Politica e antropologia

Si parla tanto della corruzione presente nella politica italiana. Si cerca di trovare un rimedio; si cerca, cioè, di trovare un modo attraverso il quale la politica italiana non sia più afflitta dalla corruzione.
Si cerca di affrontare in modo morale, anche facendo leva su una questione generazionale, una questione che ha invece radici schiettamente antropologiche.
Il meticcio italiano è, per sua natura, strettamente portato al crimine; verso ogni tipo di crimine: dal crimine più grande, quello, ad esempio, di tipo mafioso, che prevede la grande criminalità organizzata, a quello che passa attraverso tutti i tipi di truffe, generalmente considerate “simpatiche” dal meticcio italiano, fino alla corruzione politica. Quest’ultimo tipo di crimine sembra poi fatto apposta per soddisfare il carattere sempre vile e malizioso del meticcio italiano, soprattutto di quello che ha raggiunto un certo potere.
E quindi la diffusione della corruzione nella vita politica italiana non deve stupire; la questione è infatti sempre la stessa: non bisogna pensare a migliorare – né a come migliorare – il meticcio italiano; bisogna pensare a come sopprimerlo.

Mendelssohn e Mahler

Nella musica di Mendelssohn e di Mahler c’è qualcosa di stranamente simile: un qualcosa che il termine superficialità può rendere. La musica è bella, convincente, ma è superficiale; si sente che manca di profondità.
Gli scherzi delle sinfonie di Mendelssohn riassumono appieno il misto di superficialità ed eleganza musicale. C’è maestria, arte della rappresentazione in tutti e due… ma qualcosa manca.
Una definizione possibile della musica di Mahler permette forse di comprendere quella di Mendelssohn: una musica troppo “profumata” per essere profonda.

Dialogo filosofico e polifonia

Il dialogo filosofico contiene il principio attivo di ciò che Bachtin, affrontando i romanzi di Dostoevskij, ha concentrato nella ricetta della “polifonia”. Si ha un senso unico, che traghetta i dialoghi di Platone, con Socrate come protagonista, verso i dialoghi di Heidegger, passando per l’arte del romanzo. L’arte del romanzo cosa può fare? Nietzsche riconosceva nella dialettica di Socrate il principio plebeo che si sostituisce a quello aristocratico: “il plebeo cerca di convincere richiamandosi alla ragione; l’aristocratico comanda!”
Ma dialogo filosofico e romanzo sono un rimedio galenico che non contribuiscono a farla finita con la replicazione golemica.
Eppure nel dialogo filosofico c’è qualcosa di vero, o anche solo una piccola verità. Cosa è che il dialogo filosofico, riconoscendolo, sembra mettere da parte (oppure viceversa)? L’alternativa tra convincere e comandare. Questi testi sembrano voler convincere intorno a qualcosa, e in realtà sono essi stessi assediati da ciò che è ad essi estraneo, cioè dall’arte del comando.
Quando l’arte del comando non suona come un’arte, allora stride come un richiamo.
In questo consiste l’insistenza della polifonia. Ciò  che viene richiamato è appunto la resa dei conti di ciò che non ha voce per giungere a chiamare. Quindi: che cosa è che chiama nei dialoghi filosofici? Chiama appunto ciò che non ha canto; cioè ciò che non ha terra dove potersi porre in un canto.
Nel dialogo è appunto ciò che non ha canto che fa da contrappunto.
Nietzsche aveva capito perfettamente l’opposizione: plebeo/aristocratico, tentativo di convinzione/comando. Ma anche la domanda è chiara: che cos’è che assedia il dialogo filosofico, plebeo e democratico, e che si replica nel romanzo? Che cosa parla infatti tutto attorno ai bordi della costruzione del dialogo, sia esso dialogo filosofico o romanzo, per richiamare infine a che cosa?

Un’altra razza

Al suo arrivo in Italia, Goethe è colpito dal colore bruno della pelle degli Italiani. A volte lo collega a un effetto della malnutrizione: «Appena si fece giorno, dopo che fui sceso dal Brennero, notai un netto cambiamento nei visi; specialmente sgradevole mi parve il colorito bruniccio pallido delle donne: i loro lineamenti denotavano miseria. […] Credo che la causa di tale salute malferma risieda nell’uso continuo del granturco e del grano saraceno.» (p. 37). Altre volte lo collega invece a questioni climatiche: «Sul lago di Garda ho trovato gente dalla pelle molto bruna e senz’ombra di rosso alle guance, ma tuttavia per nulla malsana all’apparenza, bensì fresca e ben portante. Può darsi che ciò dipenda dai vividi raggi solari cui sono esposti ai piedi dei loro dirupi.» (p. 38).
Quello che in realtà Goethe notava era una differenza di tipo razziale: gli Italiani non sono di razza bianca, almeno non lo sono nello stesso modo in cui lo sono i Tedeschi. All’interno di questa constatazione trovano posto i dettagli ulteriori. C’è una differenza, che noi oramai, sia per fattori ideologici, sia per questioni legate al nostro tipico modo di vivere, che prevede grandi e facili spostamenti, e insediamenti di diversi tipi razziali pressoché in quasi tutti i paesi del mondo, non siamo più in grado di cogliere, ma che i primi attenti viaggiatori, ancora immuni dall’ottundimento dei piccoli intervalli, coglievano. A noi farne l’uso più proficuo.

J.W. Goethe, Viaggio in Italia, Mondadori, Milano 1990.

Pensiero antidemocratico

Pensare il pensiero di Nietzsche vuole dire affrontare la possibilità di un pensiero antidemocratico, ponendosi – finalmente – in cammino verso la creazione di un pensiero in grado di funzionare su basi  antidemocratiche, anche solo in quanto pensiero.
Un pensiero libero, condizione indispensabile per qualsiasi nuovo pensiero, non può fare a meno, a partire da adesso, di avere l’aspetto di un pensiero antidemocratico, riconoscendo nella qualifica di “democratico” l’elemento fondamentale di tutti i mali e di tutte le cose da superare, cose che fanno capo a ciò che può essere definita la modernità, e ad essa connessi, aggirando quelle leggi che, non presenti da nessuna parte, condizionano il pensiero.
Non si è ancora concretamente pensato Nietzsche sotto l’aspetto del pensiero antidemocratico, cioè del pensiero nuovo. Questo perché non si è mai pensato Nietzsche integralmente. Eppure, la migliore e più convincente manifestazione di pensiero antidemocratico la si è avuta – finora –  con il pensiero di Nietzsche.
Niente è più difficile che essere l’artefice di un pensiero antidemocratico.
Nietzsche lo è stato, ma poi quanti altri lo sono stati?
Si può dire che il pensiero di Mishima fosse autenticamente antidemocratico? Quanto vecchiume del romanzo occidentale si è trasferito in quella arte “giapponese” della narrazione? Pensare in modo antidemocratico vuole dire creare una forma artistica inusitata, paradossale, che faccia sempre sorgere la domanda alla quale, per ora, non c’è risposta: “Che cos’è questa cosa che abbiamo davanti?”
Infatti sono le certezze più solide che devono franare, anche solo quelle che fanno riferimento a una forma consolidata.
Se la domanda si sposta al punto di passaggio tra pensiero non libero e pensiero libero (“fino a che punto il pensiero può essere libero?”), bisogna allora ricordare Sade: l’uomo più incarcerato della sua epoca e insieme l’uomo più libero tra tutti quelli della sua epoca.
Ma il pensiero antidemocratico è la possibilità che non cessa di minacciare continuamente la modernità.