Una musica che non c’è più

Certa musica moderna (Lontano di György Ligeti, Spiegel im Spiegel di Arvo Pärt, A Midsummer Night’s Dream di Benjamin Britten, In tempus praesens di Sofija Gubajdulina) andrebbe analizzata dal punto di vista della persistente e suadente evocazione di una musica che non c’è più. Anche il Rake’s Progress di Stravinsky si fonda su un analogo artificio. È come se questa musica richiamasse la capacità di evocare qualcosa di una musica che, nella sua completa struttura, semplicemente, ormai non c’è più. Sotto certi aspetti, l’avanguardia più radicale (Cage, ad es.) ha avuto dalla sua qualcosa di più onesto: la volontà di rompere a tutti i costi con una musica del passato.
Sarebbe da precisare il ruolo svolto da Mahler nella formazione di questa particolare musica moderna. Adorno diceva che l’Adagetto della quinta sinfonia è musica inconsistente. Mahler avrebbe così aperto a questo tipo di musica inconsistente, a questo tipo di musica di puro effetto? (Pensare anche all’Adagio della quarta sinfonia. È l’aspetto “sehr ruhig” della musica di Mahler che dovrebbe far pensare.)
Ma è comunque possibile vedere il doppio aspetto della musica di Mahler: musica di strada (erede della musica dei giardini di Mozart); musica di pura sensazione (proiettata, appunto, verso questi aspetti della musica di Britten, Ligeti, Pärt, ecc.).
In questa musica possibile ha la sua posizione imponente Šostakovič. Notare i ritmi con le percussioni.
     Alcune cose devono essere chiarite:
          1. Qual è questa musica che non c’è più? Perché questa musica è così familiare, anche solo tramite un rapido accenno?
         2. Qual è il luogo dove questa musica, posto che la si possa precisare, può essere definita come “musica che non c’è più”? E, soprattutto, qual è il luogo dove questa musica era familiare, prima che diventasse “musica che non c’è più”?
         3. Qual è il rapporto tra lo “spettro” che si aggirava per l’Europa, la figura del Golem, e questa musica, che, con passo d’avvoltoio, viene dai vecchi Paesi Comunisti (Šostakovič, Ligeti, Pärt, Gubajdulina). Qual è il rapporto tra tutto questo e la musica germanica?
È probabile che qui si richiami una differenza fondamentale: quella tra “arte elevata” e arte di consumo. Lo stato socialista ha spesso contrastato questa differenza.
(Ma tutto questo è, probabilmente, una delle facce del postmodernismo.)

La timidezza delle parole

La questione dell’olocausto non si pone. Il revisionismo ha avuto il merito di dare una scrollata alla questione, ma sembra ossessionato dalla priorità di assolvere il nazismo.
La questione dell’olocausto deve semmai essere impostata da un punto di vista completamente diverso. Questo punto di vista deve essere appunto, una volta di più, ciò che elimina il punto di vista.

Anche con la parola “razzismo” è la stessa cosa. Spesso si sente accusare di razzismo gruppi che storicamente sono stati vittima del razzismo. (Succede in Sudafrica dopo la fine dell’apartheid.) Ma questo è un cattivo uso del termine “razzismo” assunto solo in quanto parola. Vale a dire in una dimensione puramente di cronaca giornalistica. Si è spesso più timidi con le parole che con le persone. In realtà, il razzismo è una corrente filosofica e antropologica che concerne la razza bianca. La sua messa in gioco globalizzata non può essere passata di mano in mano come una moneta, cioè come una “parola” divenuta valore di scambio valido solo per convalidare un disvalore.
È appunto questo aspetto che riguarda anche l’olocausto.

Disastrosamente trascinato

Leggere tutti i libri del mondo e scriverne uno che li contenga tutti è ormai l’impegno verso cui lo scrittore che rifiuta il postmoderno non può che non sentirsi disastrosamente trascinato.
Un testo del genere – se mai fosse possibile – non dovrebbe avere né inizio né fine, perché dovrebbe richiamare, in ogni suo punto, tutti i libri puntuali del mondo. Avrebbe quindi affinità con le storie della tradizione popolare. (Con un allineamento al Livre di Mallarmé.)
Il suo autore dovrebbe essere autore solo in quanto passo d’unione tra libri differenti e possibilità di vedere collegamenti tra sistemi fino ad allora pensati tra loro estranei.
La possibilità di un autore del genere (che consisterebbe soltanto nella capacità di vedere le relazioni e che quindi non dovrebbe insistere in un autore) sarebbe allora la fine dell’autore stesso, così come il suo libro sarebbe la decostruzione anticipata del concetto di libro.
Ma sempre la danza del dio a sera coniuga un bagliore d’esultanza allo spessore della notte.
Questo perché tutta l’estetica moderna deve partire dal naufragio intravisto da Nietzsche:
      was liegt an Worten!
     was liegt an mir!

Letteratura italiana (e Italiani bastardi)

Mi ha sempre infastidito la letteratura italiana. Letteratura che conosco pochissimo. Per disprezzarla non è necessario conoscerla; è solo necessario disprezzarla; disprezzarla sempre, comunque, dovunque. La sua diffusione dipende dal fatto che la letteratura italiana, più che di una letteratura, ha le fattezze di un virus. È una infezione fatta per colpire anime coniglio; fatta per essere trasmessa attraverso anime coniglio.
Questo dipende dal fatto che l’Italia non è una nazione e gli Italiani non sono un popolo. L’Italia è quel qualcosa che una banda di massoni è riuscita a fare di tanti maledetti pezzi di terra diversi.
In alcuni saggi memorabili, Heidegger indica in Hölderlin il poeta della razza germanica. Gli Italiani sono un popolo di bastardi. Un popolo di bastardi non ha un poeta. Un popolo di bastardi ha soltanto qualche paroliere. Dante è il massimo paroliere del popolo bastardo degli Italiani.
Il poeta svela al suo popolo il suo destino. Un popolo di bastardi non ha un poeta. Un popolo di bastardi non ha un destino.

Un compito per gli studiosi

In un saggio sulla censura applicata al romanzo in vari luoghi della terra, Walter Siti fa questa interessante riflessione: «La libertà di narrazione, sembra, in Occidente, non avere più limiti, se non forse quelli posti dalla democrazia stessa. Un racconto che in tutta serietà esaltasse il razzismo o auspicasse i campi di concentramento, avrebbe anche da noi vita difficile.» (Il romanzo sotto accusa, in AA.VV., Il romanzo. I. La cultura del romanzo, Einaudi, Torino 2001, p. 154.)
Ecco dunque tutto un nuovo campo di censura possibile per il romanzo. Censura che entrerebbe in funzione nelle società democratiche.
La comparsa di un testo con queste caratteristiche (cioè composto con la massima serietà delle intenzioni) è statisticamente possibile (e auspicabile).
Probabilmente tale comparsa è inevitabile, imposta dal genere stesso del romanzo, dalla società e poi dalla disgregazione di quelle componenti che nel romanzo avevano avuto una delle loro espressioni artistiche.
Forse testi del genere sono in varie forme già presenti. Si tratta di riconoscerli.
Solo un compito per gli studiosi?