889. A Elisabeth Nietzsche, 7 maggio 1885, p. 50).
Qual è il luogo dove il pensiero di Nietzsche può condurre? Questo non è mai stato fatto oggetto di una riflessione. Nietzsche stesso avvertiva la pericolosità del suo pensiero. Deve trattarsi di un luogo dove l’uomo di oggi non può assolutamente trovarsi di casa, ma nel quale egli è chiamato a costruire la propria casa futura. Deve allora essere un luogo che evoca una trasformazione subita dall’uomo che oggi viene vista come impensabile.
La corda dell’impiccato
«[…] quest’anno ho molto riflettuto sulla qualità e sull’indole del popolo russo, grazie all’eminente psicologo Dostoevskij che, per quanto riguarda l’acume nell’analisi, non ha nessuno che possa stargli al fianco nemmeno nella modernissima Parigi.» (F. Nietzsche, Epistolario V, 1885-1889, Adelphi, Milano 2011, lettera 812, intorno al 4 marzo 1887, p. 339).
Notare che, parlando di Dostoevskij, Nietzsche lo definisce “psicologo” e non romanziere. Il discorso sulla forma del romanzo non lo interessa. Nei libri di Dostoevskij egli vede solo la capacità psicologica. Questa però si manifesta attraverso una certa forma che attiene al romanzo. Nietzsche, per esporre il suo pensiero, ha urtato le forme classiche del discorso filosofico, cioè dello scrivere libri di filosofia. Purtroppo non ha fatto altrettanto Dostoevskij con il romanzo.
Ma parlare di forma a proposito del romanzo è come parlare di razza nel romanzo, cioè come parlare di corda in casa dell’impiccato.
Lo sciamano e il superuomo
Contrapporre lo stile di vita modesto e nascosto di Nietzsche a quello plateale di d’Annunzio. Sono due atteggiamenti che la dicono lunga sul superuomo e i suoi fraintendimenti.
Nietzsche vedeva la propria attività come un lascito inevitabile per il futuro, da comporre in sciamanica solitudine, in accordo con la serenità della terra.
Paul Deussen, amico di Nietzsche, dopo avergli fatto visita a Sils-Maria nell’agosto del 1887, descrive così la stanza abitata da Nietzsche: «Era una modesta stanza in una casa di contadini, a tre minuti dalla strada maestra; Nietzsche l’aveva affittata per tutta la stagione a un franco al giorno. L’arredamento era quanto mai semplice. Da un lato stavano i suoi libri per la maggior parte da me ben conosciuti da tempo, poi c’era un tavolo rustico con una tazza da caffè, gusci d’uovo, manoscritti, oggetti per la toilette, il tutto in un variopinto disordine che continuava, oltre un cavastivali con uno stivale infilato, fino al letto ancora disfatto. Tutto faceva pensare a un servizio trascurato e a un padrone paziente, che accettava tutto.» (P. Deussen, Erinnerungen an Friedrich Nietzsche, Leipzig 1901, cit. in F. Nietzsche, Epistolario, V. 1885-1889, Adelphi, Milano 2011, p. 1161).