Credo in una prossima, inevitabile e lunga era di barbarie nuove, di libertà e libera sfrenata fantasia. Una contaminazione fra giustizia e sopraffazione la caratterizzerà. Compito dell’uomo sarà sempre quello di essere testimone della bellezza del mondo e di ringraziare Dio per la bellezza del mondo. La poesia e la filosofia saranno sempre gli strumenti attraverso i quali l’uomo ringrazierà Dio per la bellezza del mondo. Ma esse non consisteranno altro che in un tessuto fitto di bestemmie e di irrisione del divino. Sarà l’epoca in cui ci si avvierà a pensare in un modo nuovo. Una cosa sarà due cose e una qualità sarà l’intero opposto di se stessa. I filosofi si meraviglieranno di come sia stato possibile elaborare tante diverse teorie del pensiero a partire da una cosa tanto astrusa quanto ciò che veniva chiamato il principio del terzo escluso. Nella vita quotidiana le vittime di questa nuova era saranno innumerevoli, ma cadranno in nome di un impulso al gioco e alla spensieratezza che avrà molto, in quanto a essere nel mondo, dell’innocenza del bambino. Nessun monumento le richiamerà mai. Non ci sarà nessun giorno della memoria. La storia sarà tutt’uno con l’arte di dimenticare.
Europa, ovvero il politeismo
Il vero ateo bestemmia. Il vero ateo vuole incontrare il dio che bestemmia e che ha sempre bestemmiato per sfidarlo ad un combattimento finale. Il vero ateo sa che il dio che bestemmia è soltanto un dio straniero nella terra in cui egli (il bestemmiatore) ha la sua propria giusta origine. Il vero ateo sa che la sua terra era la terra di molti dèi, prima che essa diventasse la terra di un unico dio. Il vero ateo sa che bestemmia un dio straniero che ha occupato la sua terra. Con le sue bestemmie il vero bestemmiatore è un signore delle parole. Il vero ateo non disprezza gli dèi, disprezza solo la pretesa del concetto di “dio unico”. Egli disprezza il dio del monoteismo. Per questo disprezzo egli si è fatto ateo e bestemmiatore; ed è pronto a versare il suo sangue, se la causa dell’ateismo lo dovesse richiedere. Per questo egli ha fede nella bestemmia. Sa di insultare un dio che esiste, perché lo vede spadroneggiare nella terra che era la terra degli dèi della sua razza e perché crede nell’esistenza di molti dèi. Il vero ateo non è colui che nega l’esistenza degli dèi. Il vero ateo sa che il dio semita, il dio degli Ebrei e il dio degli Arabi, deve essere scacciato dall’Europa, perché l’Europa non è la terra del monoteismo semita, ma la terra del politeismo della razza bianca. Egli sa che l’Europa ritroverà la sua autentica natura solo quando avrà scacciato da sé il principio semita di dio: il dio semita, il dio degli Ebrei e il dio degli Arabi. Con le sue bestemmie egli lo chiama al combattimento finale. Sfidare il dio straniero che si vuole scacciare dalla propria terra è un comportamento che si ritrova tramandato in antichi testi germanici. Il dio straniero che si voleva scacciare era appunto il dio semita. Brennu-Njáls saga: «”Hefir þú heyrt þat”, sagði hon, “er Þórr bauð Kristi á hólm, ok treystisk hann eigi at beriask við Þór?”» [Hai sentito, ella disse, che Þórr ha chiamato Cristo a combattere contro di lui e che Cristo non ebbe il coraggio di andare a combattere?] L’Europa è l’unica terra dove la bestemmia è diffusa. Il vero ateo sa che le sue bestemmie non faranno scomparire il dio semita dalla sua terra, perché esse sono solo polvere di una penombra in una notte senza dèi. Il vero ateo sa che l’epoca del perfetto ateismo sarà l’epoca che poeticamente preparerà il ritorno degli dèi. L’ateismo è un fenomeno limitato al monoteismo. È il fenomeno più ambiguo del monoteismo. Solo in Europa può nascere la bestemmia, perché solo l’Europa ha il compito di scacciare da sé il dio semita. Per questo l’Europa è l’origine, la spiegazione e il perfetto compimento della bestemmia.
Libro per caso chiamato (altri avrebbero potuto essere chiamati):
Brennu-Njáls saga, Íslenzk fornrit, Reykjavík 1971, p. 265.
La festa
Antropologi e persone comuni sono d’accordo sul fatto che le feste stiano perdendo importanza nelle società moderne. Siamo persone così tristi da avere reso tristi tutte le feste? Le feste hanno sempre più qualcosa di forzato, che non trascina più la gente. Ma perché? Le cose che si sparpagliano nel tempo hanno spesso inizio da un qualcosa di infinitamente semplice. Talmente semplice che non viene più riconosciuto come punto d’origine. Questo ci porta a cercare di rintracciare un tipo semplicissimo di festa d’origine. Qual è il tipo di festa all’origine di tutte le altre feste? Dove riconoscere la festa dietro la quale vengono tutte le altre feste? E se tutto fosse partito da una prima festa, a un certo punto non più avvertita come festa dalla comunità e quindi rinnegata come festa dalla comunità? Se tutto questo avesse poi travolto tutte le altre feste? Se anche noi ci ostinassimo a non riconoscere più questa festa d’origine come festa degna di essere celebrata con la partecipazione gioiosa della comunità? Rimane la questione di stabilire quale possa essere stata questa festa d’origine. Una festa d’origine è una festa che, non solo celebra, ma crea anche quell’avvenimento che le feste posteriori tenderanno a mantenere vivo in un clima di grande gioia.
Ormai noi crediamo solo nella società multirazziale e cerchiamo quindi di pensare solo feste adatte a questo tipo di società, cioè adatte alla società multirazziale. Dal punto di vista antropologico, le feste servono a mantenere la coesione di un gruppo. Ma la coesione di un gruppo è mantenuta non solo dalla coesione del gruppo, ma anche dalla espulsione di ciò che non appartiene al gruppo, ma che tuttavia era riuscito a entrare nel gruppo. Ed è appunto in questo momento che si crea la festa. La coesione del gruppo è un momento che chiama la festa in prospettiva, ma che, di per sé, non è di festa. Dove rintracciare la festa originaria? Se noi fossimo creature talmente tristi da…
Che cosa è che nelle nostre società non riusciamo più a vedere come occasione di festa? Se la festa più antica fosse proprio ciò che noi oggi non riconosciamo più come possibile occasione di festa? e quindi come una cosa che tutto è, fuorché festa?
Nietzsche e de Maistre hanno scritto pagine straordinarie sulla esecuzione del criminale e sul boia come arma di Dio e sua manifestazione in terra. Se la festa più antica consistesse proprio nella esecuzione capitale del delinquente, del nemico della comunità? e se noi, nelle nostre società moderne, fossimo ora diventati persone talmente tristi da rendere cosa triste persino la condanna a morte del delinquente? È un fatto che noi non proviamo più gioia di fronte alla esecuzione capitale di un delinquente. Ed è un fatto desolante. Le grandiose pagine iniziali della Genealogia della morale, con il popolo in festa che assiste alla esecuzione pubblica del delinquente, e di de Maistre, che esalta la figura del boia come la più grande e terribile arma di Dio presente in terra, sono lontane mille fiumi d’inchiostro da noi e noi non possiamo più capire l’esaltazione che ha portato a scrivere quelle folgoranti pagine di sangue e d’inchiostro. La condanna a morte è una cosa di cui noi ci vergogniamo, di cui parliamo sottovoce e che, anche negli spazi là dove essa ancora vige, teniamo accuratamente nascosta agli sguardi. Non c’è dubbio: ecco la nostra festa mancata; ecco la nostra inconsapevole decisione di essere tristi in un mondo al quale, tristemente, ci riconosciamo di appartenere e rinunciamo tristemente una volta di più nel nome dell’accoglienza. Noi non possiamo più creare vere feste per espellere, perché dobbiamo invece creare tante nuove false feste per accogliere ma, appunto queste feste fatte per accogliere sono feste che non funzionano e che rendono triste il popolo che si assoggetta a crearle e che si determina poi come il popolo che non ha più feste.
Anche i dibattiti sulla pena di morte hanno qualcosa di questa triste e sconcertante timidezza. I fautori ne parlano come di un deterrente, principio ampiamente smentito dalle statistiche dei paesi dove la pena di morte è in vigore. Nessuno ha mai pensato a movimentare questo vecchio dibattito chiamando in causa il principio più paradossale e più festosamente antico: la pena di morte è fonte di gioia, è la festa più autentica di tutto un popolo perché festa d’origine, è occasione per rinsaldare i vincoli di una comunità che un nemico – riconosciuto, fermato e condannato – aveva cercato di spezzare e mettere in pericolo. Basta un niente, fare a pezzi un criminale straniero, e la magia della festa torna a cantare in un popolo.
Ma non finisce qui. Giacché si parla di festa e si è cercato di riconoscere una prima lontana idea possibile di festa, si potrebbe andare oltre e, in base a quanto ipotizzato, pensare ad una pena di morte selettivamente applicata ai vari criminali in base alla razza d’appartenenza. Pensare ad una pena di morte selettivamente destinata, in forma di presunzione di colpevolezza, a quei tristi popoli la cui triste storia li inchioda come tristemente ed eternamente propensi al crimine, a un crimine di volta in volta classificabile come efferato, spensierato, abitudinario, ideologico, economicamente inevitabile: Negri, Arabi, Indios, Zingari, Italiani. Fare i nomi di questi popoli è cosa triste; immaginarne la futura soppressione è una gioia.
Libri di festa:
F. Nietzsche, Genealogia della morale, in Opere complete di Friedrich Nietzsche, vol. VI, tomo II, Adelphi, Milano 1976.
J. de Maistre, Le serate di Pietroburgo, Rusconi, Milano 1986.
Le bestemmie di Sade
Affinché l’Europa ritorni ad essere la terra del nuovo compiuto politeismo della razza bianca (celto-germanica) c’è bisogno di un periodo di mantenimento del monoteismo e del cristianesimo e dell’ateismo più intransigente. È il periodo in cui le bestemmie di Sade avranno vita. Insultare la divinità nella quale non si crede può sembrare una contraddizione nei termini. Il dio semita scenderà per la prima volta nella terra d’Europa con la sua vera fisionomia di feticcio e di meticcio. A lui sarà ormai riservata la stessa sorte toccata agli dèi della razza bianca con il trionfo del cristianesimo: un po’ feticcio, un po’ meticcio; un po’ farà ridere, un po’ farà senso, un po’ farà pietà. Calpesterà una terra che non conosce con le sue goffe zampe di uccello preistorico. Ma nessun poeta riconoscerà mai nella sua camminata l’andatura del superuomo. Strillerà con tutte le sue bocche e i suoi becchi per farsi notare. Ricorderà un mostriciattolo cubista, un handicappato mongoloide, un odioso criminale qualunque, un degenerato, uno scimmione negroide, un migrante alla fine delle forze, un caso di teratologia, un caso di antropologia criminale, un primitivo abbandonato a se stesso in un deserto lontano. Sarà un compendio di tutto ciò che l’appena passata e stupida epoca moderna aveva considerato altamente degno di cura. Sarà vigliacco, perché vigliacchi erano stati i popoli meticci che lo avevano riconosciuto come loro dio. Ma combatterà per l’ultima volta contro gli dèi della razza bianca d’Europa.
Terra dove andare
Per Carl Schmitt (Il nomos della terra) la parola greca nomos comprende la prima misurazione della terra a seguito di una occupazione. C’è un collegamento che riguarda nomos e occupazione della terra. «L’anello di recinzione, la cinta formata da uomini, il Mannring, sono forme originarie della comunità di culto, giuridica e politica» (p. 65).
Il greco nomos può essere accostato al verbo islandese nema. Cleasby-Vigfusson (An Icelandic-English Dictionary, s.v. nema) riporta anche: «in a lawful sense, nema land, to take possession of a land as a settler». landnám è «the taking land, a law term» (ibid., s.v.). Il derivato landnámamaðr indica l’uomo (maðr) che ha preso (rad. nema) la terra (land), attuando in essa il proprio insediamento.
Un testo medioevale islandese si chiama Landnámabók: libro (bók) della presa della terra (landnáma), ed è un resoconto della presa della terra in Islanda. In questo testo si riportano diversi modi di prendere la terra. Ma il prendere la terra era allora un qualcosa legato a una scelta su cui l’individuo non esercitava scelta, fuorché la scelta di non esercitare scelta. Landnámabók: «Þá er Ingólfr sá Ísland, skaut hann fyrir borð öndugissúlum sínum til heilla; hann mælti svá fyrir, at hann skyldi þar byggja, er súlurnar kœmi á land.» (p. 42) [Quando Ingólfr vide l’Islanda, gettò fuori bordo i pilastri del suo seggio alto e disse che avrebbe costruito là dove i pilastri fossero arrivati a terra]. Scegliere la terra era dunque accettare un luogo verso il quale si era chiamati da una terra alla terra.
Una terra presa era una terra protetta da spiriti guardiani, che potevano accettare o respingere o chiamare coloro che sfioravano la terra. Un vento divino veniva così a proteggere la terra. Questo è l’incanto fragile che collega antica storiografia scandinava e antica storiografia giapponese.
Adesso si pensa alla terra solo come terra dove andare. Molti sono i modi di andare per la terra: andare per turismo, andare per sopravvivere, andare soltanto per abitare in un altro luogo della terra. Si vogliono difendere i diritti di coloro che vanno per la terra per sopravvivere. Si vuole accogliere in una terra che si sente come la propria. Dimenticando la cosa fondamentale: non è l’individuo a scegliere la terra dove abitare; ma la terra a chiamare il suo abitante.
Libri sfiorati:
C. Schmitt Il nomos della terra, Adelphi, Milano 1998.
Cleasby, Vigfusson, Craigie An Icelandic-English Dictionary, Oxford University Press, Oxford 1986.
Íslendingabók – Landnámabók, Íslenzk fornrit, Reykjavík 1986.