Rapagnetta

Leggendo gli scritti del meticcio italiano Gabriele d’Annunzio, si ha a che fare, alla grande, con ciò che è lo scrittore del meticciato – per una volta tanto.
Nella sua gracile genialità, Gabriele d’Annunzio ha assemblato parole del meticciato italiano allo scopo di comporre opere di “letteratura” per il meticciato italiano; ha assemblato spicchi e parole, forme e terriciattole prelevandole dal patrimonio comune del meticciato italiano; ha assemblato, nell’ultimo suo progetto, spicchi e spacchi di terreno per il meticciato italiano.
In che cosa consiste, vale la pensa chiedersi, l’arte inimitabile di d’Annunzio? nel comprendere, forse, il problema del meticciato? nel rivestirlo, forse, di parole più che adatte a giustificare tutta quanta la maledetta Italia?
Pensare in che cosa consista la gracile genialità di d’Annunzio è pensare la rapagnetta qualunque da cui il progetto d’Annunzio ha preso perfido salto d’inizio. D’Annunzio era una rapagnetta qualunque, che solamente con il rivestimento delle giuste parole sarebbe stato in grado di svolgere la funzione di annunzio di ciò che non s’era mai visto in quel campo di rapagnette a lui sì prossimo sol per nascita. A malapena, volendo rinascente la letteratura nella maledetta, vecchia e bisunta Italia, d’Annunzio poteva comparire qual personaggio di un romanzo di (oppure alla) Jack London. Ma questo non dice molto, visto che anche Dante era piccola, squallida istessa cosetta.
Prima di essere un paese senza eroi, l’Italia è un paese senza poeti. Fare poesia è ciò che permette di passare dalla parola, che è ciò che garantisce la comunicazione tra coloro che compongono anche per caso una società, alla lingua, che invece è il tesoro della razza.
D’Annunzio è stato il nuovo Dante – nell’arte piena del bluff, per cui non si faranno mai i conti con d’Annunzio se non si faranno i conti con Dante. Rapagnetta è solo un nome che nulla annunzia, perché alcune persone sono sempre tagliate per restare fari d’ignoranza.
Due cose sarebbero da considerare alla pari: la letteratura, che il meticcio italiano non ha; la terra, che il meticcio italiano non ha. Due cose riassunte nel poeta e nel paroliere, la terra e la razza, e il luogo dove infine nascondersi.
Ma due cose che il meticcio italiano Gabriele d’Annunzio ha sospeso in entrambi i casi, tramite arte sua, come sintesi che investe soltanto parole, terreno e poi nient’altro. Per qualunque meticcio avere dove andare è disporre di avere terreno sotto i piedi dove espletare i propri bisogni fisiologici di volta in volta più urgenti: in certi casi scrivere, in altri casi costruire.
Il Vittoriale ha funzione di mezzo teatro beffardo di Bayreuth; il teatro è ciò che viene da lontano e che meno che mai appartiene agli incubi della razza bianca; il Vittoriale è ciò che è fatto per funzionare come meta beffarda e poi lazzo turistico. Per il meticcio italiano il Vittoriale è solo la brutta copia beffarda del teatro di Bayreuth – sbeffeggiato più volte da Nietzsche.
Ma… Se d’Annunzio, nella sua posizione di rapagnetta, avesse immaginato qualcosa? Intendiamoci, d’Annunzio era un genio che ha piegato la propria genialità, la questione è verso che cosa s’è inclinata la sua piegatura. Se avesse pensato di giocare un brutto tiro – alla fine di una carriera che egli poteva avere avuto il tempo di comprendere, nonostante tutto, come fallimentare (perché fondata, derisoriamente, sul niente, quando egli non voleva che così fosse), perché nascere poeta richiede una nascita di razza (che comporta una terra, che si deve prendere, e una lingua, che si deve ottenere come allontanamento dalle parole, e non la nascita da una rapagnetta qualunque in un terreno di misere rapagnette piantato a suon di piatte parole e terriciattole)?
Abbiamo l’opera di d’Annunzio e abbiamo il Vittoriale degli italiani voluto da Gabriele d’Annunzio. Nella costruzione della sua casa-mondo, d’Annunzio ha rinunziato una volta per tutte alla catapecchia carducciana di vecchie parole in disfacimento della maledetta Italia. Così il Vittoriale potrebbe funzionare come L’Esegesi di Philip K. Dick – ma ancora più spropositato a livello di chiusura, perché non circoscritto alla sola arte di scrivere, ma aperto all’arte di segnare il terreno capitato per caso di segnalare sotto i piedi.
Scrittore è colui che ha a che fare con le parole quando le parole sono solo ciò con cui uno qualunque è stato lasciato per caso lì in mezzo – però nel momento in cui lo scrittore è giusto colui che può passare dalle parole alla lingua della razza, quindi nel momento in cui è possibile cominciare a pensare per razze. Così scrittore è lo strappo che ha a che fare con le parole quando le parole sono solo ciò con cui uno qualsiasi è stato lasciato solo tra le cose del mondo nel momento in cui le cose del mondo non sono diventate altro che parole; per cui abbiamo la serie: le parole e le cose, la lingua e la Cosa, la Cosa e il þing, che è la riunione di cose.
Questo comporta porre su di uno stesso piano di interrogazione le parole e le cose, la Cosa e la lingua.
Comprendere l’arte di un meticcio è sputare in faccia al meticciato ciò che, al caso limite, costituisce l’indiscutibile genialità di quel meticcio, che comunque deve essere soppresso in quanto cosa che occupa la terra.
Divertente! Allora d’Annunzio sarebbe il vero poeta della razza bianca, che il meticciato può avere in quanto tale, perché lo spirito va dove vuole (come notava Dumézil a proposito dell’ambiguo personaggio di Loki), anche attraverso il meticcio italiano d’Annunzio, magari per andare oltre lo stesso meticcio italiano d’Annunzio (nome di razza: “rapagnetta”). Se d’Annunzio avesse capito che gli italiani sono solo meticciato e avesse, allora, veramente, per la prima volta, pensato Nietzsche, autore che, nella sua opera multiforme, per quanto più volte trattato, platealmente ha sempre dimostrato di non avere mai capito, a partire da un’arte che non era fatta per pensare, e avesse invece atteso il progetto del Vittoriale per dimostrare di avere quello che aveva donato, cioè buttato via, vale a dire il pensiero, cioè di avere afferrato il nocciolo, in un singol sito, della sua arte, picciola arte, arte-bluff?
Così le sale di un museo possono funzionare solo come autentiche sale di museo in quanto esibizione di ciò che è stato l’essere stato nel mondo di un dato essere sulla terra, dopo che quella presenza è stata annullata, e quel dato modo di essere è stato gioiosamente spazzato via. Non prima. Solo in rapporto alla presa della terra, che è il riferimento alla parola dell’antico nordico landnáma, si può comprendere l’ossimoro che è alla base del riferimento scelto da Gabriele d’Annunzio. Che cosa significa il motto “Io ho quel che ho donato”?
Dobbiamo ricordare che in ballo c’è solo una rapagnetta. Solo arrivando al bluff il meticciato italiano può arrivare al confine ben protetto con la terra de la poesia – alla quale il meticciato meno che mai ha accesso, né come meticcio italiano Dante, né come meticcio italiano Gabriele d’Annunzio. Il motto beffardo di d’Annunzio spiega che d’Annunzio ha quello di cui non ha mai goduto, cioè l’arte delle parole in quanto arte della lingua; così come il “popolo” che egli si arroga, ma che meno che mai è un popolo, perché non ha mai preso la terra che occupa e che egli stesso occupa, grazie a un nome, in quanto rapagnetta promossa ad altisonante annunzio di ciò che non ci sarà mai.
Per comprendere veramente d’Annunzio, così come per comprendere Dante, bisogna non apprezzare, ma disprezzare: DISPREZZARE IL METICCIATO. Questo perché non esiste né poesia né terra quando si ha a che fare con ciò che è l’andare e il venire del meticciato. Bisogna quindi fare in modo di vedere il meticciato come il niente sospeso sul niente che, a un certo punto, nella veste di una rapagnetta qualunque, ha vittoriosamente basato la propria causa sul niente – al fine di fare piazza pulita del meticciato.
Se la letteratura è ciò che è possibile solo in quanto arte della menzogna, allora creare letteratura è possibile solo se si sa di mentire, cioè di praticare l’arte che ha nella menzogna la propria paradossale unica e propria forma di verità in quanto conformità.
La rapagnetta d’Annunzio era ciò che non poteva avere accesso al tesoro della razza, poiché non esiste razza italiana, mentre noi sappiamo che esiste il meticciato italiano, cioè l’ANTIRAZZA. La perfida rapagnetta d’Annunzio ha avuto qui la funzione del furto di ciò che ha permesso la circolazione dell’arte, in questo caso, della finta poesia, che suona entro il canto del furto della bevanda di immortalità.
Ma d’Annunzio è stato un signore dell’arte di combinare parole; quello che lì, cioè in lui, mancava era l’arte della lingua, che sola avrebbe potuto chiamare la razza, che sola poteva portare alla lingua in quanto tesoro della razza. D’Annunzio ha donato la parola, di cui ha potuto fare rocambolesco uso in tutta la sua carriera di ladro e paroliere del meticcio italiano, ottenendo nient’altro che ciò che non ha mai avuto che nella forma finale del Vittoriale, cioè di terreno da riempire con un ammasso di tanta piccola chincaglieria e paccottiglia di salsicce kitsch, futili massicce deiezioni dello scorrere la terra, così come tutta la sua arte letteraria non è stato che un allineamento di piccole parole-forme kitsch. Ma questa doppia prospettiva, il nulla dell’arte dannunziana della letteratura, il nulla dell’assemblaggio kitsch del Vittoriale, non è altro che il modo migliore per sputare in faccia al meticcio italiano il nulla in cui insiste il terreno parallelo a dove consiste il nulla della terra occupata dal disgustoso meticcio italiano. Si dona quello che non si è mai posseduto, cioè l’arte di scrivere, prendendo in cambio la finzione del prendere terra, che è l’arte di descrivere, il tutto nel bluff del progetto del “Vittoriale degli Italiani”. Perché tanto la letteratura italiana, quanto l’Italia, sono soltanto disgustoso bluff ai danni della razza bianca.
Se d’Annunzio avesse voluto veramente colpire la letteratura italiana, dopo avere compreso che si trattava solo di “parole per il meticciato”? Vale a dire: se il progetto del Vittoriale fosse servito a fermare il progetto che si era manifestato, in tutta la sua genialità, verso l’indirizzo di una nuova letteratura, con La Leda senza cigno?
A quel punto il Vate del meticciato si era reso conto di non avere più terra dove andare, perché oltre c’era veramente la letteratura – ma un vero meticcio non vuole rinunciare al meticciato, che è il marchio di razza che costituisce l’antirazza, che è il motivo della sua esistenza, che permette il cambio di nome, ma non il salto di razza – e se comprende che basta un passo per entrare nel regno della letteratura, quel passo, allora, il vero meticcio si guarda bene dal compierlo – costi quel che costi.
Un legame perfetto lega l’opera di d’Annunzio al progetto del Vittoriale in base a ciò che lega parole e lingua in uno scrittore – legame che in d’Annunzio non può che essere assente – a ciò che lega letteratura e presa di una terra, che nel progetto del Vittoriale si presenta come bluff, motto beffardo inciso in pietra all’entrata: “Io ho quel che ho donato”. Ma che, in un meticcio, comporta il momento della scelta. Gabriele d’Annunzio, in quanto paroliere massimo del meticciato italiano tra Ottocento e Novecento, riconosce di non avere preso mai terra, ma proprio per questo, può riconoscere di avere proprio quello che non ha mai preso, perché solo in quel modo (facendo riferimento alla sua arte di parole che mai ha potuto rimandare ad una lingua) può incidersi come parola che non rimanda a una lingua nella cartapecora della sua razza, come terra che non è mai stata presa, nel terreno che fa da supporto alla sua antirazza (perché di questo si tratta) – così come le parole che aveva sempre usato prima lungo la sua carriera di Vate, erano parole che non rimandavano a una lingua, bensì parole destinate a rimanere sospese in ciò che non è letteratura e meno che mai poesia.
Se poesia è ciò che rivela alla razza il destino della razza attraverso la lingua cui la razza non ha immediato accesso, ma alla quale solo la poesia può giungere attraverso la parola, allora d’Annunzio è il paroliere che rivela al meticciato la caduta in un destino fatto di parole, in un tempo, fatto di soprammobili, in un altro, che inevitabilmente lo attende in quanto nient’altro che paroliere del meticciato, anziché di poeta della razza, che comporta invece l’incontro con la lingua e la Cosa.
Scrittore è colui che ha a che fare con le parole quando le parole sono solo ciò con cui uno qualsiasi è stato lasciato a vedersela da solo col mondo – però nel momento in cui scrittore è ciò che è in grado di passare dalle parole alla lingua che è il tesoro della razza, che solo il poeta porta con sé senza sapere, quindi nel momento in cui è possibile cominciare a pensare per razze: così scrittore è strappo che ha a che fare con le parole quando le parole sono solo ciò con cui uno qualsiasi è stato lasciato solo tra le cose tante del mondo. Per cui abbiamo la serie che comprende le parole e le cose, la lingua e la Cosa, la Cosa e il þing (che è la riunione delle cose del mondo).
La fabbrica di mostri viene interrotta, nel romanzo di Mary Shelley, quando il protagonista rifiuta di creare il mostro che potrebbe mettere in pericolo il genere umano.
L’arte di Gabriele d’Annunzio ha una forte, costante, beffarda, valenza funebre (pensate alla potenza del romanzo Trionfo della morte), così come beffardo è il motto finale, che suona “Io ho quel che ho donato” – che si vorrebbe salutarmente rivolta contro l’ANTIRAZZA alla quale il Vate maledetto pure apparteneva per la sola forma delle parole, ma questo non è stato, perché l’arte di d’Annunzio è arte tutta quanta sospesa. Destinata a rimanere arte sospesa, perché giustamente arte senza terra e arte senza lingua – vale a dire arte d’accatto.
Come persona, Gabriele d’Annunzio aveva qualcosa di viscido – ma questo vale per tutti gli italiani: gli italiani sono viscidi perché il loro modo di parlare è un modo di parlare viscido, che fa forza su zampette e antenne (fateci caso! per trovare, in Europa, simile viscido modo di parlare, bisogna farsi vicino vicino al modo di parlare degli slavi, ma questo, direbbe Lukács, “è un’altra storia”) –, che i filmati restituiscono appieno, qualcosa dell’iguana cortese che ha imparato a stare ritta su due gracili zampette, per quanto storte siano, zampette che sorreggono assai modesta statura, e nella mimica facciale – molto di funebre che era lezzo foriero di sora nostra comune putredine. Non è il caso di dire che Gabriele d’Annunzio possedeva, coerentemente in tutto ciò che lo connotava, la sgradevolezza del meticcio? D’Annunzio è l’artefice e l’amministratore di una parola viscida: lo si nota soprattutto nella sua poesia; la parola di d’Annunzio non è una parola che colpisce, è una parola sinuosa che avvolge, distrae, svicola e stordisce, che non si fa cogliere con facilità, che costringe a una rilettura, è insomma una parola viscida a tutti gli effetti; questo lo deve in parte alla lingua (la lingua italiana è una lingua viscida), in parte al suo modo di comporre, perché d’Annunzio stava soprattutto attento a non rivelare, a nascondere sempre qualcosa ai suoi lettori più che a incamminarli verso un tragitto, che invece è quello che il vero scrittore deve fare – ma succede con lo scrittore quello che succede per chiunque stia su una terra che non ha scelto il proprio abitante; era un falso Vate, un cattivo poeta, perché era un vero bugiardo, su questo non c’è dubbio – e questo è il punto più alto che possa raggiungere uno scrittore italiano.
Dopo d’Annunzio, mediocre meticcio italiano, nonostante tutto, nella media, spunta in istesso campo Pasolini, mediocre finocchietto italiano, allora del tutto fuori dalla media – e si è finiti tutti quanti giù per “terra” in un mare mondo di tanto petrolio sversato, come skáldfífl, che è la quota che spetta al meticcio italiano in quanto “poetastro”: niente di più. Fine. Punto.

Buzzati, “Il panettone non bastò”

Miguel Serrano vedeva nei monumenti megalitici la prova dell’esistenza di un qualcosa paragonabile ad una forma di agopuntura della terra, coerentemente applicata in quanto tale, volta a convogliare l’energia presente nelle profondità della terra in punti sensibili sulla sua superficie, che poteva essere recepito da ciò che si trovava sulla superficie: allora in grado di agire benevolmente sui popoli che hanno il diritto di abitare la terra, perché scelti dalla terra; ma di agire in modo tutt’altro che benevolo sui gruppi di cose e genti che non hanno il diritto di stare in quel punto della terra, perché quelle cose scorrono oppure occupano la terra – e allora non c’è altro da aspettare che vengano rimossi da lì.
Dino Buzzati: lo scrittore inutile.
Che è il caso di fare in modo che venga rimosso da lì.
È difficile definire l’utilità di uno scrittore in una formula sintetica, ma, di sicuro, la definizione di “scrittore inutile”, come formula descrittiva per uno scrittore, si addice perfettamente allo scrittore italiano Dino Buzzati, riflettendo, tale definizione, l’inutilità della letteratura italiana – considerato che, per quanto possa essere difficile stabilire l’utilità di una letteratura nell’insieme della Weltliteratur, la letteratura italiana si può definire solo grazie alla perfetta sua rumorosa et assoluta et spettrale singolarmente piena sua INUTILITÀ. (Che cosa vuole, c’è da chiedersi, questo meticcio di italiano, con la sua letteratura d’accatto?)
Fare lo scrittore come mestiere è la tentazione che riguarda colui che si trova ad avere il giusto gusto per le parole, quando il senso della lingua è andato perduto e scrittore è colui che si ritrova, ormai, sperduto ad avere senso per il gioco della lingua, tra le macerie delle parole – non avendo più senso alcuno il fatto di essere scrittore.
Lovecraft è stato lo scrittore che nelle sue opere ha rappresentato l’effetto delle vibrazioni della terra su coloro che, in dati tempi si trovavano ad abitare, oppure ad occupare, porzioni diverse della terra. Una cosa, oppure il suo opposto, vuole dire stare sovra una terra che ha comportato la presenza, in superficie, di tipi diversi di forme. La terra che è stata occupata dai nativi d’America trasmette vibrazioni sempre negative, che hanno effetti “positivi” sui degenerati, cioè sui meticci, perché ne sviluppa la potenza e porta quei meticci a completare, almeno in parte, i loro piani criminosi; mentre le stesse vibrazioni risultano disastrose per i sempre più dispersi individui di razza bianca – questo perché un meticcio non abita mai la terra, ma ha con essa soltanto un rapporto che non implica mai il fatto di “abitare la terra”, essendo il rapporto che un meticcio ha con la terra conseguente ad una occupazione. È il toponimo di origine indiana a rivelare la prima occupazione della terra, vale a dire ciò che costituisce la vibrazione originaria, sempre appena nascosta nel nome, a infondere forza al meticcio, ad attrarlo come calamita verso riti la cui finalità è nascosta all’individuo ma chiaro alla razza in quanto antirazza; ma a portare l’uomo che può scegliere a scegliere la parte sbagliata (è la sorte che spetta a Charles Dexter Ward tra le figure che gli fanno triste corona). Solo la razza bianca abita la terra, perché solo la razza bianca può arrivare a pensare, in termini di filosofia, ciò che significa abitare la terra. Un meticcio non abita mai la terra; un meticcio occupa la terra, come la occupa una pietra che si trova a stare in un punto preciso della terra, che occupa col suo peso quella parte di terra, se è difficile da spostare; oppure che scorre la terra, se basta un calcio soltanto per farla rotolare lontana da dove si trovava. La stessa Miskatonic Valley, al centro di tanti attacchi da parte del sovrannaturale, deve la sua vulnerabilità a causa del primo insediamento di nativi, che ne ha contaminato per sempre la geografia.
La domanda che dobbiamo porci davanti a un pezzo scritto da uno scrittore italiano, è una domanda da porci, che suona come domanda fantozziana posta nel tipo di una domanda che suona: “Che cosa vuole, questo bastardo di italiano?”. Domanda indispensabile per deterritorializzare il punto dal quale il pezzo è stato puntualmente – lì, in quel punto della terra – posto insieme, fantozzianamente. Questo perché, in Italia, solo un clown può giungere a interpretare come gag ciò che invece è seriamente da pensare: vale a dire il collegamento tra opera d’arte e “cagata pazzesca”, che ha la sua spiegazione nella razza, solo se si accetta la possibilità della ANTIRAZZA, che è appunto ciò che non deve essere pensato.
Dino Buzzati rappresenta la possibilità di una antiterra di cui scrivere, nel momento in cui, in quanto “scrittore”, con estremo candore ti scodella la possibilità di costruzione di case senza Natale, messe a punto da parte di un gruppo di architetti, che, per quanto decisi a mantenere il segreto di corporazione, relativo a non rivelare mai come costruire case senza Natale, comporta la realizzazione di case dove non arriva in nessun modo più lo spirito del Natale dalla terra – con il vantaggio di un prezzo di mercato irrisorio, indipendentemente dal punto dove costruire (La casa senza).
Sancire l’assenza di una festa come Natale in un paese cattolico come l’Italia comporta comprendere il Natale come assoluta e fastidiosa destrezza di gesti quanto esperienza di Vuoto assoluto. Che sono le due balle tra le quali l’Italia, con i suoi miti che non ha, si trova sballottata.
Il secondo caso è quanto capita a Nora, la protagonista del racconto Il cane vuoto, che di colpo, una vigilia di Natale, ha l’epifania del vuoto in cui consiste da anni la sua vita trascinata all’interno della sua casa di bambola quando deve portare d’urgenza il suo cane da un medico per una visita. Il cane le era stato donato dall’uomo che poi l’ha lasciata ed ella si era abituata a vedere in quel cane l’ultimo legame con l’uomo per mantenere il legame che ormai non c’era più, ma che doveva essere portato avanti all’interno della sua casa di bambola, che pure doveva essere portata avanti, per dare senso alle cose del mondo. La diagnosi è favorevole, poiché il disturbo è passeggero e non implica danni irreversibili nell’animale, ma quando cane e padrona raggiungono un parcheggio di taxi, e il parcheggio si rivela vuoto, la signora, di colpo, ha il senso del vuoto, che, dal cane, finora docilmente portato da una parte all’altra, fisso ora in quel punto, si propaga a tutto il resto del mondo e la signora capisce che quella fonte, che in lei le permetteva di riempire le cose del mondo di un senso, ormai si è esaurita, per cui quel cane è soltanto il ricettacolo del vuoto assoluto, che tutto il resto dell’ambiente manifesta.
Questa raccolta di trentatré pezzi (tra articoli, racconti, poesie) qui riuniti con il titolo Il panettone non bastò, mostra come Dino Buzzati abbia sempre pensato il tema del Natale con una perfetta, propria interna coerenza che convoglia un perfetto gioco di interno/esterno in quanto decoerenza.
Un racconto di Natale è possibile soltanto nella forma del confronto col mito – visto come ciò che non c’è, ma che c’è in quanto esperienza di ciò che ama nascondersi. Un racconto di Natale non può stabilirsi nel rincorrere una festa come insieme di consuetudini vuote (per un popolo che non c’è, raccontato da uno scrittore bluff, come appunto è lo “scrittore” Buzzati del meticciato italiano), ma come domanda da porre riguardante il mito – che c’è. Così un racconto di Natale, indipendentemente da quello che sono stati i racconti di Natale a partire da quelli proposti dallo scrittore Charles Dickens, deve porsi la domanda relativa a che cosa è il mito indipendentemente dal Natale – per cui un racconto di Natale molto riuscito è senz’altro il brevissimo racconto dal titolo freddo di Natale, composto dallo scrittore Friedrich Dürrenmatt. Si cerca solo quello che, nella sua completa assenza, mostra da sempre di esserci stato, ma che in un punto, per caso, a un certo punto, è venuto a mancare, e che coinvolge il popolo che, pur abitando la terra, si trova a porre adesso la domanda relativa a ciò che è il mito, a proposito del Natale, perché la festa di Natale – festa cristiana che rimanda ad una festa precristiana preesistente – è ciò che contiene adesso il mito. Ma meno che mai tutto questo è ciò che ha a che fare con il meticcio italiano. Così il punto, da punto che era in uno spazio, acquisendo consapevolezza del proprio stare come punto in una serie continua di punti, diventa un punto nel tempo in cui fare i conti con il mito che è fare i conti con il meticciato italiano: infatti si trova solo nel presente – ciò che il futuro darà occasione di perdere.
La festa del Natale cristiano rimanda alla festa precristiana che aveva luogo più o meno nello stesso periodo di tempo; prima della cristianizzazione dell’attuale Europa. Tolkien usa la parola inglese Yuletide per indicare le feste del calendario hobbit che riguardavano il periodo in oggetto. La parola inglese “yuletide” definisce il Natale cristiano, ma la parola “yule” è collegata all’antico nordico “Jól”, parola che indicava il periodo di tempo festivo intorno al solstizio d’inverno prima della cristianizzazione. Pensare allora Natale attraverso la parola Jól significa pensare, nel periodo cristiano, il mito precristiano. Quindi pensare il mito consapevolmente all’interno del tempo in cui il mito è assente perché ciò che è stato spazzato via. Dino Buzzati situa invece la propria riflessione all’esterno del tempo cristiano, senza possibilità di raggiungere la sfera del mito autentico, situandosi così come punto, ma punto irrazionale, immaginario perché inconsistente punto di separazione tra due serie.
Questo bolla la letteratura italiana come “letteratura” di un “popolo” che non ha mai preso una terra, che non ha una storia, non ha un popolo, non ha una lingua, ma ha tutto ciò per cui questo popolo deve essere scacciato dalla terra a seguito di una pulizia etnica – il meticciato invadente aggressivo.
Un meticcio è ciò che non abita la terra, ciò a cui mai è giunto il Dono della (possibilità di abitare la) terra, perché un meticcio è colui che occupa la terra oppure scorre la terra; questo perché un meticcio è ciò che spoglia la terra, riducendola a terreno dove soddisfare i suoi bisogni naturali più urgenti, durante il suo occupare o scorrere la terra. È quello che mostra Dino Buzzati in questi scritti dedicati al Natale, quasi regolarmente tenuti, anno per anno, dal 1934 al 1971, con il suo “popolo” di mogli e donne isteriche, uomini in carriera che devono districarsi con impegni delle feste di Natale e di doppi provvidenziali stipendi – e redazioni di giornali come terreno (ma non terra), che danno così vita a un Natale piccolo piccolo, a un Natale che non pensa il mito, a un Natale del Dovere, sulla nave da guerra nel tempo di guerra, a un Natale qualunquista dopo la fine della guerra, a un Natale dell’alchimia fra trovata pubblicitaria e favola vera da consegnare a un bambino, a un Natale qualunque come tutti gli altri, a un Natale dei tempi moderni della ideologia progressista, a un Natale dell’ultimo vecchio rimasto al mondo, a un Natale anti-mito, a un Natale come difesa della piccola favola ancora rimasta – per quanto Natale non significhi nulla, a un Natale piccolo piccolo che va bene così, a un Natale da romanzo storico con l’evocazione di quando il panettone non bastò, a un Natale buonista, a un Natale come rimbrotto, a un Natale fatale, a un Natale da Commedia all’italiana, a un Natale straniato, a un Natale immaginato una volta tanto volutamente senza regali, a un Natale di rabbia, a un Natale come epifania joyciana, a un Natale come ricerca del vero Natale, a un Natale in cui un Gesù Bambino cresciuto gioca a fare il trickster dove il mito bambino non c’è, a un Natale che rifà il verso alla storia di Mr Scrooge, a un Natale pasoliniano basato sull’importanza dei mezzi di comunicazione.
Quello che rivela l’inutilità dello scrittore italiano Dino Buzzati, nella sua piena qualifica di inutilità dello scrittore italiano, è l’abbraccio con lo stereotipo, che è quanto solo un inutile scrittore italiano poteva rappresentare: la decameronizzazione. Non ripeterò mai abbastanza quanto il Decameron di Giovanni Boccaccio, mediocre meticcio italiano, scrittore, sia l’archetipo dei cinepanettoni delle feste di Natale, con i quali noi adesso abbiamo sempre a che fare nel periodo di Natale, tra un acquisto e l’altro. Quello che un meticcio della “letteratura” italiana può scrivere saranno sempre “pezzi” al limite fra giornalismo, pezzi di costume e fiction, ma cose che non costituiranno mai la storia, cioè la saga, che costituisce invece l’insieme della storia del popolo che ha preso la terra legandola alla continuità del suo dire, che è il dire della razza, cioè la saga, che è il dire del mito come ciò che deve essere sempre cercato da parte dello scrittore di razza bianca.
Questo per dire che, in questo caso, cioè ciò che comporta gli scritti di Dino Buzzati, è che non c’è mai stata terra, tantomeno popolo, meno che mai razza, essendo stato Dino Buzzati, se non sbaglio, niente altro che un inutile quanto disgustoso meticcio italiano, che, nell’insieme di quel disgustoso impiastro che è il meticciato italiano, ha scelto di fare lo scrittore, avendo scoperto di avere quella comoda dimestichezza con le parole che poteva tornargli utile per sbarcare il lunario vita natural durante; e così è stato, per lui – no?
E questo basta.
Questo perché quando ci troviamo ad avere a che fare con il meticcio italiano, dobbiamo chiederci “Che cosa vuole, il meticciato, in Europa?”, perché questa è la domanda che deve essere posta in presenza della ANTIRAZZA cui non si deve dare possibilità di essere – mai, in nessun modo. Le parole sono scale che devono portare alla eliminazione del meticciato nella terra della razza bianca.

Raskol’nikov riconsiderato (Divagazioni)

Così come riportato in Delitto e castigo, l’ultimo sogno di Raskol’nikov precisa che: «Quando [Raskol’nikov] era malato aveva sognato che tutta la terra cadeva preda d’una tremenda pestilenza, inaudita e incredibile, che proveniva dal profondo dell’Asia e avanzava verso l’Europa.» (Fëdor M. Dostoevskij, Delitto e castigo, Feltrinelli, Milano 2013, traduzione di Damiano Rebecchini, Epilogo, 2, p. 510).
Il profondo dell’Asia è la fonte del meticciato slavo; così come l’Africa è la fonte del meticciato latino. Ciò che minaccia l’Europa è il Meticciato che soffia alle frontiere nella sua doppia fonte: meticciato slavo, meticciato latino.
Cencioso e parassitario, arrogante e ben piantato alle frontiere d’Europa, questo meticciato ha la stessa funzione della vecchia usuraia Alena Ivanovna, cenciosa e parassitaria, pericolosa e autoritaria in Delitto e castigo, per quanto non lo si comprenda. Ma è come se Dostoevskij, con il particolare dell’ultimo sogno riportato di Raskol’nikov, avesse voluto lasciare un messaggio.
Raskol’nikov ha ucciso, rubato e posto in salvo la ricchezza procuratasi in quel modo nascondendola sotto una pietra. Togliere la vita a un meticcio è come togliere a un ladro la ricchezza che quel ladro ha messo insieme attraverso i vari furti commessi. Ogni meticcio ruba; ogni meticcio ruba sempre, anche quando non ruba. Il meticcio è quell’essere la cui pericolosità consiste nell’essere al mondo, indipendentemente da quello che fa. Comprendere questo è anche giungere a ciò che permette il riconoscimento del meccanismo dell’arte degenerata. Si giunge all’arte degenerata solo quando l’arte permette al meticcio di manifestare la propria condizione, unendola in modo inscindibile alla perfezione dell’oggetto d’arte, ma permettendo di trarre la relativa soluzione finale.
Non si può considerare il delitto “individuale” di Raskol’nikov, riportato in Delitto e castigo, senza pensare al delitto non individuale, perché delitto di razza, che richiede una nuova forma di romanzo per essere considerato. Sempre parlando a livello di romanzo – naturalmente.
Delitto e castigo è un romanzo che non parla della eliminazione di una o più razze, ma considera, come tema di discussione, l’eliminazione di una vecchia usuraia, un “pidocchio”, e che su questa possibile eliminazione innalza la sua costruzione romanzesca. Raskol’nikov è colui che passa subito alla eliminazione del pidocchio – e subito dopo alla eliminazione della innocente Lizaveta, sorella dell’usuraia (del pidocchio) e testimone indiretta del delitto appena avvenuto.
Nella logica del romanzo, l’innocente sorella è destinata a cadere, perché individuo trovatosi, per caso, nel posto sbagliato nel momento sbagliato (infatti, al di fuori, di quel particolare, ella avrebbe avuto pieno diritto a vivere; nella logica della nuova epica, sarebbe invece destinata comunque alla soppressione in quanto appartenente alla stessa razza della vecchia usuraia, per quanto di carattere completamente diverso, particolare inconsistente. È chiara la differenza? Infatti proprio questa differenza ne autorizza la soppressione (mentre invece nel romanzo nichilista Delitto e castigo, nichilista perché scritto dal punto di vista dell’individuo, l’uccisione della sorella dell’usuraia appare come la cosa più ingiusta). L’individuo e la razza devono sempre funzionare in due modi assolutamente opposti.
Ma la degenerazione è qualcosa che riguarda l’individuo solo in quanto l’individuo è il risultato di una degenerazione. Solo così la degenerazione può essere determinata. Ciò che supera l’individuo è la mancanza di degenerazione, che è qualcosa che noi non possiamo ancora vedere, così come non possiamo vedere la nuova forma di epica.
Il romanzo slavo, secondo l’azzeccata formula di d’Annunzio, ha qui il suo inciampo: non pensa per razze, perché è una forma che pensa l’individuo per l’individuo – cioè l’individuo che ha a che fare con l’individuo attraverso la polifonia indicata da Bachtin. Polifonia tutt’altro che intricata.
L’inciampo è ciò che non si scorge essere nelle vicinanze che accade di percorrere, ma che nemmeno si può allontanare di colpo. Così Nietzsche esprimeva dubbi sulla possibilità di creare colonie tedesche o svizzere in Paraguay mescolando l’elemento tedesco con quello latino (cioè con il meticciato): «Da parte svizzera sono stato indotto a pensare che i numerosi, quasi sistematici fallimenti delle colonie tedesche o svizzere negli stati attorno a La Plata abbiano origine nel mescolamento delle nazionalità, vale a dire nella vita promiscua di elementi tedeschi e latini. Non si riesce ad avere un sentimento patrio, la sensazione di una casa, se si ha nelle immediate vicinanze la sporcizia italiana ecc.» (F. Nietzsche, Epistolario. Volume V. 1885-1889, Adelphi, Milano 2011, versione di Vivetta Vivarelli. A Bernhard Förster ed Elisabeth Förster-Nietzsche. Nizza, 2 gennaio 1886, p. 136). Il problema di fondo è sempre lo stesso: alleviare la terra dalla sporcizia che più da vicino la minaccia – cioè dal meticciato.
Delitto e castigo è il romanzo che si costruisce attorno a nozioni di vicinanza e distanza abilmente modificati in rapporto a ciò che scaturisce dall’uccisione del pidocchio. Ma la rinascita di Raskol’nikov avviene sotto il segno della Resurrezione di Pasqua, che è ciò che fa risorgere il concetto di individuo, che comporta il fatto di buttare via il pidocchio con le pulizie di primavera – e che è l’opposto dell’uccidere il pidocchio. Raskol’nikov sconta l’uccisione del pidocchio rendendosi conto che ogni pidocchio è un essere umano, quindi aderendo all’ideologia del meticciato.
Se infine un romanzo è vittoriosamente giunto alla possibilità di considerare l’uccisione di un individuo – quando un individuo non è altro che un pidocchio – una nuova forma epica deve pensare la possibilità di uccidere una razza quando questa non è altro che un pericolo per le forme sane. E allora di passarla liscia, senza castigo né resurrezione.
Si ribadisce che togliere la vita a un meticcio è come togliere a un ladro quella ricchezza che il ladro ha messo insieme attraverso i diversi furti commessi.
La nuova forma epica deve iniziare là dove la vecchia forma si è fermata. Se Delitto e castigo si costruisce attraverso la vicinanza di personaggi intorno al protagonista (Raskol’nikov che deve proteggere la sorella Avdot’ja Romanova insidiata, in forme diverse, da Svidrigajlov e da Lužin, l’amico Razumichin che è parente dell’inquirente Porfirij Petrovič, Sonja, con la quale Raskol’nikov entra in contatto dopo avere incontrato il padre in una bettola ed essere stato testimone, pochi giorni dopo, della sua morte a causa di un incidente stradale, lo stesso metodo di Porfirij Petrovič che ha lo stesso fine: concedere la libertà al colpevole in modo da mantenere la massima vicinanza con lui, vicinanza che permette di stringere la rete addosso a Raskol’nikov, così la nuova forma epica deve stabilirsi come epica della distanza. Ma distanza che farà sì che un pidocchio non potrà mai essere scambiato per un essere umano, tanto meno per il nuovo essere umano, che deve invece essere il risultato di uno sforzo collettivo, vale a dire di un allevamento in base ad un progetto particolare. Né progetto né collettività sono considerati in Delitto e castigo.
Prima di tutto è il concetto di essere umano che deve cambiare. Delitto e castigo recupera il vecchio concetto di essere umano andandolo a ripescare nel sottosuolo fognario di San Pietroburgo: è il profondo dell’Asia, attraverso la Siberia, dal quale la nuova pestilenza avanza verso l’Europa.
Questo equivale a rileggere Delitto e Castigo impostando le giuste domande. Raskol’nikov è il meticcio (perché non è l’individuo, bensì è la razza meticcia, che, nella riconsiderazione della domanda di Raskol’nikov, deve giungere alla domanda circa la legittimità della soppressione dell’altro: è solo il meticciato che può eliminare il meticciato). Alena Ivanovna è il meticciato proiettato, vale a dire il meticciato visto da colui che non ha paura della propria azione, come invece ha dimostrato di avere Raskol’nikov. Raskol’nikov è colui che non ha proiettato il proprio meticciato di razza degenerata come razza che deve essere eliminata, insieme al pidocchio da sopprimere, giustamente individuato nella vecchia usuraia ma come massa alla quale deve essere concessa una resurrezione, poiché, secondo l’istanza avanzata da Sonja, anche il pidocchio Alena Ivanovna sarebbe un essere umano.
In Delitto e castigo c’è la presenza del coro alle prese con la monodia, più che la polifonia. Il coro polifonico in Dostoevskij va bene per far felice il vecchio Lukács – e ingannare Bachtin. Per cui ci si può chiedere: come funziona, questo meccanismo, a livello di romanzo?
La città con i suoi abitanti si stringe in una soffocante vicinanza intorno a Raskol’nikov, mentre le strade della città diventano strade che portano, cioè che lo portano alla sua destinazione finale, come accade appunto nell’episodio narrato in VI/3, quando Raskol’nikov, diretto in casa di Svidrigajlov, dopo aver camminato assorto nei propri pensieri, si accorge di essere giunto fuori strada, e fa per tornare indietro, ma proprio allora vede Svidrigajlov là dove non si sarebbe mai aspettato di trovarlo, e si accorge di essere sulla strada giusta, poiché mai lo avrebbe trovato se avesse preso la strada giusta per trovarlo – indicando come punto giusto dove trovarlo il punto là dove egli avrebbe dovuto essere.
Siamo quindi in una terra che circonda con le proprie attenzioni coloro che la occupano, senza abitarla, non arrivando a drastici interventi come nel racconto La strada di Lovecraft, ma arrivando a “spostare” da una parte all’altra i suoi occupanti, in modo da farli giungere alla decisione definitiva, distruttiva per loro: è una terra degenerata che risponde con vibrazioni ai movimenti dei suoi occupanti più che mai degenerati.
Riconoscendo Raskol’nikov, grazie a Sof’ja Semenovna, la sacralità del pidocchio Alena Ivanovna, Delitto e Castigo riconosce la sacralità del meticciato e la necessità di colpa e redenzione da parte di Raskol’nikov, consistente nell’avere eliminato un singolo pidocchio, il tutto implicitamente compreso nell’atto di difesa del meticciato. Qual è la forma che Raskol’nikov riserva alla propria collocazione nel rapporto con l’Altro?
Un tratto avvicina Delitto e Castigo (1866) a Boris Godunov (1831) di Puškin: la domanda del tipo “perché non io?”, che si pongono i rispettivi protagonisti, il giovane studente Raskol’nikov e il giovane monaco Grigorij, più o meno coetanei. Questa domanda nasce dal nichilismo, che attanaglia l’individuo. L’individuo qualunque può adesso porsi questa domanda perché non riconosce più la distanza fra le cose, le cose e la Cosa. Ma meno che mai riconosce se stesso come forma del meticciato. Questo è ciò che invece dovrebbe fare se rispondesse alla domanda che, implicitamente, egli ha posto guardando l’Altro che aveva di fronte a sé e riconoscendolo come manifestazione del meticciato. Se uno equivale a uno, allora uno qualsiasi può fare quello che prima aspettava a colui che era stato ufficialmente investito di una missione particolare (consistesse questa missione nell’essere Napoleone o nell’essere il figlio vivente dello zar ucciso da bambino).
È sufficiente, questo particolare, a determinare la degenerazione? La degenerazione dell’individuo nobile è qualcosa che riguarda anche la degenerazione dell’individuo non nobile. È qualcosa che riguarda l’individuo solo in quanto l’individuo è il risultato di una degenerazione di per sé. Ciò che infatti supera l’individuo è la mancanza di degenerazione, che è qualcosa che noi non possiamo ancora vedere – e di cui Delitto e castigo non parla, così come non parla il Boris Godunov di Puškin.
Se le strade che portano sono una caratteristica del romanzo moderno (Hans Ulrich Gumbrecht, La strada, in Il romanzo. IV. Temi, luoghi, eroi, Einaudi, Torino 2003, pp. 465-493), allora la lettura di un romanzo deve comportare, nel lettore, il confronto con le varie strutture del romanzo, realizzate o possibili – affinché venga portato nella nuova forma. Così, leggendo un romanzo, noi siamo portati verso nuove forme possibili, che possiamo solo intravedere, attraverso il vecchio tipo di romanzo che stiamo tanto leggendo quanto lasciando.
Il ragionamento di Raskol’nikov blandisce la vicinanza, ma, come succede a Boris Godunov, non è all’altezza della sua azione e rimane vittima di una falsa vicinanza che continuamente lo spia e commenta la sua azione. “Tutti sanno!”, pensa egli diverse volte nel romanzo a proposito del suo delitto, di cui, in effetti, nessuno sa niente, poiché l’unica che, di colpo, aveva saputo, la sorella del pidocchio Alena Ivanovna, era stata eliminata proprio da Raskol’nikov. La risoluzione avviene infatti tramite la riconquista di una vicinanza, questa volta non più ostile. Quindi attraverso una vicinanza fatta infine oggetto di una domesticazione. Cioè una vicinanza falsa.
Subito dopo la condanna a otto anni di lavori forzati in Siberia, Sonja si trasferisce nel villaggio siberiano dove c’è la colonia penale in cui è rinchiuso Raskol’nikov, in modo da stargli vicino. Dal canto suo, Raskol’nikov non prova nessun sollievo per questa vicinanza non richiesta e tiene a distanza gli altri condannati perché non si considera colpevole. Egli è ancora sicuro della distanza che ha instaurato con il gesto compiuto, anche senza averne saputo poi trarne le conseguenze. Infatti, per Raskol’nikov il singolo pidocchio è ancora da eliminare. Sonja si acquista invece la simpatia dei detenuti attraverso la vicinanza che ella manifesta nei loro confronti.
La collocazione di Raskol’nikov come individuo ha adesso l’efficacia di un punto determinabile attraverso una vicinanza che è avvicinamento (o ingrandimento lungo una carta geografica all’inizio comparsa a distanza). Così Raskol’nikov viene rintracciato, nel romanzo, nella sua nuova collocazione in Siberia: «Siberia. Sulla riva di un fiume ampio e desolato sorge una città, uno dei capoluoghi amministrativi della Russia; nella città c’è una fortezza, nella fortezza una prigione. In questa prigione è rinchiuso da nove mesi […]» (Epilogo, 1, p. 497).
Il gesto di Raskol’nikov proietta il meticciato nell’Altro, ma non riconosce l’altro in sé come risultato di una degenerazione, da qui l’impossibilità di via d’uscita – che solo può essere impostata attraverso la distanza; cosicché l’unica via d’uscita deve impostarsi attraverso una nuova formulazione della nozione di vicinanza, che è l’omologo della formulazione nichilistica della nozione di individuo.
Così la vicinanza è qualcosa che condanna il gesto di Raskol’nikov, tanto è vero che i detenuti ritengono Raskol’nikov un “ateo”, un pensatore nichilista, uno che pensa diversamente da loro e che pertanto essi ritengono giusto condannare all’isolamento e al disprezzo, fino a considerare giusto tentare di sopprimerlo. Tutto in considerazione di una falsa distanza.
Soprattutto nella seconda versione, il Boris Godunov di Musorgskij, derivato dal dramma di Puškin, insiste su questa vicinanza con la grande importanza attribuita al coro. Il coro non è più un personaggio indicante una collettività singola, come nelle varie forme del teatro d’opera, che ha uno spazio di movimento ben delimitato, che lo fa entrare in scena, cantare e uscire, ma un elemento fluido che serpeggia plurale intorno all’infanticida, allo scopo di non dargli scampo, e stringerlo fino allo strozzamento. Saltando da una vetta all’altra del tempo, lo si potrebbe vedere come l’anticipazione dello straniamento epico, che sul palco osserva, commenta e condanna i gesti degli odiati potenti.
Dopo una malattia, che ha coinciso con il periodo pasquale, Raskol’nikov avverte una differenza e sente la vicinanza di Sonja. Quella vicinanza della donna, che è amore, gli permette di comprendere la vicinanza con tutti gli altri esseri umani e quindi la mostruosità del suo gesto, per cui egli è pronto a scontare la pena, ormai di soli sette anni, e quei sette anni, che adesso sono paragonabili a sette giorni costituiscono il confronto fra la Settimana di Passione e la settimana di creazione del nuovo mondo fondato sulla vicinanza rinnovata, che egli ha appena terminato di inaugurare.
Abbiamo così una strana ambiguità: l’omicidio è condannato, ma solo grazie a quell’omicidio un uomo ha ottenuto la salvazione – quindi quell’omicidio è stato un bene e se, per disgrazia, esso non fosse mai stato commesso, Raskol’nikov non avrebbe ora nessuna possibilità di resurrezione, poiché la resurrezione era ciò che egli chiedeva, e solo tramite il delitto è adesso chiaro che egli può ottenerla. Qual è dunque la funzione della vecchia usuraia? È la funzione di una domanda mal posta oppure posta fuori tempo. Perché ciò che il nuovo tempo impone, non riguarda l’uccisione di un individuo (alfine di migliorare le condizioni di vita di una piccola comunità – come era nelle intenzioni di Raskol’nikov), bensì l’uccisione di una razza (alfine di alleviare la terra). Infatti questa resurrezione si basa sul delitto individuale, che è ciò che Dostoevskij poteva ottenere tramite la forma del romanzo (e giungendo così alla formula del “romanzo slavo”), mentre ciò che bisogna ottenere – ora – è la nuova forma epica, che non può che mettere il genocidio al posto prima tenuto dal delitto individuale, e cancellare la ridicola resurrezione nel pieno pentimento nella macerazione del meticcio slavo, perché ciò che deve ottenere questa nuova forma, non è una nuova vicinanza attraverso la vecchia forma del romanzo, ma l’epica della distanza attraverso la nuova forma, che noi non possiamo vedere.
Ogni tanto mi chiedo: “Comparirà mai un romanzo, di cui si possa dire: ‘ecco una cosa diversa?’”. Ma mi piace pensare che Dostoevskij, questo disgustoso meticcio slavo, nell’ultimo sogno di Raskol’nikov abbia voluto lanciare un segnale, su ciò che realmente comporta l’arrivo di ciò che è slavo in Europa… In quanto grande artista, Dostoevskij ha messo in guardia sul pericolo rappresentato dalla sua razza.
È un po’ come quello che avviene negli ultimi biglietti di Nietzsche, dove tutti quei messaggi, scritti a persone diverse, sembrano tendere a un unico significato, trasmettendo ai diversi destinatari lo stesso messaggio e dove il senso ultimo, raggiunto nell’ultima lettera, che è anche quello fatto ormai rizoma, riporta il nome “Nietzsche”, che era il nome iniziale, conclusione del percorso, e dove l’avvio è invece nel biglietto a Brandes, che gioca sul fatto di avere scoperto ciò che era ormai facile trovare, ma impossibile perdere.

Våre arveord

Meno che mai scrivere significa avere a che fare con un qualche mestiere – chiunque dica di un possibile “mestiere di scrivere” con cui avere a che fare a proposito dell’arte di scrivere è sempre qualcuno che usa le parole dell’arte di scrivere in malafede, allo scopo di ingannare, malafede come soltanto un meticcio può maneggiare con tale disinvoltura, cioè in quanto meccanismo che prevede qualcuno che dica la verità di ciò che è non verità, cioè che dice la verità della menzogna, perché il meticcio è ciò che mai scorge il mondo: ma per il quale scrivere è la sorte che tocca alle parole quando queste schioccano d’un sol colpo come eredità a chi mai avrebbe voluto avere a che fare con quelle cose in quanto parole della propria eredità (dunque cose di un mondo che sono sempre state odiate, e che poi sono giunte appioppate solo come eredità di parole – questo bisogna averlo chiaro), infatti lo scrittore odia la lingua quando l’alingua è, materialmente, la sua unica e povera eredità fatta di parole, ma lo scrittore vede, vede avverte e sente la lingua, mai le parole, perché lo scrittore vede la composizione delle parole e la decomposizione della lingua, nel momento in cui le parole lo intralciano, ma il vero scrittore vuole distruggere l’alingua – questo perché il vero scrittore è ciò che ha a che fare con l’alingua, non potendo egli giungere alla lingua, che è il tesoro della razza, alla quale più non v’è accesso e la sua eredità è l’alingua in quanto tesoro dell’antirazza, vale a dire quel tesoretto di parole limitato, che bastano ad annullarlo, mentre violentare la lingua, parola dopo parola, per giungere all’alingua, che è nido non voluto di parole del meccanismo della falsa eredità, è ciò che egli vede in quanto risarcimento del tempo di essere stato lasciato solo fra le parole, nel tempo del lutto delle parole, che è il tempo della terra in lutto, per questo scrivere non è in nessun modo mestiere alcuno, infatti lo scrittore è tanto colui che non può rinunciare alla propria eredità, perché l’eredità è ciò che gli tocca in quanto ciò che lo ha da sempre sfiorato, quanto colui cui sta la possibilità di far franare la lingua violentandola parola per parola, senza mai pretendere di fare di questo atto di violentare mestiere alcuno – questo perché, che io sappia, non esiste il mestiere del violentatore – cioè nel rispondere alla possibilità di usare le parole in un modo diverso, fino a fare suonare l’alingua, che è ciò che non esiste che tra capo e collo di quanto è capitato in eredità come insieme di parole – di cui deve sempre fare qualcosa per strozzare il collo di ciò che lo minaccia – fra le macerie delle parole.

Il film

Il film tratto da un romanzo appassisce cose che in un romanzo sono presenti. Ma questo dipende dal fatto che, nel film, ci si accanisce a seguire una grammatica di racconto stabilita a livello di azione. Di per sé il film tratto dal romanzo potrebbe ricreare il romanzo in altri modi, arricchendo anzi il romanzo. Si è scelto di limitarsi a ciò che si intende come azione – dando per scontato che il romanzo sia costituito da una serie di azioni. E stando così le cose, il film sarebbe chiamato a riassumere ricordando azioni. Il film ha l’effetto di una serie di tableaux vivants, che ripropone i momenti in cui l’azione ha meglio imbrigliato i personaggi nel romanzo, intervenendo dove lo scrittore poteva dal canto suo soltanto agire sull’immaginazione del lettore. Il film si pone come aggiornamento tecnologico del genere romanzo.
Immaginiamo un film tratto da Moby Dick di Melville, che presenti non solo l’azione legata alla caccia alla balena di nome Moby Dick, ma anche tutta la parte enciclopedica sulla balena, che costituisce il tratto caratteristico del romanzo di Melville Moby Dick. Vale a dire: immaginiamo il film che da Moby Dick non è mai stato tratto.
Un romanzo comprende parti narrative e parti sceneggiate – queste ultime sempre più insistenti. Il film dovrebbe tenere presente questa alternanza, così come ogni film dovrebbe basarsi sul rapporto tra film e cinema – in questo devo dire che il detestabile finocchietto e meticcio italiano Pier Paolo Pasolini aveva perfettamente ragione nel richiamare il rapporto che la linguistica strutturalista ha stabilito tra “lingua” e “parola”.
Margaret Doody ha fatto notare (Dare un volto al personaggio, in Il romanzo, I, Einaudi 2001) come gli illustratori dei romanzi si siano sempre concentrati sui momenti fondamentali della trama come momenti che si possono riassumere in una singola scena di azione. Come poi i registi cinematografici, essi volevano mostrare i personaggi in azione o al centro di una scena di grande azione.
Al punto in cui siamo, trarre un film da un romanzo vuole dire permettere al lettore di vedere quello che il lettore si sarebbe aspettato di vedere come ciò che avrebbe veduto se fosse stato lo spettatore, anziché il lettore, di quel testo.