Diritto Italiani bastardi! Rovescio 1 Inailati idratsab! Rovescio 2 !idratsab inailatI
Bachtin rovesciato come un guanto
Bachtin insegnava a riconoscere la tecnica polifonica di Dostoevskij all’interno dei romanzi di Dostoevskij. Questa tecnica consisteva, secondo l’analisi di Bachtin, in un tentativo di rintracciare voci diverse in quella che, nei romanzi, sembrava presentarsi come voce unica; voce che, apparentemente, da sola, portava avanti quella narrazione che, appunto in quanto sola, poteva costituirsi come composizione del romanzo.
Ma il romanzo è costituito da una formula esattamente opposta: una tendenza alla omofonia, cioè alla necessità di vedere una stessa voce in quello che nel testo si presenta come un intreccio di voci diverse. In questo caso, a essere basilare, è la teoria del soggetto, poiché proprio il soggetto regola la fuga delle voci, vale a dire la disposizione spaziale delle varie voci tra loro. “Soggetto” che si pone, appunto, come “punto di fuga”; cioè come punto di vista in uno spazio da cui ci si pone come osservatori. Ed è appunto il soggetto a osservare la fuga. È insomma la teoria del soggetto a detenere in sé il germoglio della polifonia. Non è la polifonia a rimandare a soggetti diversi.
Il romanzo diventa allora la parata della costruzione soggettiva mascherata da oggettiva indipendenza di voci. La polifonia è così un miraggio e compare la topologia.
Arte di raccontare
Nel saggio Dall’oralità alla scrittura. Riflessioni antropologiche sul narrare, Jack Goody presenta il poema epico come una unità narrativa necessaria, quasi indispensabile per l’etnologo, ma non per le società nelle quali i diversi tronchi del futuro poema epico funzionano (o almeno così egli pensa). È insomma l’etnologo a “spingere”, a mettere sulla “strada buona” affinché i suoi informatori raccontino quello che egli potrà in seguito utilizzare per i suoi scopi.
Nel saggio si contesta anche la credenza secondo la quale raccontare storie sia un tratto comune a tutte le società umane.
La narrazione sarebbe così un elemento a fianco di altri (gnomica, formula magica, ecc.), ma l’etnologo farebbe di tutto per isolarla in modo da averla tra le mani allo stato puro, perché per lui la narrazione deve essere un insieme organizzato solo in una certa maniera.
È probabile allora che la separazione tra mito e rito non sia, in definitiva, così distinta. Mito e rito potrebbero saltare l’uno nell’altro secondo determinati, imperscrutabili, fatali intervalli.
Il racconto così come noi lo intendiamo servirebbe più che altro a convalidare una certezza; il suo ritrovamento servirebbe a calmare un’ansia specifica del ricercatore.
Nel canone buddhista più antico, il Tipitaka, i Jātaka, racconti delle vite anteriori del Buddha, hanno una struttura fissa. Ogni jātaka si presenta in una forma tripartita:
1) Il «racconto del presente» (paccuppannavatthu). Ha funzione di cornice. È l’occasione che permetterà al Buddha di narrare per esteso ai suoi discepoli l’episodio di una sua vita anteriore.
2) Il «racconto del passato» (atītavatthu). Costituisce il jātaka vero e proprio, il racconto dell’episodio della vita anteriore del Buddha. In esso sono inseriti dei versi (gāthā) che contengono l’essenza del racconto. Segue un commento grammaticale e lessicale (veyyākarana) ai versi (probabilmente un’aggiunta posteriore).
3) La «connessione» (samodhāna), cioè la ripresa e la conclusione del racconto cornice, nella quale il Buddha identifica i protagonisti del racconto con i personaggi menzionati in apertura. È la chiusura della cornice.
Per quanto risalente al 1992, una traduzione italiana dei Jātaka, apparsa nella prestigiosa collana UTET Classici delle Religioni, si limita solo alla parte centrale.
Questa scelta fa perdere la struttura nella quale il racconto funziona, ma risolve una vecchia questione: “Eccolo, alla fine, il racconto!”
Sullo sfondo, in entrambi i casi, c’è la cocciutaggine con la quale noi vogliamo che i racconti funzionino secondo il nostro modo di pensare; questo perché vogliamo, in qualsiasi racconto, ritrovare sempre e solo la nostra arte di raccontare. E quindi vogliamo a tutti i costi, costi quel che costi, in ogni luogo e in ogni tempo, i nostri romanzieri.
Jack Goody, Dall’oralità alla scrittura. Riflessioni antropologiche sul narrare, in AA.VV. Il romanzo, a cura di Franco Moretti, 5 voll., Einaudi, Torino 2001-3. I vol., pp. 19-46.
Vite anteriori del Buddha (Jātaka), a cura di M. D’Onza Chiodo, UTET, Torino 1992, soprattutto pp. 12-3.
L’arte di restare nascosto
La vita di una persona non può mai essere condivisa con un certo numero di libri scritti a una certa età, in certi luoghi e in certe occasioni. Il concetto di autore scricchiola. Scricchiola a partire da qui. Se proprio lo si vuole mantenere, esso dovrebbe prevedere una sorpresa finale. Quale sorpresa? Quella che di colpo manifesterebbe un’opera messa insieme lungo tutta una vita, resa apposta casuale e monotona, non tramite libri singoli, ma attraverso rifacimenti dello stesso progetto, tendente a una sola frase fondamentale, o a uno snello insieme di frasi sottili e forse fondamentali. Il libro è un intralcio, soprattutto per un autore. Autore sarebbe allora sinonimo di attività postuma. E probabilmente, prima di sparire del tutto, che gli piaccia o no, esso è destinato a diventarlo per davvero.
I libri sono un intralcio e un surrogato, appena appena adeguato, richiesti allo scopo di consegnare un autore al fatto di essersi adeguato ai fondamenti, del tutto arbitrari (quando lo si comprenderà?), di una carriera.
Che cosa cambierebbe col sopraggiungere di questi principi? L’opera sarebbe un enigma, a volte lunga, sì e no, quanto una frase; essere un autore sarebbe una delle tante manifestazioni dell’arte di restare nascosto per tutta la vita.
I Tre Culetti
Li chiamavano I Tre Culetti. Ma uno per uno li chiamavano: Culetto Suadente, Culetto Puntiglioso, Culetto Crudele.
In Italia, quando una persona non parla da sola, parla sempre addosso a un’altra persona: parla con rabbia e a voce sempre più alta, allo scopo di soffocare la parola di qualunque altra persona. I Tre Culetti, invece, parlavano sempre uno dopo l’altro, in modo soffice e curiosamente ordinato. Vero è che, secondo alcuni, più che di un ordine del discorso, si trattava di monotonia “secca e sputata”; e vero è che la voce dei Tre Culetti era di una monotonia incredibilmente fastidiosa. Nessuno però poteva negare che, nel discorso dei Tre Culetti, ci fosse alla fine un ordine superiore e perfetto, regolato appunto dal passaggio alla parola dei singoli Culetti: Culetto Suadente cominciava una frase gorgogliante di verdose promesse, Culetto Puntiglioso la continuava con una rabbia biancastra che alludeva a lontane minacce, Culetto Crudele la terminava con una stoccata di rabbia rutilante.
C’era poi qualcuno che, proprio a causa delle sfumature di colori che il discorso dei Tre Culetti prendeva, a mano a mano che i singoli Culetti si passavano la parola, chiamava i Tre Culetti il Triculore.