L’impegno ad una storia ancora possibile chiama ad una critica ancora possibile. Se alla base del romanzo c’è una forma in cui tutto si collega a tutto, allora alla base della critica del romanzo deve esserci un pensiero che collega tutto a tutto.
C’è un curioso racconto di Friedrich Dürrenmatt che porta il titolo La panne.
Compito dello scrittore è incuriosire verso alcune parole della lingua dove lo scrittore ripropone – a coloro che lo leggono – l’impatto con la lingua comune che collega lingua di uno scrittore e lingua dei lettori.
Sappiamo che, nella maledetta lingua degli italiani, con la parola “panne” si intende qualcosa relativo ad un arresto improvviso da parte di un veicolo a motore.
Lo scrittore Friedrich Dürrenmatt costruisce un racconto sulla parola “panne” che potrebbe sembrare riguardare – appunto – l’arresto improvviso di un veicolo a motore.
Leggendo il racconto La panne di Friedrich Dürrenmatt si ha l’impressione di leggere un racconto riguardante il personaggio Alfredo Traps che si trova bloccato in un punto del territorio da lui in quel momento trascorso per ritornare a casa, dopo una giornata di lavoro, a causa di un arresto improvviso della sua automobile (automobile di gran lusso, che – statisticamente – non avrebbe dovuto subire un arresto improvviso come quello causato da una “panne”). Ma l’arte cocciuta di Friedrich Dürrenmatt si accapiglia proprio in quel punto.
Compito dello scrittore è incuriosire su alcune parole che ogni parlante della lingua dello scrittore utilizza ormai per abitudine acquisita, senza più dovere più essere portato a pensare nel momento in cui utilizza quella o altre parole di quella lingua. Vale a dire: esente da alcun dovere. Questo perché? La lingua è qualcosa che deve dare l’opportunità di filare liscio come con una automobile di lusso lungo un territorio conosciuto (che si presume di potere possedere appunto perché lo si può scorrere con monotona regolarità), senza tollerare impatto come quello provocato da una panne. Anche se, bisogna ammettere, un arresto improvviso a causa di una panne può sempre essere possibile.
Lo scrittore interviene quando tutti si comportano come fosse possibile continuare a parlare continuando ad attingere dal tesoro della lingua – che è il tesoro della razza, nel momento in cui, proprio sulla razza, è stato messo il bando (il bavaglio) a pensare, cioè ad attingere, anche quando ciò che rimane è solo il fondo dei luoghi comuni. Lo scrittore è così colui che, unico fra tutti i parlanti quella lingua, si rende conto di un pericolo che corre la Lingua.
La Prima parte del racconto è costituita da un unico paragrafo senza divisione in capoversi, che comincia con la domanda: «Gibt es noch mögliche Geschichten, Geschichten für Schriftsteller?». È interessante la seconda parte della domanda, “Geschichten für Schriftsteller”, perché pone il collegamento fra Geschichten e Schriftsteller. Se la nostalgia per la mancanza di una storia come Geschichte ancora possibile, rimanda al paragrafo 74 di Essere e tempo, la divisione del racconto in due parti rimanda invece alla divisione più generale che Essere e tempo pone fra Geschichte e Historie. Il racconto di Dürrenmatt parla soltanto di Geschichte (senza richiamare mai la possibilità di una Historie), ma pone una differenza fra le due parti, che richiama la differenza fra Lingua e Parola.
Come primo traduttore italiano di Essere e tempo, Pietro Chiodi ha risolto la differenza fra le due parole tedesche come differenza tra storia vissuta (parola tedesca Geschichte, resa con la parola italiana “storia”) e storia riportata da altri (parola tedesca, ma importata nella lingua tedesca, perché di origine latina, Historie, resa con la parola italiana “storiografia”).
Ma la Prima parte di questo racconto pone altresì un interessante collegamento con quello che diceva Artaud: si va a teatro come si va al bordello. (E infatti Alfredo Traps vede quella sosta come un invito al bordello, cioè come ad un incontro con ragazze facili da abbordare, che in quei piccoli paesi è molto facile trovare.) Indipendentemente da Alfredo Traps, noi sappiano che la letteratura tende a diventare confessione psicologica. Eppoi, indipendentemente da Alfredo Traps, la confessione psicologica tende a diventare “letteratura bell’e buona”, cioè cosa di mercato, buona per le grame analisi di mercato di Umberto Eco (il meticcio italiano Umberto Eco), e le grame scorribande narrative del mercato frequentato da Umberto Eco (il meticcio italiano Umberto Eco), cioè puro intrattenimento (chiacchiere di mercatanti, bifolchi che si congiungono al mercato sfregandosi le mani). È a questo punto che lo scrittore potrebbe dire che non c’è più nulla da raccontare. Il pericolo che corre la Geschichte è infatti la minaccia rappresentata dalla Historie. Quale differenza nasconde la differenza tra Geschichte e Historie? Io proprio non lo so, forse perché non mi occupo delle chiacchiere del mercato. Ma so di un pericolo che minaccia la razza, ad opera del meticciato.
Però si sa che, come nota FD anche in questa occasione, per chi trascorre la modernità non c’è più un dio che minacci, ma solo incidenti che accadono così, tanto per caso. Il destino non è più ciò che avviene sulla scena, ma ciò che è intento a passeggiare fra quinte vuote. Infatti il dio-destino sta abbandonando la scena della letteratura per mettersi a passeggiare lungo le quinte vuote della paraletteratura (come lo vedremo anche fare in altri testi di Friedrich Dürrenmatt).
C’è una lettera di Nietzsche (datata 2 gennaio 1886) che dice come niente di grande possa essere realizzato nella vicinanza alla sporcizia degli italiani. Forse è il caso di mantenere viva questa “sporcizia degli italiani”, ora che il mondo tende a cancellare le differenze. Mantenere viva la “sporcizia degli italiani” è un modo per segnalare ciò che nel mondo deve essere soppresso, in modo da cominciare a pensare finalmente ad una terra alleviata. Cioè ad una terra che merita di essere alleviata. Questo è un giro del mondo che si può fare solo unendo critica e romanzo. Allora: Viva il romanzo saggio! Ben venga il romanzo saggio, il romanzo enciclopedia, l’opera mondo (se non sbaglio)!
Il dio che passeggia ora fra le quinte della paraletteratura ha allora qualcosa in comune con il protagonista che occupava prima la scena – non vi pare? È da questa prospettiva che si può immaginare il protagonista del racconto La panne, che è colui che trascorre la modernità. Ma la storia che allora se ne deduce non può che essere il resoconto riflesso dal monocolo di un ubriaco. Questo è appunto l’avvertimento che Friedrich Dürrenmatt ci rivolge.
Lo scrittore è colui che non ha altro che la Parola a sua disposizione, quando la Lingua è però ancora il tesoro della razza. In quel momento lo scrittore è colui che ha il privilegio di passare dalla Parola alla Lingua. Ma è anche colui che ha la responsabilità di portare oltre la lingua in qualcosa che riguarda solo il tesoro della razza. Lo scrittore violenta la lingua che ha a disposizione, e in alcuni momenti raggiunge la Lingua.
Pensare per razze è ciò che adesso fugge e fiuta con la paura di scatenare la caccia. Questo è il motivo per cui un pensiero di questo genere deve lasciare meno tracce possibili – per i tanti cani lanciati sulle piste di quella magra caccia. È infatti una questione di piste su cui si deve essere più che pronti sempre a pensare. (Non vi sembra?) Come nel caso di un racconto sì tanto sbilanciato in due parti. Che tuttavia non nasconde la domanda fondamentale: che cosa vuole dire “pensare per razze”, quando solamente la parola “razza” è la cosa a cui è stato messo il bando?
Cosa vuole dire toccare il meccanismo del romanzo poliziesco, dappoiché il romanzo poliziesco si basa su lo squilibrio provocato dal diritto che ha un individuo qualunque alla propria vita, avendo ogni individuo diritto a sua propria vita?
C’è (mi sovviene) un romanzo poliziesco che capovolge mirabile struttura di romanzo poliziesco: il delitto turba no equilibrio alcuno; il delitto non è commesso da un assassino ai danni di una persona che aveva tutto suo pieno diritto di continuare a vivere; il detective non consegna il miserabile responsabile dell’omicidio alla giustizia affinché ottenga suo più che giusto punimento, perché il detective rinuncia a consegnare alla giustizia il criminale che, in virtù di sua più che attenta perizia, ha incontestabilmente trovato come essere l’artefice di quel delitto, perché quell’omicidio non turba equilibrio alcuno, ma, a lo contrario, restaura equilibrio ben più profondo. Questo perché la vita, che quell’omicidio ha troncato, era vita indegna di vivere. Ma nessuno pensa più a qualcosa come vita indegna di vivere.
Sto parlando, messeri, di Assassinio sull’Orient Express di Agatha Christie.
Passare dalla Parola alla Lingua è passare dalla storia che delimita un qualunque individuo all’arte di pensare per razze.
Nel romanzo La promessa Friedrich Dürrenmatt si pronuncia sulla terra: se si fosse stati attenti a coloro che, da tempo, avevano preso l’abitudine di scorrere la terra, questi assassini, che adesso sporcano la terra con i loro delitti, non avrebbero mai avuto occasione di esserci stati, vale a dire di esserci passati. Perché queste cose non avrebbero avuto modo di scorrere la terra. Infatti si tratta di “cose”, non di esseri umani. E questo la dice lunga sul tipo di enunciati con cui sarebbe bene non avere più niente a che fare.
Quello che l’arte narrativa di Friedrich Dürrenmatt sembra volere cominciare a fare, è richiamare l’attenzione su diversi comportamenti di essere sulla terra, nella forma di: 1) abitare la terra; 2) scorrere la terra; 3) occupare la terra.
Il tempo della cupa occupazione della terra è il tempo in cui il romanzo poliziesco viene ripensato da Friedrich Dürrenmatt in quanto arte dello scrittore, cioè arte che chiama il rapporto fra Lingua e Parola. È il tempo in cui non si può pensare nuova forma alcuna (vale a dire nuova forma epica) ma in cui uno spogliamento della vecchia forma del romanzo può essere… (come posso dire?) di nuovo riproposto.
Scrittore è colui che ha il compito di sorvegliare la lingua in quanto tesoro della razza.
Nel racconto La panne, Friedrich Dürrenmatt stabilisce una strana forma divisa in una prima parte, che riguarda il Pericolo, e in una seconda parte che riguarda uno svolgimento di quello che è stato presentato come possibile pericolo occasionale, provocato appunto da una panne. Ma che rappresenterà il pericolo estremo per il personaggio capitale di quella storia (che solo in quella prospettiva di pericolo poteva presentarsi).
Quando si parla di un pericolo bisogna parlare di carcasse portate via di nascosto in tutta fretta. Magari a causa di un contagio che minaccia una lingua, come in questo caso – mi sembra di capire (non siete d’accordo?)
Noi non sappiamo che cosa sia il pericolo. Sappiamo che quello che Friedrich Dürrenmatt ci invita a pensare, in questo suo racconto, riguarda un pericolo. Che è il pericolo che corre la razza.
Nella Prima parte del suo racconto, Friedrich Dürrenmatt parla solo di un pericolo che corre la lingua. Ma nel momento in cui la corsa, individuata come corsa della lingua, si interrompe – a causa di una panne – il pericolo è ciò che corre l’individuo (e che lo impone come protagonista di un racconto che deve essere, in numero di parole, più lungo, dovendo portare in causa un insieme attento di molte psicologie – la psicologia è infatti ciò che adesso fornisce la base del racconto).
Nella Seconda parte del racconto, Friedrich Dürrenmatt parla di un pericolo che sembra correre Alfredo Traps. Ma di che tipo è il pericolo che corre l’individuo Alfredo Traps, in confronto al pericolo presentato nella Prima parte del racconto? O meglio: il personaggio protagonista della Seconda parte del racconto, corre veramente un pericolo?
La Prima parte del racconto presenta il pericolo che la lingua corre; la Seconda parte presenta il pericolo che l’individuo trascorre, nel momento in cui è solo la parola a sostenere l’individuo (avendo la lingua fatto fagotto completo lungo la Prima parte).
Che cosa è, allora, il pericolo che corre la razza? È la perdita della possibilità di creare storie. Infatti il sottotitolo del racconto precisa: “Una storia ancora possibile”. Pericolo che riguarda l’impoverimento della lingua. (Il pericolo di creare storie è allora il pericolo di creare storie in cui il pericolo corso dalla parola permetta di salvare il pericolo corso dalla lingua. Per questo l’individuo Alfredo Traps può diventare sostituto del pericolo che corre la razza.)
Una storia è ancora possibile. Storia ancora possibile che lo scrittore fornisce… ad una condizione.
Abbiamo visto che la Prima parte è più o meno qualcosa che suona come una “Nota dell’autore”: non è un racconto. La Seconda parte presenta invece una storia a tutti gli effetti: vale a dire il caso del povero Alfredo Traps bloccato a causa di una panne in un villaggio, dove rimedia un posto dove passare la notte.
Sembrava una notte tranquilla, e invece no. Segniamoci, per comodità, che la Prima parte riguarda qualcosa che ha a che fare con la lingua; mentre la Seconda parte riguarda qualcosa che ha a che fare con la parola, e andiamo avanti – anche se si potrebbe pure dire che non è così.
Qual è il punto fondamentale della Seconda parte, quello che scatena tutta l’azione? È senz’altro il momento in cui Traps ammette di aver “fatto fuori” il suo superiore Gygax, subentrandogli poi a tutti gli effetti.
È a questo punto che la macchina interpretativa si mette in moto. Il pubblico ministero Zorn fiuta puzza di omicidio, ma di un omicidio molto, molto ben nascosto. Un omicidio che, a rigor di logica, non è nemmeno un omicidio; un omicidio che, in fondo, appena appena potrebbe essere classificato come omicidio, ma che tuttavia, per noi, in quanto lettori, non possiamo che sapere essere un omicidio. Nessun cadavere presente in un libro puzza mai di morto. Questo ne fa in tutto un omicidio bene accolto da noi lettori.
Perché questa è la faccenda, cioè la cosa da fare. Heidegger lo ha sfiorato nella conferenza Il pericolo. Faye lo ha fermato (facendolo poi insieme tanto infuriare).
La “cosa”, in quanto riunione di più cose diverse, è la nuova nozione su cui deve essere formulata la nuova nozione di essere umano. Che non ha niente a che fare con la vecchia cosa che adesso, di tanto in tanto, sembra sempre chiamare aiuto per essere ripristinata.
Faye aveva perfettamente compreso quello che, per lui, era il pericolo che aveva fermato nella formula “l’introduzione del nazismo nella filosofia”, avvenuto tramite il pensiero di Heidegger. Che equivale a dire: l’introduzione del pensiero del nazismo nella filosofia. Un pensiero diventa pericoloso quando si rivolge contro ciò cui fino a quel momento costituiva la normalità dell’essere umano. Ma se il pensiero è la caratteristica più vertiginosa dell’essere umano, perché rinunciare allora alla vertigine del pensiero, se il pensiero si pone, infine, a pensare la soppressione di qualche parte di quello stesso genere umano, andando quindi oltre ciò che fino a quel momento aveva costituito la normalità dell’essere umano? È un pensiero apertamente contro una parte dell’umanità, cioè un pensiero che non considera più l’uguaglianza di tutti gli esseri umani come valore imprescindibile, secondo le direttive del cristianesimo, appunto perché si richiama ad un pensiero diverso. È un pensiero non più antropomorfo, come ha detto Klossowski dopo avere letto Sade. Un pensiero che deve sprofondare la vecchia nozione di essere umano, affinché una diversa nozione di essere umano possa comparire come un Nautilus a navigare in superficie. Noi non sappiamo se questa nuova nozione di essere umano potrà essere migliore della precedente, ma diversa lo sarà senza dubbio. (Per quanto mi riguarda, l’importante è che questa nuova epoca non abbia più niente a che vedere col meticciato; e – sempre per quanto mi riguarda – preciso, col meticcio italiano. Da qui l’importanza del nazismo e l’importanza del pensiero di Heidegger, pensiero che ha avuto la fortuna della sincronia con il momento storico in cui si tentava la trasformazione della nozione di essere umano. Il giudizio che poi si può dare sul nazismo è irrilevante in base all’energia che quel pensiero (dico il pensiero di Heidegger) ha ricavato da esso.
Nietzsche è stato il primo a teorizzare l’importanza della pericolosità del pensiero in rapporto alla comparsa di un pensiero nuovo, cioè ad una pratica di pensiero che finora non era mai stata tentata. Il Superuomo è appunto una di queste vie nuove imboccate da quel pensiero, che non ha nulla a che vedere con un soggettivismo anarchico scatenato, tipo l’artista del Fuoco di d’Annunzio o il Mafarka di Marinetti, semmai con l’allevamento di un tipo diverso di uomo (come notato da Sloterdijk): vediamo allora che è solo il vecchio umanesimo che deve pacificamente finire di crollare. Deve fare fagotto affinché non ci si trovi più a doverne parlare.
La commedia di Dürrenmatt I fisici tratta il tema della pericolosità del pensiero. O meglio, il tema “la pericolosità del pensiero” viene trattato, nella commedia I fisici, proprio come il tema che non deve essere trattato, ma scartato come cosa “da pazzi”, relegata in una struttura simil-manicomio. Indirizzare la pericolosità del pensiero vuole dire intravedere un nuovo tipo di essere umano, che però si può raggiungere solo con un adeguato progetto di allevamento, che deve essere portato avanti tramite lo sforzo dello Stato. Il superuomo non nasce per caso. Così il testo de I fisici mostra proprio questo (per difetto). Quello che la nuova epoca deve accettare di pensare è la frantumazione di milioni di cocci, fino ad allora ritenuti esseri umani: cioè pensare il genocidio come primo passo per abitare la terra. Che è quello che porterà la liberazione. Cioè la terra come terra alleviata, che potrà allora essere abitata. Quanto siamo distanti da una nuova letteratura… Più o meno quanto tanto siamo distanti da un nuovo pensiero (non vi pare?).
Ma perché? Noi lettori abbiamo intanto l’impressione di seguire gli stravaganti ragionamenti di quattro pazzi e condividiamo intanto, trepidanti, i tentativi di difesa del povero Alfredo. (Ci chiediamo: riuscirà a uscire vivo dalla trappola in cui questi quattro pazzi lo vogliono chiudere per farlo secco? È questa la trappola che attende noi in quanto lettori, se consideriamo il meccanismo messo a punto da FD solo come trappola per topolini – mouse trap, si dice a proposito dell’Amleto – della Seconda parte, che prevedono lo spettacolo di un topolino preso in trappola.)
Ma che cosa sta succedendo, proprio sotto i nostri occhi, nelle righe che, incantati, noi lettori, seguiamo con i nostri occhi? Stanno succedendo due cose: il senso figurato viene inteso come senso reale; il senso reale, così invaso, torna indietro verso colui che ne aveva sancito la nascita solo in quanto senso figurato.
Ma soprattutto succede che quello che noi leggiamo è “letteratura”, cioè è un racconto, una storia divenuta ancora una volta possibile. Che è quello che noi volevamo, che il testo proponeva e che noi abbiamo cercato mettendoci a leggere il racconto. Però è letteratura solo perché preceduta dalle considerazioni della Prima parte breve. Il pericolo è quindi che la letteratura non venga più riconosciuta come letteratura.
La macchina giudiziaria, difensiva e accusatoria, che si mette in movimento in quel punto, costruisce sempre di più su quel senso figurato preso per senso reale. Noi sappiamo che sono menzogne, ma ci piace leggere quelle menzogne perché sappiamo che sono menzogne e perché sappiamo che quelle menzogne (solo in quel momento) costituiscono quella cosa che è la letteratura; noi ci divertiamo, ogni nuovo castello di menzogne predisposto dal pubblico ministero Zorn ci entusiasma e vorremmo che quella proliferazione di menzogne non avesse mai fine. Perché tutto quello è letteratura. Era quello che volevamo nel momento in cui ci siamo messi a leggere un racconto, cioè un testo di narrativa, sapendo che quello che avremmo letto era finzione, castello di menzogne, perversione di quel linguaggio che usiamo ogni giorno per entrare in contatto con la gente che sta intorno a noi; parodia di quel linguaggio da noi usato; presa in giro di quel linguaggio per noi indispensabile; questo perché, nel momento in cui volevamo la letteratura, eravamo tutti d’accordo a volere la letteratura, sì, ma la letteratura come menzogna. Nel momento in cui abbiamo accettato di leggere un testo di narrativa, siamo stati al gioco che imponeva di vedere in Traps un assassino. Pur sapendo che Alfredo Traps non esiste, perché è una cosa pensata per fare funzionare un meccanismo letterario, cioè un meccanismo che esiste solo come finzione di un meccanismo che lo contiene e lo produce di volta in volta. E perché amiamo la letteratura, ci diverte, ci fa sentire vivi con i suoi assurdi paradossi. La letteratura deve essere una menzogna, un insieme articolato di menzogne, menzogne divertenti da leggere, che si ascoltano con piacere, che si vorrebbe non avessero mai fine. Più un libro è assurdo, più lo adoriamo; proprio perché assurdo.
Ma se il campo della letteratura non deve essere invaso, meno che mai la letteratura deve invadere il campo altrui.
La Prima parte avverte di un pericolo: il pericolo che corre la letteratura nel momento in cui inclina verso il giornalismo, cioè verso una socializzazione delle frasi, verso il rispetto di una verità a tutti i costi, statisticamente determinata anche solo in base al buon senso, cioè ad una promozione determinata dal sociale, che sempre più si vuole oramai solo social. Questo è ciò che minaccia la letteratura e che finisce poi per strangolarla.
La letteratura può essere tale solo nel momento in cui innalza i suoi castelli per aria in aria libera perché non liberal. Meno che mai senza avere a che fare con il political correct stabilito dai social.
Così la letteratura non implica la responsabilità dell’autore. La letteratura è infatti un gioco che deve essere giocato rispettando le regole di quel gioco: più ci si inoltra nelle campate di quel gioco, più ci si avvicina alla soglia in cui il pensiero diventa pericolo. Pensare la pericolosità del pensiero è pensare oltre la soglia in cui il pensiero non coincide più con la verità condivisa dalla maggioranza.
Il pensiero è ciò che distingue la libertà della letteratura dalla letteratura come gioco frivolo. Intendo gioco del tipo OULIPO. (Sento puzza di Perec; ma ancora più sento puzza di morto… tanta puzza di Calvino, per non dire di Umberto Eco, morto da meno tempo. Ma, come che sia, sento sempre tanta puzza di morto.)
La letteratura può accedere al pensiero solo nel momento in cui pensa il compito che le è stato affidato, che non consiste nel raccontare storie, ma nel pensare gli elementi che permettono la costituzione di tante storie che, in quanto letteratura, la letteratura è chiamata a rendere conto in quanto costituzione. Questo è quello che ha fatto lo scrittore Roberto Musil.
Mi fa molto piacere vedere che questo è appunto quello che non ha mai fatto nessuno “scrittore” italiano. Se la letteratura è qualcosa della vita di un popolo, allora la letteratura italiana si conferma, una volta di più – e a tutti gli effetti – vita indegna di vivere.
Auspico una letteratura in cui il meticcio italiano sia nominato come ammasso cui spetti la stessa sorte toccata tempo fa a zingari ed ebrei: carro bestiame, canna fumaria.
La panne vera è ciò che si verifica nella Prima parte del racconto; la panne descritta alla vettura di Alfredo Traps, all’inizio della Seconda parte, è invece ciò che l’arte del racconto definisce come “panne”, cioè come dimostrazione di quanto appena stato proposto (il caso divino che blocca una efficientissima automobile di lusso).
Allora perché lo sbilanciamento? Quello che doveva avere poca importanza, diventa invece l’elemento della massima importanza. Noi pensiamo il racconto come la cosa più importante. Per questo, dovendo riassumere il racconto La panne di Friedrich Dürrenmatt, riassumiamo soltanto la storia presentata nella Parte seconda, cioè la storia del povero Alfredo (Traps), dimenticando quando detto nella Prima parte.
Questo perché pensiamo l’individuo, cioè quanto intrappolato nella storiografia e non pensiamo più la razza, cioè la storia (Geschichte, ciò di cui noi non abbiamo ancora il dire a tutti gli effetti).
La paraletteratura è legata a un progetto di serializzazione della letteratura, così come il meticcio, che è il creatore della paraletteratura, è il prodotto di una serializzazione di un tipo razziale, cioè di una replicazione golemica. La cui replicazione, ormai bisogna accettare, è giunto il tempo di pensare di interrompere – in modo razionale.
La Seconda parte impone uno sviluppo che – a livello di struttura – deve essere sostenuto. Da qui qualunque finale disastroso, come quello che si vede. Per questo io dico, finalmente, che il meticcio italiano è quella cosa rivoltante che deve essere condannata a morte.
Friedrich Dürrenmatt si è legato alla paraletteratura, soprattutto nella forma del romanzo poliziesco (ricordate il “requiem per il romanzo giallo” stipulato intorno ad una Promessa?). La paraletteratura è un pericolo per la letteratura. Così come la forma del meticcio è un pericolo per la forma della razza.
Adesso la condanna a morte può essere stesa su una pergamena e firmata da tutti i partecipanti a quel gioco scaturito, come tante altre volte, da una panne (che prevede la forma garantista di avvocato difensore, pubblico ministero, giudice, boia), il libro può essere stampato e la prima copia del libro può essere consegnata gioiosamente al suo autore, ma quando, in questo caso, i quattro signori entrano nella stanza di Traps, si accorgono che Traps si è impiccato – rovinando la festa. Quella festa doveva essere la migliore in quanto dire della letteratura, perché Alfredo Traps aveva fornito la storia migliore. Ma dire quanto la letteratura non può essere portata a dire, è dire quello che la letteratura non può essere portata a dire e così è inevitabile rovinare la festa. Infatti si parlava di una critica ancora possibile.
Come si sono sentiti, quei quattro vecchi di merda, in quel momento? Più o meno come mi sento io, quando il vecchio Dante di merda mi slinguaccia in faccia la sua haka.
Flipper: Murakami Haruki
Non ho mai nascosto la mia scarsa simpatia nei confronti della narrativa di Murakami Haruki.
Una caratteristica di quella narrativa è l’abilità con cui tipi diversi di musiche vengono allacciati all’interno di testi diversi. La Sinfonietta di Janáček, il Don Giovanni di Mozart, il Cavaliere della rosa di Richard Strauss sono fra le prime cose che possono venire in mente, ma ci sono anche le canzoni dei Beatles e il jazz.
Pur non avendo mai avuto simpatia per l’arte narrativa di MH, posso notare che un compositore, che, io sappia, non è mai comparso, nei vari testi che compongono la narrativa di MH, per quanto potrebbe avere molto da dire, a mio modo di vedere, in quell’arte narrativa così tanto discutibile. Di chi parlo? di Dmitrij Šostakovič. In base a questo aspetto, posso solo dire che il modo in cui l’arte narrativa di MH usa la musica è solo l’adeguamento ad un aspetto dell’utilizzabilità di tutte le cose del mondo. Allora l’arte narrativa di MH sarebbe pura arte del bluff, basata sul farsi vedere ogni tanto sempre ben vestito e parlare in modo formale? (Tutte cose, queste, che possono facilmente essere messe in ridicolo, ma allora perché l’arte di MH non è mai stata smascherata? L’arte narrativa di MH ha il suo segreto nella creazione di un lettore particolare?)
“Bitte, Herr Murakami, un libro all’anno…” (ma MH non è Ernst Jünger).
Che cosa è la musica, nell’arte narrativa di MH? È ciò che, per sua natura si sottrae al pensiero, ma che, proprio per questa sua caratteristica, da MH riconosciuta, permette l’aggancio ad un testo narrativo. Questo perché MH non presenta mai la sua narrativa come ciò che richiama ad un pensiero. Tutt’altro.
Allora Šostakovič avrebbe le carte in regola per entrare in quella narrativa come effetto di anamorfosi. E infatti quella narrativa è per gran parte effetto di segmenti di anamorfosi.
Prima persona singolare è un curioso racconto contenuto nella raccolta omonima (Einaudi 2021). Tratta di un uomo che ogni tanto viene preso da una curiosa particolarità: vestirsi di tutto punto – completo elegante, giacca, cravatta, scarpe di cuoio – e uscire per fare delle cose (o andare semplicemente in alcuni luoghi) che non richiedono affatto un abbigliamento di quel genere. Vestito in quel modo egli non fa nessuna cosa particolare. A volte, per modo di dire, egli è costretto a vestirsi “di tutto punto”, perché l’occasione alla quale deve prendere parte, a causa della sua professione, richiede un abbigliamento di quel tipo, cioè l’abbigliamento importante del tutto diverso dall’abbigliamento che egli solitamente predilige; altre volte, invece, non è per niente così e il suo stile di abbigliamento, che egli definisce casual, potrebbe andare benissimo; eppure – non sempre, ma ogni tanto sì – egli avverte l’esigenza di vestirsi di tutto punto e andare in un luogo dove non è richiesto un abbigliamento di quel tipo, stare un po’ lì, come l’estraneo che effettivamente è, farsi i fatti suoi, come leggere un libretto in un punto appartato, e poi alzare i tacchi. Come non ci fosse mai stato.
(Questo la dice lunga sul modo dell’arte narrativa di MH, che si biforca in due direzioni: 1) l’anamorfosi; 2) lo smascheramento dell’anamorfosi. La narrativa di MH è ciò che fa uso dell’anamorfosi; e in questa postrema manifestazione di un’arte abbiamo la parvenza dello smascheramento dell’anamorfosi.)
Il periodo dell’anno in cui il racconto prende avvio è la primavera: una bella sera di primavera in cui il narratore si veste di tutto punto, esce di casa ed entra in un bar per leggere un libro, soltanto un libretto, un testo di paraletteratura come può essere un romanzo giallo, seduto defilato a un angolo del bancone.
Noi sappiamo però che l’utilizzabilità delle cose mondo, alla quale siamo sempre stati accompagnati dall’arte narrativa di MH, è cosa che impegna – e che può suonare davvero brutti scherzi.
Volutamente il Narratore ha evitato di entrare in un bar dove è conosciuto, perché il barista gli avrebbe subito chiesto: “Come mai vestito così di tutto punto?” ed egli – piccato su quel punto – non avrebbe avuto alcun picco su cui inalberare risposta, non sapendo, semplicemente, come rispondere picche. Quel bar, invece, defilato appena dalla sua abitazione, in cui nessuno lo conosce, si dimostra perfetto al caso suo. Rientra nella categoria della perfetta utilizzabilità delle cose del mondo, ed in tale corrispondenza a quella categoria egli utilizza quello spazio che si trova a disposizione.
A un certo punto una donna gli si avvicina e gli fa notare tre cose: 1) l’inopportunità dell’abbigliamento; 2) l’inopportunità della disinvoltura in quel caso da lui esibita; 3) la sua scarsa padronanza di quel tipo di abbigliamento, infatti la cravatta volgarmente italiana, acquistata di fretta nel duty-free di un aeroporto (come il N ha precisato quando si accingeva ad indossarla), non si adatta all’insieme di quell’abito inglese.
MH ha uno stile che tiene incollato il lettore al libro da lui scritto. È una facilità di lettura difficile a trovarsi. Possiamo dire sia un pregio? Possiamo dire sia qualcosa come una cravatta volgarmente italiana acquistata nel duty-free di un aeroporto e indossata quando ci si vuole abbigliare di tutto punto per fare qualcosa che non richiede quel tipo di abbigliamento? Un caso più rilevante del suo, vale a dire di una scorrevolezza ancora più evidente, posso dire di averlo trovato solo nel ciclo di Harry Potter di J.K. Rowling. In tutti e due i casi, accanto ad una incomparabile scorrevolezza di lettura, c’è un senso assoluto di non leggere niente, o di aver già sentito da qualche altra parte quelle cose che pure si leggono per la prima volta. È un po’ come succede quando si ascolta la musica di Šostakovič.
Il personaggio si dimostra allora del tutto fuori luogo, perdendo la padronanza della situazione, cioè la padronanza fittizia che fino a quel punto sentiva di poter esercitare 1) con la caratteristica di vestirsi di tutto punto, 2) con la scelta di un luogo appropriato, e che poco tempo prima gli era stata assicurata dalla sua immagine allo specchio, 3) ma nel quale egli era entrato come luogo in cui non lasciare traccia, dove nessuno avrebbe potuto riconoscerlo, e, azzardando che, forse, “non ha il piacere di conoscerla”, cercando di alzare i sonori tacchi delle sue scarpe di cuoio per l’occasione indossate (a differenza delle scarpe casual che di solito indossa per muoversi nei luoghi dove è conosciuto), cerca di filarsela. La donna, invece, perfettamente padrona della situazione, rimarca l’espressione che egli ha usato nei suoi confronti, al fine di togliersela elegantemente di torno, (“avere il piacere di conoscerla”, cioè la fa suonare come espressione, ma gliele suona di tutto punto non toccandolo), ridicolizzandola, e invitandolo a ricordare ciò che è avvenuto sulla spiaggia qualche anno prima insieme ad una sua amica (cioè ad una amica della donna che lo sta accusando), occasione di cui egli dovrebbe vergognarsi. La donna ha qui funzione di “ombra”, ma di ombra staccata, che solo in momenti favorevoli può trovare il suo corpo, ombra che ha seguito il N per ricordargli che egli, su una spiaggia, tempo prima, ha fatto qualcosa ad una sua amica, di cui dovrebbe tornare a vergognarsi (anziché tornare a farsi vedere vestito di tutto punto in occasioni che non lo richiedono e poi in luoghi dove meno che mai è conosciuto). Se il N ha compiuto qualcosa nei confronti di una donna, certo deve riguardare qualcosa compiuto non tanto sulla donna in sé, quanto all’ombra della donna, che però ha colpito (pesantemente o no) quella donna. Vale a dire qualcosa compiuto non tanto all’ombra della donna ma sull’ombra della donna. Vale a dire qualcosa che ha portato il N a sottrarre l’ombra, o parte dell’ombra, alla sua amica seguendo un modo che egli solo sa come mettere in pratica. E di cui noi, lettori, meno che mai sappiamo qualcosa. È appunto di questa attività segreta, di cui egli dovrebbe finalmente vergognarsi.
Il racconto ha qualcosa di misterioso; non è un racconto del mistero, cioè un racconto basato su di un mistero, ma un racconto in cui tutto l’insieme ha qualcosa di misterioso – o, se non proprio, come detto, “qualcosa di misterioso”, qualcosa di enigmatico. Azzardo qualcosa come la rappresentazione di un sogno, come diceva Strindberg, e aveva capito Artaud, nel progetto di messa in scena del testo che ha titolo Ett drömspel.
Che la musica sia pensiero ad una diversa velocità è ciò che non tocca mai la narrativa di MH, che utilizza la musica come sostanza che garantisce una inerzia, cioè come cosa che non è da pensare in quella cosa che è la letteratura, che meno che mai è cosa su cui deve esercitarsi il pensiero. Infatti MH utilizza la musica (nei suoi testi narrativi) in quanto opzione che non permette mai di pensare la musica. Così come, però, non pensa in generale in nessun’altra occasione (come per esempio nel caso delle anamorfosi), nel momento in cui il pensiero potrebbe sfiorare la letteratura. Il successo dell’arte narrativa di MH sta proprio nel fatto che è una narrativa che non pensa e meno che mai richiama a pensare durante la lettura.
È questa la constatazione che ha a che fare con quanto la donna del bar vuole fare presente al N? Perché no? Ma in questa letteratura basata sulla disinvoltura dell’utilizzabilità delle cose del mondo, non si può parlare di una cattiva coscienza da parte dello scrittore? Insomma: cose fatte in serie, che si distinguono da ciò che viene fatto in base ad una serie di partenza?
Allora che tipo di narrativa è questa narrativa che si presenta sempre un tantino zoppa? Il funzionamento di un romanzo di MH ha qualcosa che ci ricorda una vecchia partita a flipper, di quelle che si facevano nei bar al tempo in cui è cominciata la carriera letteraria di MH. Non è soprattutto il ruolo del protagonista a farlo notare? Se non sbaglio Hegel diceva che nel romanzo tutto si collega a tutto. L’arte di MH non mostra il collegamento fra le cose del mondo, ma mostra come varie cose del mondo possano essere sfiorate, scontrate, poste in movimento, siano sempre disponibili nella loro posizione in quanto cose sensibili, pronte a fornire risposta, squillare, fare punti, rilanciare, luccicare, fare accendere lampadine poste ad esse corona. Se la narrativa di MH non pensa, la costruzione di un romanzo di MH è basata su di una ideale partita a flipper. E quello che la lettura determina alla fine della partita è qualcosa come il punteggio di una partita a flipper. Questo è appunto il risultato di una scommessa, cioè di una decisione. Come la semplice decisione di essere in grado di scrivere un romanzo e quindi di diventare scrittore appena in un oplà (niente più).
Una caratteristica della narrativa di MH è l’abilità con cui vengono intrecciati tipi diversi di musica all’interno di un testo. Ma ci si può chiedere: a che livello compare, nella narrativa di MH, la musica?
Mi chiedo: se la musica, nell’arte narrativa di MH, avesse la funzione di distrarre? Ho appena detto che l’arte narrativa di MH è costruita in gran parte grazie ad un effetto di anamorfosi. Ma l’anamorfosi non è tanto ciò che deve distrarre, quanto ciò che non deve dare a pensare, cioè ciò su cui lo sguardo deve scivolare come qualcosa che non è da considerare, come vediamo nell’analisi del quadro Gli ambasciatori di Hans Holbein il Giovane compiuta da Baltrušaitis.
Allora quale potrebbe essere l’effetto di anamorfosi presente nella narrativa di MH?
Il procedimento di anamorfosi è caratteristico della narrativa di MH e si collega a un particolare essenziale di quella narrativa: l’usabilità delle cose del mondo. In questa narrativa non c’è mai una situazione di blocco per un personaggio, o se c’è, essa viene facilmente superata. Il protagonista è sempre colui che ha a disposizione una certa usabilità (spazio cittadino, territorio del Giappone, treni in perfetto orario, centri commerciali, donne sempre a disposizione, tutte cose che costituiscono la piena utilizzabilità delle cose del mondo).
L’oggetto in anamorfosi è quindi il trampolino di lancio per riconnettersi pienamente alla piena utilizzabilità delle cose del mondo. Per questo gli spazi di MH hanno sempre qualcosa del flipper, mentre il protagonista è la biglia che si muove scontrando i vari bersagli che incrementano il punteggio. In un racconto si è persino arrivati ad immaginare il cimitero dei flipper (mi riferisco a Flipper, cap. 22).
L’anamorfosi deve in questo caso restare sempre con le aberrazioni non corrette. Ma cosa succederebbe, mi chiedo, se queste aberrazioni venissero corrette e l’oggetto acquistasse le sue proporzioni originarie a fianco degli altri oggetti che costituiscono la normale narrativa di MH? È questa la domanda che la donna pone al N in 8, richiamandogli alla mente quanto accaduto fra lui e un’amica di lei, su una spiaggia, qualche tempo prima.
La donna gli pone una domanda precisa: “Non si vergogna?” Uscito dal bar, in una certa agitazione, il N si chiede di che cosa dovrebbe vergognarsi. Egli sa, però, che qualcosa di cui dovrebbe vergognarsi, c’è. Ma non ricorda dove; infatti la questione non si basa su “che cosa”, ma su “dove”, cioè sul dove che può essere rintracciato nella letteratura.
In quella raccolta c’è un racconto (il quinto di otto, mentre PPS è il numero otto, cioè l’ultimo) che ripercorre quanto è stato detto nella prefazione di Vento & Flipper, cioè della riedizione dei primi due romanzi di MH. Però in quella prefazione c’è un particolare di cui nel nuovo racconto non si fa parola: la decisione di diventare scrittore. Azzardo: non sarà che proprio di quella decisione il protagonista sia infine richiamato a vergognarsi (e quindi lo abbia escluso, salvo poi creare il personaggio, per eccesso di disinvoltura, della donna che si avvicina al N di 8, ecc?). Sono convinto che l’arte narrativa di MH possa essere considerata in base alla disinvoltura. Tutta l’arte narrativa di MH si è svolta all’insegna della disinvoltura; giunta alla fine, quest’arte ama, per un vezzo, confrontarsi con ciò che ne segna la fine: l’eccesso di disinvoltura.
Il procedimento sembra questo: un racconto di PPS, Antologia poetica per gli Yakult Swallows, richiama un procedimento tipico della narrativa di MH, la tecnica anamorfica. Collegando il racconto alla versione non deformata, cioè originaria, si vede che l’elemento, che è là importante, è quello che qui viene lasciato cadere: cioè la decisione di diventare scrittore. La donna del racconto 8, intitolato, come la raccolta, Prima persona singolare, parla di un qualcosa avvenuto su una spiaggia, di cui il N dovrebbe vergognarsi. La Prefazione non parla di nessuna spiaggia, ma di una parte dello stadio dove si svolge una partita di baseball. Il N è sdraiato poco fuori il campo da gioco vero e proprio: «A quei tempi, al Jingū [nome dello stadio] non c’erano gli spalti per gli spettatori, solo un pendio erboso.» (p. 10), «Ricordo ancora perfettamente la sensazione che provai in quel momento: avevo afferrato qualcosa che era sceso volteggiando dal cielo. Non sapevo perché fosse venuto ad atterrare proprio sul palmo delle mie mani. Non lo capivo allora, e non lo capisco oggi. Ma era successo, qualunque fosse la ragione. Era stata una sorta di rivelazione. O forse sarebbe meglio definirla un’epifania.» (p. 11). La striscia erbosa prende il posto della spiaggia, così come il cielo prende il posto dell’acqua. In quella spiaggia/spazio erboso, apparentemente senza nessuna ragione, qualcuno prende la decisione di diventare scrittore.
Ma qual è allora la funzione dell’anamorfosi? Essa offre la possibilità di giocare con le parole del mondo. Offre un metodo gratuito di selezione, che pure, a rigore di logica, non è una selezione. Senza il principio dell’anamorfosi, si sarebbe in balia del caos, così come il principio dell’anamorfosi permette di scantonare la possibilità di scegliere le parole del mondo; permette di scantonare a ragion veduta la selezione.
L’inizio e la fine di un romanzo di MH non sembrano contenere mai molto di importante. Questa narrativa è destinata a non cominciare e a non finire. Lo svolgimento è invece affidato a forme riconoscibili solo grazie all’anamorfosi, cioè grazie a quel principio che permette di scantonare il principio di selezione delle parole del mondo. Ogni romanzo di MH è un’avventura in una montagna incantata, e La montagna incantata come anamorfosi è uno strumento fondamentale in Norwegian Wood. Sono sempre più convinto, perché ho sempre più paura che l’arte narrativa di MH debba coincidere con l’arte di un atteggiamento, con l’arte di un bluff.
Il fatto è che MH ha fondato la sua narrativa sul niente. L’anamorfosi è la tecnica che gli permette di sfuggire al niente che egli, con la sua gratuita/estemporanea decisione di diventare scrittore, si è trovato a fare i conti. Il niente che egli ha chiamato non è la mancanza di tutto ciò che costituisce l’opposto del tutto, ma la presenza del tutto come impossibilità a cui applicare una selezione, vale a dire come possibilità di scegliere quel mondo di parole che servono a dare vita a un testo narrativo dalla prima parola all’ultima.
Ciò con cui egli ha a che fare è un totale che non dice niente, ma di cui la narrativa di MH deve rendere conto.
La butto lì: è possibile dividere gli otto racconti di PPS in questo modo: 1-2, 3-4 /5/ 6-7 /8/?
A regolare la divisione sarebbe allora la presenza o l’assenza di una donna.
Quasi ogni racconto presenta infatti una donna, oppure la sua assenza assoluta.
Con la donna di 1 si ha il massimo avvicinamento (rapporto sessuale), anche se poi la donna sparisce irrimediabilmente.
La donna di 2 è una donna esistente ma assente e l’invito che ella ha inviato al N si rivela un enigma, qualcosa su cui pensare senza arrivare ad una soluzione, come un cerchio con molti centri ma nessuna circonferenza.
In 3 la donna è assente.
In 4 la donna è presente e rivela la sua forza come fidanzatina in seguito suicida.
In 5 la donna è assente.
In 6 la donna è presente con la sua grande bruttezza e sarà assente a seguito del suo arresto per truffa.
In 7 la donna è presente in quanto indeterminatezza (le varie donne parzialmente senza ombra create dalla scimmia).
In 8 la donna è presente solo come accusatrice (accusa che riguarda un’altra donna del tutto assente). Nell’ultimo racconto si ha quindi il massimo allontanamento, così come nel primo si aveva il massimo avvicinamento.
5 è un punto di svolta, non c’è una donna, ma c’è la raccolta di poesie che MH ha composto in onore degli Yakult Swallows. Si tratta di un libro autoprodotto che ricorda il libro autoprodotto dalla ragazza di 1.
La donna di 7 è una donna alla quale è stato sottratto il nome. La scimmia di 7 confessa di avere sottratto il nome a 7 donne. La donna di 7 potrebbe essere allora l’ottavo caso che allaccia queste sette donne. Quindi è dalla donna di 8 che bisogna partire per comprendere le altre donne che l’hanno preceduta nella raccolta.
La donna di 6 (nel racconto Carnaval, denominata nella finzione come F***) è una donna presentata dal N come di grande bruttezza. Il N può incontrarsi tranquillamente con lei senza suscitare la gelosia della moglie. La moglie definisce F*** “la tua girl-friend”, cioè “la tua fidanzatina, la tua ragazza”. “La mia ragazza” è l’espressione che il N di 4 (With the Beatles) usa per Sayoko. Sapremo questo nome quando per caso verrà usato dal fratello di lei, mentre il fratello sarà definito, nel racconto, come “il fratello della mia ragazza”, però ad un certo punto, il personaggio presentato come “il fratello della mia ragazza” userà il nome Sayoko per definire il personaggio che prima di allora era sempre stato presentato dal N come “la mia ragazza”. “F***” è la formula (non proprio semplice) che il N usa per raccontare la storia che la riguarda. In entrambi i casi (racconto 4 e racconto 6), a queste due donne è stato, in un modo o nell’altro, sottratto il nome: nascosto del tutto dal N nel caso di 6, usato con reticenza da un personaggio nel caso di 4. Il personaggio “Sayoko” e il personaggio “F***” sono apertamente lo stesso personaggio, sospinte in scena in due momenti diversi della stessa composizione in otto movimenti. Sono lo stesso personaggio con due allacciamenti diversi con tutte le cose del mondo, che li fa quindi comparire come due personaggi diversi perché trovati in due segmenti di tempo diversi (racconto 4 e racconto 6). Per una nostra abitudine a identificare il personaggio di una narrazione con la nostra abitudine a identificare una persona con qualcosa che può essere spiegata tramite una psicologia.
Quasi me ne dimenticavo: nel romanzo La fine del mondo e il paese delle meraviglie di MH si parla di un personaggio che accetta di cedere la propria ombra, ombra che verrà da quel momento ad avere un propria vita indipendente da colui che prima la possedeva.
PPS si basa su qualcosa che è stato fatto ad una donna, e di cui il responsabile dell’azione dovrebbe a questo punto vergognarsi. A fianco di questa situazione abbiamo due episodi: il furto del nome (e dell’ombra) fatto ad alcune donne; l’identificazione di un uomo, apparentemente innocuo, come il responsabile dell’azione compiuta contro la donna qualche tempo prima su di una spiaggia e che egli non sembra minimamente ricordare. Consideriamo gli otto racconti come otto segmenti relativi al “fattaccio”. La mancanza di poter ricordare il fatto realmente compiuto è ciò che determina l’isolamento delle otto situazioni. Quindi ciò che determina la stesura del testo attraverso otto racconti autonomi anziché attraverso un unico racconto lungo o un solo romanzo breve.
La donna di 8 permette di comprendere le altre donne che compaiono nella raccolta. Ciò che abbiamo compreso della donna di 8 permette di comprendere meglio le altre. Fra questi elementi c’è un rapporto di entanglement. Quando, con la comprensione, modifichiamo l’immagine della donna di 8, anche le altre immagini di donne si modificano.
Gombrowicz è il signore dell’arte di allacciare le parole del mondo in grado di far parte di un romanzo. Lo dimostra il finale perfetto di Cosmo: «E per cena, pollo lesso.» Ma MH non è Gombrowicz. Karen Blixen diceva che solo quando si tolgono le maschere si è in grado di vedere la verità… della maschera. Ma MH non è Karen Blixen. Può solo indicare un gioco di maschera e volto. Niente più.
Alla fine si dovrebbe avere l’immagine di una donna che sarà la somma di tutte le donne presenti in questi racconti, così come l’immagine di tutti i N che agiscono in questi racconti, e di MH chiamato col suo nome vero in 5, forniranno l’immagine di un unico N. A quel punto si avrà l’immagine dell’azione che è scaturita dall’incontro del N con la donna. Ma questo potrebbe comportare qualcosa come il tentativo di suicidio quantistico dell’arte narrativa di MH. Non vi sembra?
Nonostante l’apertura della narrativa di MH al fantastico, tale narrativa dice sostanzialmente che nel mondo non c’è alcun mistero, perché questa letteratura dice che, nel mondo della totale disponibilità di tutte le cose del mondo, non c’è più il mistero del mondo. E infatti questa letteratura, secondo me abilissima nell’arte di propinare l’arte del bluff, dice che non c’è mai il mistero del mondo; anche quando ricorre apertamente all’elemento misterioso, come nel caso di 1Q84 o de L’assassinio del commendatore, questa letteratura dice che questo mistero è qualcosa che si potrebbe indicare come la presenza di un mistero. Ma così facendo, quest’arte narrativa svaluta il mistero del mondo, che pure sembra sempre chiamato ad esserci, anche nelle pieghe più sconcertanti che questa letteratura presenta. Una tale svalutazione viene rivelata probabilmente alla fine di PPS, quando il protagonista si trova a camminare in una strada diversa, con un clima improvvisamente diventato di pieno inverno (mentre l’avvio del racconto era avvenuto in una bella sera di primavera), tra serpenti che scendono dagli alberi e persone che avanzano col fiato giallo. E questo è il momento più gretto di questa letteratura, perché è il momento in cui questa letteratura perde la disinvoltura che le aveva permesso di scorrere i vari passaggi fino ad arrivare al punto finale: vestirsi di tutto punto, uscire di casa, entrare nel bar, rispondere alla donna che lo aveva affrontato, uscire dal bar.
Invito a ricordare i due mondi paralleli del ciclo di Harry Potter, quello della magia e quello della non magia, con isolati e nascosti punti di passaggio in alcuni punti della città. (È “fantastico”, questo?) MH dimostra qualcosa del genere in 1Q84, nel tunnel per passare inavvertitamente nel mondo delle due lune e poi per tornare nel mondo con una sola luna. (È “fantastico”, questo?)
Il mistero di MH esibisce l’orgoglio tecnologico dell’effetto speciale in un film, ma dove tecnologia e leggerezza sono alleate, non cercando mai di sorprendere, come avviene in un film. A differenza del film con effetti speciali, la narrativa di MH accompagna senza mai stupire. Questo perché qualsiasi utilizzo di una cosa del mondo si risolve in un punteggio. Sfiorare qualche cosa del mondo è infatti guadagnare un certo punteggio: è per questo che (io dico) la narrativa postmoderna di MH ha flipperizzato il mondo. Tanto più che la narrativa di MH richiama il vecchio flipper, meno che mai il romanzo postmoderno (figuriamoci i videogiochi).
Nel mondo c’è un mistero. Può essere il mistero della musica o il mistero dell’amore. L’arte narrativa di MH non ha mai pensato la presenza di questo mistero come insieme di cose su cui pensare con lo strumento della sua arte (capitatogli un po’ dall’alto e un po’ grazie ad una decisione presa dal basso), anzi, proprio grazie allo strumento della sua arte lo ha ignorato, inglobandolo come possibilità di scorrere tra tanti punti sensibili fra cui scorrere e sbattere per segnare punti, cioè presentandolo come un piano di gioco inclinato su cui totalizzare un punteggio finale; vale a dire ha pensato il romanzo come il piano inclinato bene illuminato di un flipper, per cui quello che la sua arte narrativa poteva dire del mistero del mondo è che nel mondo c’è un mistero (cosa che, paragonato al ciclo di Harry Potter, può dirsi comunque un passo avanti).
Bene. Questo è quello che io chiamo la “flipperizzazione” che l’arte della narrativa di MH ha introdotto nell’arte della narrativa. Posso anche dire, richiamando Sterne, che questa volta sono stato proprio bravo.
Noi sappiamo come usare le cose del mondo e sappiamo che quello che si può fare con una cosa (ad es. con la cosa musica) non si può fare con altre cose (ad es. con la cosa “letteratura” o con la cosa “filosofia”). La musica è pensiero a una diversa velocità. È difficile pensare la musica in questi termini. MH inserisce la musica nei suoi romanzi come punto sensibile che la biglia-personaggio fa scattare nel suo andare e venire lungo lo spazio-gioco che gli è destinato.
In questa raccolta sorniona, la moglie del Narratore ha la stessa funzione della moglie del tenente Colombo. Compare due volte: in 5, quando autorizza – secondo le parole del N – gli incontri del marito con la donna denominata, nel racconto, dal N F***, e in 8, quando, ancora più implicitamente, essendo ella andata con un’amica in un ristorante di cucina cinese, cucina che il marito non sopporta, permette l’uscita del marito vestito di tutto punto. In tutte e due le occasioni, questa donna compare sempre indirettamente “nascosta”. Nascosta dalle parole del N. Il N, dovendola nominare, dice sempre di lei “mia moglie”, così come, nella stessa occasione, dice sempre il tenente Colombo.
Questo particolare la dice lunga sull’arte narrativa di MH. È un’arte dello scambio, dell’utilizzabilità, dello scambio della moglie: qualcosa come lo scambio di coppie presente in alcuni punti di 1Q84.
Ma l’oggetto dello scambio di questa narrativa è qualcosa di ben diverso dal puro scambio di donne. Si potrebbe dire che la moglie di 5 non è la stessa moglie di 8, ma si potrebbe obiettare che i due personaggi si comportano, nei due racconti diversi, come fossero lo stesso personaggio in due momenti diversi di una stessa narrazione, colti in base a un sistema di segnalazioni che per noi determinano il racconto breve o la narrazione lunga, non riuscendo, noi, a comprendere la continuità. Quindi quando misuriamo qualcosa come racconto o romanzo, ritrovandoci d’accordo in quelle definizioni. Quindi facendo noi riferimento a un puro sistema di relazioni.
Per quale motivo il protagonista di 8 dovrebbe vergognarsi? La donna esordisce chiedendogli se gli sembra giusto comparire lì in quel modo. Se l’abbigliamento di quel tipo è una metafora per la tecnica di anamorfosi tipica di MH, allora quello che la donna chiama in causa è l’arte narrativa stessa di MH. Ma il difetto rintracciato in questa tecnica non consiste nella mancanza di qualcosa, quanto nel fatto della sua presenza (cioè nella sostanza di quella tecnica, vale a dire l’anamorfosi, che ora è soltanto essere vestito di tutto punto); allora ciò di cui il protagonista dovrebbe vergognarsi non riguarda ciò che ha fatto, ma ciò che non ha fatto. Quindi: che cos’è che non ha fatto? Se 5, paragonato alla Prefazione, rivelava la mancanza della decisione di diventare scrittore, 8 stabilisce che la decisione non ha portato a un bel niente. Quando infatti l’uomo, nella sua solitudine dell’essere vestito di tutto punto, pensa a quanto accaduto, non gli viene in mente un bel nulla.
L’accusa riguarda la questione di ciò che fa ed è lo scrittore. Cioè la questione di che cosa voglia dire decidere di diventare scrittore in modo da vivere facendo solo quello; eppure è proprio la cosa che quel poveraccio, che vediamo colto ogni tanto dalla curiosa mania di vestirsi di tutto punto, meno che mai può avere qualcosa da dire; senonché proprio quel poveraccio è la perfetta rappresentazione della questione.
Faccio una pausa: ci vorrebbe una specie di antropologia dello scrittore, un modo per analizzare il rapporto dello scrittore con l’impulso a scrivere, prima ancora che con la facoltà di creare opere. Ricordare quello che Frisé notava a proposito dei Diari di Musil: «scrivere è più importante dell’opera, scrivere è l’opera.» Opera che però si stabilisce non più come una rete di parole allacciate tra un inizio e una fine. Il nostro personaggio è infatti il perfetto ectoplasma di questa raccolta, così tanto fantasmatica che ci giunge tra le mani come lanciata dal cielo (la possibilità, cioè, che lo scrittore non abbia nulla a che vedere con il progetto di diventare scrittore) e allora qual è l’autorità della donna di 8 che le permette di affrontare quell’uomo così problematico?
Si potrebbe dire che anche decidere di fare lo scrittore per distruggere ciò che è lo scrittore… ma, forse, questo è pretendere troppo da MH.
Bisogna invece capire perché quest’accusa, estremamente vaga, abbia colpito così tanto il N, cioè il narratore MH, tanto da presentarsi come personaggio dell’ultimo racconto della raccolta. (Anche se viene celato il suo nome, ecc. – a differenza di quanto accade nel racconto 5, dove il nome completo della scrittore e parte della sua storia-carriera sono presentati.)
È una questione che riguarda il pieno e il vuoto. La curiosa, estemporanea piccola mania del N contribuisce a dargli senso: vestito di tutto punto, in quel bar dove nessuno lo conosce, contribuisce a farlo sentire a suo agio, a sentirsi pieno di senso. L’accusa lo sgonfia. Anche la scena d’incubo che lo attende poco dopo contribuisce al rapporto pieno/vuoto. Ma è soprattutto nel meccanismo dell’arte narrativa di MH che bisogna guardare a fondo. MH non ha giocato sulla letteratura come menzogna, ne ha semmai accettato la verità, ma in qualche modo l’ha svuotata, rendendola una cosa di sola superficie.
Mi è appena venuto in mente: Franz Joseph Haydn ha ricevuto una struttura per quanto riguarda la sinfonia e il quartetto per archi, ma ha lasciato un insieme di sinfonie e di quartetti per archi in cui la forma originaria della struttura da lui ricevuta veniva fortemente modificata, a differenza di quanto accade con i vari concerti da lui composti, dove, a livello di struttura, tanto ha ricevuto, tanto ha lasciato. L’approfondimento creativo di ristrutturazione della forma non c’è stato. Mi sembra che MH parli molto poco della musica di Haydn, che non è probabilmente tra i suoi autori preferiti (non è qui il caso di chiedersi perché).
Il grande artista rivoluziona la struttura che gli capita tra le mani, il suo genio stravolge la forma nel momento in cui la utilizza. MH non ha cambiato niente della forma-romanzo. Ha semplicemente utilizzato una forma che gli è arrivata di colpo come preesistente, la forma del romanzo postmoderno, “flipperizzandola”, cioè adattandola alla sua visione del mondo (che fa capo all’utilizzabilità delle cose del mondo) e al suo risiedere in un luogo (il Giappone moderno) che ha a che fare con l’utilizzabilità di tutte le cose del mondo.
Se la narrativa di MH non parla della musica di Haydn, c’è un particolare che viene in mente quando si pensa alla musica di Haydn: il buonumore. La narrativa di MH non ha mai a che fare col buonumore, come ad esempio l’arte narrativa di Dickens; per questo che, forse, MH non si sofferma sulla musica di Franz Joseph Haydn, ma è ispirata invece (la narrativa di MH) alla certezza della scorrevolezza, che implica la percorribilità dei vari segmenti in cui sono divise le varie città postmoderne. Ma possiamo dire che la musica, nell’arte narrativa di MH, sia qualcosa collegata al pensiero, cioè da pensare? Io direi proprio di no. Semmai qualcosa da collocare. L’arte di MH sostituisce la scorrevolezza all’arte del buonumore (che è di Haydn nella musica e di Dickens nella letteratura) con qualcosa che è la pura scorrevolezza di un testo.
Però possiamo dire che la formula “Haydn per finire” si oppone alla formula “Šostakovič per cominciare”.
La donna non è solo l’unico elemento per tenere insieme gli otto racconti della raccolta. Ripercorriamo gli 8 racconti in base alla possibilità di “allacciare” la cintura che ingloba le parole selezionandole in base alle parole che possono entrare a far parte del testo e solo di quello (che sia racconto o romanzo), tenendo fuori tutte le altre parole del mondo. Vale a dire ciò che viene regolato in base a un criterio di “inizio” e a un criterio di “fine”.
Gombrowicz è il signore dell’arte di allacciare le parole del mondo in grado di far parte di un romanzo. Lo dimostra il finale perfetto di Cosmo: «E per cena, pollo lesso.» Ma MH non è Gombrowicz.
Ogni racconto di PPS si caratterizza in base a una difficoltà di usare le parole del mondo, senza che il problema di una adeguata selezione rispetto a ciò che deve restare fuori, venga mai avanzata. Che tipo di racconti vediamo in questa raccolta che allaccia otto racconti così tanto diversi? Racconti che si determinano in base all’impossibilità di scegliere tra le parole del mondo, di creare l’allacciamento delle parole tra un inizio e una fine dell’opera. Che cosa dice, allora, un romanzo di MH, spesso così attratto dal fantastico?
Consideriamo il racconto 2 (La crema della vita). Il protagonista viene invitato ad un concerto da una ragazza che non vede da un certo periodo di tempo. Quando si reca nel punto dove dovrebbe esserci il concerto, scopre che non c’è nessun concerto. Perché è stato invitato, allora? Senza volerlo, si mette a parlare con un signore anziano seduto su una panchina. Questi non ha nulla a che vedere con quanto accaduto, ma invita a fissare il pensiero su ciò che è quasi impossibile da pensare (come la forma di un cerchio con molti centri ma nessuna circonferenza) perché proprio in questa sfida, egli sostiene, starebbe il bello della vita, la sua essenza, la sua crema. Anche altri racconti di PPS (1, 3, 4, 6, 7) sembrano avere la stessa struttura in due movimenti: una parte prevalentemente narrativa, una seconda parte riflessiva. La parte narrativa è minimalista, i personaggi non sono per niente trattati in modo artificioso; la parte riflessiva ragiona su quanto accaduto. Il ragionamento può prendere l’aspetto di una sfida, come in 2, ma non segna mai il confine di un pericolo da affrontare. Infatti, fare della scorrevolezza il punto di forza della propria arte vuole dire eliminare la possibilità del pericolo come incontro con ciò che è nuovo.
Qual è la posizione della scimmia (racconto limite della struttura in due movimenti)? Determinarla è senz’altro di grande importanza. Sappiamo che, per un certo periodo di tempo, la scimmia ha avuto l’abitudine di rubare il nome delle donne per le quali provava una certa attrazione sessuale – pur essendo una scimmia. Rubare il nome alle donne equivaleva a rubare qualcosa del loro nome, infatti la scimmia, per effettuare il furto, agisce sul nome. La scimmia sottraeva qualcosa che può essere indicata in forma scritta come “un ombra”. Scrivere “un ombra” senza apostrofo è delimitare ciò che la scimmia rubava: la scimmia si appropriava (e stando al racconto forse ancora si appropria) di quella parte di ombra che l’apostrofo lancia sulla parola “ombra”. È tuttavia anche possibile che qualche altra scimmia abbia scoperto quel segreto, e lo stia usando ai danni di diverse donne.
È certo che è di questo che il N di 8 deve vergognarsi. Su una spiaggia, che era un campo erboso al margine di uno stadio di baseball, un ragazzo tifoso di un squadra scalcinata di baseball ha deciso di diventare di colpo scrittore, facendo qualcosa che ha sottratto qualcosa a chissà cosa di altro. Questa decisione si basa sulla traiettoria di una palla, su un arcobaleno di gravità… trasformato in epifania di una palla.
Però non gli è andata male (tutt’altro). Ma questo non stabilisce niente. Da qui il richiamo al doversi vergognare.
La scimmia, come immagine anamorfica dell’uomo, ci porta alla deformazione anamorfica come immagine curiosa che si proietta spesso nei testi di MH (letteratura che richiama letteratura, e che sa di una via d’uscita – per ciò che letteratura sa di non poter essere). Non vi sembra?
La butto lì: giunto all’apice della sua carriera, il vecchio (falso) mago MH immagina una tempesta e riunisce delle cose della sua arte, non su di un’isola, ma in un semplice bar isolato dove nessuno ha il piacere di conoscerlo. È appunto l’ultima fregola di un maghetto alla Harry Potter a cui è sempre stato concesso di prosperare magnificamente. Grazie, non dimentichiamolo, alla sua bacchetta magica di scrittura. Così egli fa suonare tutto bene prima di buttare via la bacchetta. Gli spettri non li manda via, ma li fa sfrecciare insieme al suo personaggio appena lo ha fatto uscire dal bar. Spettri invecchiati, deformati… mostri. C’è qualcosa che non va. Questo è quel qualcosa di cui ci si deve vergognare. Se questa raccolta fosse però la piena confessione di uno qualunque che ha deciso di diventare scrittore, per cui il peggio deve venire?
Allora ci si dovrebbe chiedere: “Che cosa è dello scrittore nella nostra epoca?”
Quello che fa, o faceva, la scimmia, cioè rubare il nome ad alcune donne, è collegato alla misteriosa azione per la quale il N di 8, stando a quanto dice la donna, dovrebbe vergognarsi.
Se noi consideriamo la scimmia come anamorfosi dell’immagine umana, la funzione dell’anamorfosi che compare nell’arte narrativa di MH è una funzione di comodo, che permette quella attività di scrittore, di cui però il suo autore non dovrebbe assolutamente inorgoglirsi, anzi dovrebbe vergognarsi, in quanto attività che si è sempre sostenuta su di un inganno, sulla sottrazione di qualcosa ad una parte che doveva restare intera.
È difficile immaginarsi il N di 8, che vediamo come un tranquillo tipo qualunque, con la curiosa abitudine di vestirsi di tutto punto per fare delle cose in un certo ambiente, che non richiedono quel tipo accurato di abbigliamento, fare qualcosa, di cui dovrebbe vergognarsi, ad una donna. Ricordare che il fratello di Sayoko, dopo aver parlato al N del suicidio della ragazza, gli dice che, secondo lui, egli è stato l’unico vero amore della ragazza: «“Senti, permettimi di parlarti con sincerità, anche se… se quello che ti dirò potrebbe pesarti sulla coscienza. Sayoko ti ha amato più di chiunque altro.”» (p. 61).
In realtà è la scimmia che ha fatto la cosa per cui ci si dovrebbe vergognare (cioè il furto di un qualche cosa, grazie all’anamorfosi): ma chi si nasconde dietro la scimmia? La scimmia è il risultato di una umanizzazione che nasconde il fenomeno dell’anamorfosi che è fondamentale nell’arte narrativa di MH.
La questione è: che cosa è letteratura? Il richiamo a nozioni fatte vestendosi di tutto punto, o la possibilità di aprire un campo di minacce? (tanto che l’altra persona possa sentirsi poi chiamata a scostarsi e a chiedere: “È una minaccia?” poiché avverte un pericolo – più che non richiamare a un dovere di vergogna nell’arco di un arcobaleno di una gravità.)
Descrivere il mondo è pornografia. Istituire un rapporto tra un soggetto ed alcuni oggetti del mondo è produrre una sottile pornografia. È quello che ha rappresentato Gombrowicz con il personaggio che porta il suo stesso nome. Di qualcosa attinente alla pornografia viene indirettamente accusato il N di 8, ma l’accusa reale riguarda l’uso della pornografia, cioè della descrizione del mondo (che è pornografia) da parte di una letteratura che evita proprio di mettere in scena quel rapporto basato su di un principio pornografico.
Cosa mette in scena l’incontro del racconto 8? Uno sdoppiamento, che per il N non esiste, mentre per la donna è evidente. Lo sdoppiamento riguarda la capacità di autoironia, la possibilità di dire delle cose lasciando intendere di dire la cosa opposta (cioè la possibilità del bluff che è alla base del N che, ogni tanto, viene preso dalla necessità di vestirsi di tutto punto per fare delle cose che non richiedono assolutamente un abbigliamento di quel tipo); la donna annulla invece qualsiasi possibilità di sdoppiamento e dice che, presentarsi in quel luogo vestito di tutto punto è solamente una cosa di cui ci si deve vergognare. Lo sdoppiamento messo in atto dal N richiama il bluff, mentre la donna smaschera il bluff.
La biglia (palla del gioco) è ciò che deve essere rilanciata indietro con uno scatto effettuato al momento giusto al fine di segnare nuovi punti sul vecchio percorso. Questo è ciò che la decisione di diventare scrittore ha comportato nel momento in cui si è visto atterrare la palla in gioco.
Ma perché, da parte di questo maestro del romanzo lungo, giunto all’apice della sua arte, creare otto racconti brevi – cioè puntare sul segmento anziché sul continuo? Forse potrei dire che queste sottigliezze dell’arte narrativa di MH sono proprio quelle cose che a me non interessano, avendo io, come ho detto in apertura, non molta simpatia per l’arte narrativa di MH, ma posso invitare a considerare un’opera riconosciuta come enigmatica, l’ultima sinfonia di Šostakovič, compositore ignorato nell’arte narrativa di MH.
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini
Questo romanzo prende forma da un ricordo improvviso, avvenuto nel corso di una gita estemporanea, da parte di un Narratore, che avverte l’impulso di mettersi a scrivere la storia – cioè quello che egli, in quel momento, riconosce come essere stata la storia – della famiglia Finzi-Contini; famiglia che egli ha conosciuto e frequentato per un certo periodo importante di tempo nel corso della sua vita, in un certo spazio di quel suo tempo a disposizione. Spazio e tempo che egli, adesso, non è più portato a condividere in nessun modo.
La forma del ricordo, dove l’impulso a scrivere quella storia si manifesta in lui, e la forma di romanzo che essa prende, che di quell’impulso si presenta come la sua propria messa in scena, nel romanzo si estende nella forma zoppa in cui forma di ricordo e forma di romanzo ci vengono propugnate.
Il romanzo Il giardino dei Finzi-Contini si presenta infatti come racconto organizzato in un Prologo, un Epilogo e quattro parti che allacciano un totale di ventisette capitoli. Abbiamo quindi una forma comprendente un Prologo, ventisette capitoli distribuiti in quattro parti, e un Epilogo. La Cornice è la spia della struttura zoppa che questo romanzo mette in scena, ma è la spia di una cornice che, nei fatti, meno che mai c’è. Questa cornice zoppa è anche la stampigliatura frusta di ciò che il Giardino impone come modo di percorrere uno spazio che esso esibisce in quanto “terra” a disposizione, e di ciò che il personaggio impone come modo di avere a che fare con esso in quanto ciò che si ha a che fare con quel dato elemento (cioè il giardino) in quanto niente più che personaggio.
La grandiosa microstoria che il Prologo presenta non ottiene conclusione nell’Epilogo. Questo perché quanto presentato nel Prologo è la microstoria che ha la sua conclusione nella discesa sottoterra del Narratore in I/6 (e non nell’Epilogo). La conclusione di quella discesa nel sottosuolo risponde all’andata sulla superficie di ciò che non è stato trovato nel sottosuolo. L’Epilogo presenta solo la conclusione relativa alla storia presentata nei ventisette capitoli che si sono avvicendati dopo il Prologo. Quello che si ricava è quindi una struttura zoppa, che – in questo caso – tutto quello che può fare è mostrare una decoerenza.
A determinare la zoppaggine è il duplice andamento sotteso da questo romanzo, che è riassumibile tramite queste due formule (oppure componenti): “Giardino” e “Interpretazione di Micòl”. Che è ciò che permetterà di passare dal giardino alla donna.
La formula-componente “Giardino” e la formula-personaggio Micòl Finzi-Contini sono infatti pensati nello stesso mondo e funzionano nello stesso modo all’interno di questo romanzo, portando a completo funzionamento le intermittenze che regolano comparsa e scomparsa di queste due vere e proprie rampe di una messa in scena. Fra l’una e l’altra si ha il procedere a piè zoppo. Infatti è di intermittenze che qui si tratta.
Il personaggio di Micòl può essere considerato come personaggio solo in quanto “Interpretazione di Micòl” funzionante in quel romanzo, così come il Giardino può essere considerato come “interpretazione di uno spazio” funzionante in quello stesso romanzo. Entrambe le forme si determinano in funzione al Narratore nella forma di un insieme comprendente una intermittenza regolata da allontanamenti, divieti, sbagli, concessioni attente. Vale a dire: obbligo di procedere a piè zoppo. Con la differenza relativa a ciò con cui si ha a che fare. Fra quelle due forme avviene appunto la decoerenza.
L’Interpretazione di Micòl chiama ad una sospensione; l’interpretazione di uno spazio chiama alla sospensione che richiede una interpretazione che sa di una illazione. L’interpretazione dello spazio è ciò che può essere contrapposta – a tutti gli effetti – all’Interpretazione di Micòl.
Se questa è la via in cui si determina la lettura di questo romanzo, allora è pure logico, da questo punto, determinare la ruga da cui porre la domanda: “come determinare questo procedere a piè zoppo?” Comunque ci poniamo, questa è la via da cui dobbiamo infatti partire.
Vediamo che questo procedere a piè zoppo presenta due forme diverse a seconda dei due elementi considerati, infatti “Giardino” e “personaggio Micòl” sono organizzati in base a intermittenze proprie ai due aggregati, cioè ai due personaggi.
Vediamo di quali intermittenze si parla.
Due sono i punti di partenza: la funzione del giardino e l’interpretazione che Micòl dà dell’amore. Il giardino si pone in una duplice prospettiva: giardino di giorno, frequentato dalla compagnia che ruota intorno al vecchio malandato campetto da tennis, e giardino frequentato anche dalle escursioni di Micòl e del Narratore nei tempi morti fra una partita e l’altra; giardino di notte – presentato solo nell’ultimo capitolo – quando il Narratore vi entra di nascosto e ne deduce la relazione, non si sa fino a quale punto reale, fra l’amico Malnate e Micòl. In qualunque modo lo si consideri, il giardino stabilisce una relazione continua fra tutti gli elementi che erano comparsi davanti al Narratore come indipendenti fra loro. Relazione che il romanzo presenta nel particolare del potente fischio di Alberto, che i due che si erano allontanati lungo il giardino, che il campo è libero.
L’Interpretazione di Micòl (IV/3) è invece il secondo tipo di intermittenza, che culmina nella sua interpretazione dell’amore come sopraffazione di un amante sull’altro. Secondo questa interpretazione, l’amore non è né fusione fra due individui, né compartecipazione fra gli stessi; è invece lotta dell’uno contro l’altro, desiderio dell’uno di sbranare l’altro: loro due (Micòl e il Narratore), ella conclude, non potranno mai amarsi perché non hanno il desiderio di sbranarsi a vicenda (perché uno accetta l’altro secondo la formula di una intermittenza che si basa su di una uguaglianza di partenza). Essi non possono amarsi – ella ne deduce – perché essi sono troppo uguali. Questa reciproca uguaglianza, vale a dire equilibrio, è ciò che porta il Narratore, alla fine della narrazione, a scalare di frodo il muro di cinta del giardino, e, a metà della narrazione, ciò che porta Micòl a fuggire dalla cinta muraria di Ferrara, ma continuando a tenersi con lui in contatto e mandandolo dal fratello, in modo da permettergli di frequentare con regolarità la casa costruita intorno alla cinta muraria e al giardino, dentro le mura di Ferrara.
In entrambi i casi si ha uno squilibrio di partenza: fra il giorno e la notte, nel caso del giardino; fra individuo e altro individuo, nel caso della visione di Micòl dell’amore; con la differenza che Micòl fa leva su questo squilibrio (per lei essenziale al fine di conseguire la formula del vero amore), mentre il giardino si pone (nell’arco di quello stesso squilibrio riconosciuto) cioè come punto di partenza per il proprio annullamento – quando infatti il Narratore, alla fine del romanzo, entrerà nel giardino di notte, e realizzerà quello che sembra una illazione nei confronti dell’amico e della ragazza amata, giungendo alla conclusione di rompere definitivamente i rapporti con i Finzi-Contini (secondo l’Interpretazione di Micòl, ciò che deve rimanere separato non deve più rimanere tale, perché uno dei due deve divorare l’altro – se c’è vero amore). E questo si ricollega alla visita alla necropoli del Prologo, che, tramite le parole di Giannina, diceva che i morti di un tempo remoto, come quelli che giacciono nelle necropoli dei siti archeologici, sono pur sempre morti, come quelli che si vanno a trovare nei cimiteri moderni. Questa constatazione ha infatti effetto di avvicinamento, almeno secondo quanto riferisce il Narratore. Quando il Narratore entra nel giardino di notte per realizzare un avvicinamento (come può essere quello che offre un cimitero moderno), incontra invece quello che la visita ad un sito archeologico offre a un qualunque suo visitatore: la separazione incolmabile tra ciò che è (cioè che è in vita, e lo è ancora) e ciò che è stato (cioè che è stato in vita, e adesso non lo è più).
Non per niente il romanzo Il giardino dei Finzi-Contini si organizza in quattro parti circondate da un Prologo e un Epilogo. Prologo ed Epilogo costituiscono una falsa cornice (cioè una cinta muraria che può essere scavalcata in determinate occasioni, come ignorata in tante altre). La tematica che si affaccia nel Prologo non viene accolta – o viene ricacciata – nell’Epilogo.
Il romanzo sviluppa la storia del ragazzino che ha paura di scavalcare il muro, e scende poi sottoterra, fantasticando di poter rimanere a lungo lì nascosto, aiutato e nutrito dalla fanciulla che lo aveva invitato a scavalcare il muro per entrare nel giardino di nascosto. Il ragazzino arriva per caso in quel punto in bicicletta, quindi adoperando un mezzo di locomozione che prevede il padroneggiamento di un equilibrio. Al ritorno dalla discesa sottoterra, il ragazzino troverà Micòl in equilibrio sul muro. Il mezzo che egli ha utilizzato per muoversi, e che ha appena nascosto sotto terra, è un mezzo prodotto per garantire la mobilità sopra quella parte di terra che si può scorrere da una parte all’altra senza muri od ostacoli di altro genere (salvo poi trovarsi di colpo a rasentare il muro), mentre il muro (su cui egli vede la ragazzina Micòl) è ciò che viene eretto per garantire che ciò che si trova da una parte e dall’altra del muro non possa mai venire trascorsa con un qualunque mezzo atto a scorrere la terra.
Il giardino aveva funzione di protezione nei confronti di Micòl, ma non del Narratore. Perché i Finzi-Contini sono stati deportati in Germania, mentre la stessa cosa non è capitato alla famiglia di appartenenza del Narratore? Che cosa viene determinato (in quel modo) attraverso il giardino? Alberto svanisce, mentre Micòl sembra morire tutto ad un tratto. Il Narratore è indifferente a questo arcobaleno della gravità. Nella sua narrazione ci sono cimiteri, necropoli, tombe faraoniche, morti senza una tomba e un luogo dove il Narratore è come una specie di ebreo errante, che trascorre la terra qui rappresentata dal giardino dei Finzi-Contini; il giardino è allora per lui quella nuova terra che gli viene offerta come terra su cui continuare ad andare. Lì non troverà la morte, vedrà solo persone che muoiono, ma grazie a quel luogo potrà sempre continuare il suo viaggio – in quanto figura mitica – e realizzare la vicinanza tra vivi e morti che è ciò che offre lo spazio di un cimitero e che viene presentato come tema della narrazione di una storia nel Prologo. E quindi del romanzo, che poi egli potrà scrivere.
Nel Prologo vediamo il Narratore trasportato in un movimento, attraverso l’automobile in gita con amici. In questo episodio lo vediamo identificato come ebreo (cosa che poi sarà molto importante) dal proprietario della vettura a seguito di una domanda importuna, relativa a chi è nato prima, posta dalla figlia Giannina a cui il padre risponde (secondo il resoconto del Narratore) con diplomazia in questo modo: «“Prova a chiederlo a quel signore,” disse, accennando a me col pollice.»
È curioso: in quel punto iniziale della narrazione, quando il Narratore non è ancora entrato in scena, ed è trasportato nell’automobile dei suoi amici, si richiama accidentalmente il gesto col pollice dell’autostoppista. Allora Il giardino dei Finzi-Contini sarebbe una riproposizione del tema dell’ebreo errante aggiornato in base all’entanglement e alla decoerenza (richiamati con il gesto dell’autostoppista)?
Come si determina questo giardino, che pure dà il titolo a questo romanzo? Innanzitutto c’è un campo da tennis, che è l’elemento aggregatore della compagnia; poi c’è la parte intorno a questo campo, quello dove Micòl e il Narratore andranno a passeggiare quando il campo è occupato e che ha il suo culmine nella rimessa dove i due stanno insieme nella vecchia carrozza e dove, poche pagine dopo, il Narratore rimpiangerà di non avere preso l’iniziativa di baciarla. Così il giardino sembra essere tutt’altro che un elemento di aggregazione, sempre che un discorso sulla terra possa chiamare in causa qualcosa come un “elemento di aggregazione” (che è proprio ciò che invece non ha nulla a che fare con la terra, semmai ha a che fare con i luoghi asettici dove vengono piantate le moderne città tutte costruite in verticale, che con la terra non hanno più nulla a che fare).
Che tipo di giardino è, invece, dal punto di vista dell’arte paesaggistica, il giardino dei Finzi-Contini? Non è un giardino all’italiana, né alla francese, né all’inglese: è un giardino dove si può andare come spazio che può essere trascorso. Ci sono alberi da frutta, un campo da tennis, alberi secolari, una rimessa, una casa per la famiglia del custode. È un giardino che se ne fa un baffo dell’arte dei giardini.
Eppure il giardino, così come noi lo conosciamo, in quanto arte del paesaggio, è una violenza a quello che, per natura, potrebbe essere di per sé un paesaggio, che dovrebbe presentarsi per quello che soltanto è – e che invece è qualcosa che parte da una separazione che deve essere riparata e la separazione impone un intervento sulla natura. L’arte del paesaggio è la dimostrazione di quanto la terra sia adesso sentita come qualcosa di simile ad un corpo morto da esporre pubblicamente proprio perché corpo che ha cessato di vivere – allora ciò che contiene quel corpo morto è la cornice in quanto bara, ma bara zoppa, e il corpo che contiene in quanto cadavere da esporre, è la terra di quel malandato e malaugurato giardino. Si vede che questa cornice-bara, che espone il cadavere del Narratore, è doppiamente una bara zoppa, e non solo perché i Finzi-Contini di cui parla il romanzo non hanno avuto nessun tipo di cerimonia funebre.
Noi pensiamo la terra solo come terra dove andare e non come terra che chiama il suo abitante.
La spiegazione della funzione del giardino è contenuta nel capitolo finale, quando il Narratore vi entra di nascosto scavalcando il muro, e dopo un po’ camminando, immagina che Malnate abbia ormai la consueta abitudine di incontrarsi con Micòl, o nella capanna nel giardino o nella camera di lei. Nell’Epilogo viene avanzata l’ipotesi che gli incontri tra Malnate e Micòl siano tutta una illazione del Narratore. Eppure è sempre come se il giardino trovasse la sua verità di notte. Ma in quale notte? Questa è la domanda fondamentale del romanzo. Si potrebbe rispondere: nella notte in cui il Narratore sparisce da Ferrara. Ma in quale modo egli sparisce da Ferrara? In un primo tempo il giardino aveva proprio la funzione di disgiungere giorno e notte, morti e vivi, terra da scorrere e terra da abitare, nel tempo in cui la terra non è ciò che viene rivelata tramite la regolare alternanza di luce e buio, soprassuolo e sottosuolo. (Allora ci si potrebbe di nuovo chiedere: in quale modo il Narratore sparisce da Ferrara, senza incappare nelle leggi ormai attive contro gli ebrei?)
Tuttavia il giardino ha, in un secondo tempo, la funzione di riconciliare il Narratore col padre. Quando infatti il Narratore ritornava a casa tardi, e il padre lo chiamava sentendolo arrivare, era consuetudine del Narratore fare finta di non avere sentito, e chiudersi in camera; ma non quella sera, e infatti, quando il padre lo chiama, egli risponde subito, e questo porta ad una lunga chiacchierata fra padre e figlio; chiacchierata che disgiunge per sempre “il figlio Narratore” dai Finzi-Contini e da Malnate.
Ma qual è la domanda che il padre pone al figlio, nel momento in cui il figlio ha risposto, per la prima volta, alla chiamata che il padre, per tante volte, gli ha inviato, sentendolo rincasare di notte: “Scommetto che siete andati a donne” La terra e la donna, in questo personaggio di vecchio padre depresso adesso dalle leggi razziali, vengono viste come la stessa cosa da trascorrere fugacemente, di nascosto, ma sempre con l’orgoglio “di razza” da trasmettere da padre in figlio, cioè con l’orgoglio di vedere sempre trascorrere la terra. Quel padre ebreo è felice che quel figlio ebreo sia andato a donne in quella notte che, per la prima volta, il figlio ha risposto alla sua chiamata. Nella riposta affermativa del figlio, il vecchio padre vede l’appartenenza “di razza”, che se ne può fare un baffo delle leggi razziali contro gli ebrei, perché “scorrere la terra” è ciò che salvaguarda la “razza”. Il figlio ha sempre un po’ disprezzato quel padre che non ha mai compreso, ma adesso, che, scorrendo la donna che lo ha accettato in quanto giovane che le si è presentato semplicemente per “andare a donne”, ed è stato accettato da una donna in quanto realizzazione dell’espressione “andare a donne”, cosa invece che Micòl non permetteva assolutamente, egli può rispondere a quanto chiede il padre. Giustamente, a conclusione della chiacchierata, quello che il padre dice sono solo nozioni indispensabili per l’arte di trascorrere la terra, da padre (medico) a figlio: «“E soprattutto: se la mattina, svegliandoti, ti capitasse di notare qualcosa che non va, vieni subito in bagno a farmi vedere. Nel caso, ti dirò io come devi regolarti.”» (IV/9, p. 225).
Quando adesso il figlio risponde, dimostra di essere perfettamente in grado di scorrere la terra, per questo ha accettato il dialogo con il padre, mentre prima lo aveva sempre rifiutato. Ma la questione sta in quella domanda del padre ebreo al figlio ebreo: “Siete andati a donne?” È lì che la questione dello scorrere (scorrere la terra, scorrere la donna) si fissa e si rilancia. Appunto, si rilancia di padre in figlio. Avere imparato a “scorrere la donna” vuole dire smettere di scorrere il giardino, ma imparare, contestualmente, a “scorrere la terra”.
Come tutti i padri, anche il padre del Narratore, sotto il peso delle nuove leggi razziali, non ha altro cruccio in testa che quello di insegnare al figlio come farsi strada nella vita (vale a dire, insegnargli l’arte di “scorrere la terra”). Che è quello che gli permette di fare elegantemente fagotto, così come il figlio, una volta imparata l’arte, può alzare i tacchi da Ferrara. Installarsi a Roma, dove poi lo vedremo in una breve gita con amici all’inizio del romanzo.
Questo perché la terra, così come la donna, leggendo quel romanzo, potrebbe comparire come una cosa da proteggere, così come soltanto cosa da trascorrere. Ma in quel romanzo né la terra né la donna sono mai viste come cose da proteggere.
Che cosa viene identificato, allora, come tradizione, in questo romanzo?
Questo è appunto il terreno su cui il romanzo procede a piè zoppo. Tramite i suoi personaggi principali, questo romanzo presenta una specie di adeguamento alla tradizione ebraica, eppure nemmeno più di tanto. In quanto lettori, veniamo a sapere di una tradizione che in parte viene derisa da Micòl quanto dal Narratore (cioè dai personaggi principali di questo romanzo). Per il padre del Narratore, tradizione vuole dire “scorrere la terra”; e “scorrere la terra” è ciò che permette al Narratore di scorrere il giardino; per il Narratore “scorrere la terra” è qualcosa che egli può fare diverse volte, nei confronti del giardino dei Finzi-Contini; per Micòl “scorrere la terra” è qualcosa che, invece, non può essere mai essere legittimata. Da qui la sua chiusura nei confronti del Narratore. La soluzione è nella domanda che, da tanto tempo, il padre, che si è tenuto nascosto nella sua camera, può infine porre al figlio: “Siete andati a donne?”. In quanto lettori, veniamo informati che molte volte il padre ha chiamato il figlio, sentendolo rincasare tardi di notte. Sappiamo che il padre, dopo l’entrata in vigore delle leggi razziali in Italia, soffriva di insonnia. Ma il figlio, prima di quella volta, non aveva mai risposto a quella chiamata. Invece quella volta risponde: perché? Tra padre e figlio c’è una domanda sospesa, che il figlio aveva sempre evitato di sentirsi porre e che il padre non aveva mai avuto modo di porgli. Il figlio risponde alla chiamata del padre quando sa di avere la risposta alla domanda che il padre non gli aveva mai posto. Ma che adesso, nel momento in cui il figlio risponde alla chiamata del padre, il padre può formulare completamente: “Siete andati a donne?” dice la domanda; il figlio può adesso rispondere con orgoglio: “Siamo andati a donne!”. Tra padre e figlio c’è adesso il rapporto che non avrebbe mai potuto esserci prima, dato quel guazzabuglio di cose, che comprendeva il giardino e la donna, che questo romanzo presenta con estrema precisione. Il figlio andava nel giardino, mentre la donna di quel giardino lo teneva prudentemente a distanza; per il padre non era tanto importante che il figlio andasse in quel giardino in quel modo, quanto che imparasse ad andare da Micòl come “andare a donne”, vale a dire che imparasse l’uguaglianza tra la terra come cosa che deve essere trascorsa e la donna come cosa che deve essere trascorsa, quindi che imparasse come andare nella “terra”. Che è la cosa che tiene lontana il significato della parola nordica þing, che nella lingua italiana vuole solo dire “cosa” – e niente di più. Cioè che una cosa è una cosa. È questo che il padre chiede con quella semplice e stonata domanda: “Siete andati a donne?”; la risposta del figlio si intona perfettamente alla stonatura e lo pone in grado di rompere i rapporti con il giardino dei Finzi-Contini e con la donna del giardino dei Finzi-Contini.
Stonatura che però non riguarda un modo di rispondere per dissonanze, semmai il contrario.
Che tipo di narratore viene allora fuori? Un narratore che deve trarre le conseguenze dal suo avere a che fare con un terreno, un ambiente, ma non mai un mondo.
Questo disgiungimento ha senz’altro funzione simile a quella della necropoli di Cerveteri: avvicina ciò che è diviso, ma riafferma il principio stesso della divisione.
Il Giardino è passivo nella sua accettazione dello scorrere la terra da parte del Narratore, mentre Micòl è attiva nella sua repulsione nei confronti del Narratore.
Che cosa si può trarre da questo romanzo, inteso come redazione effettuata dal protagonista, cioè da colui che, in mancanza di un nome può essere identificato come “il Narratore” (a cui però si presenta la funzione sempre possibile del narratore)?
C’è un rapporto con la terra, che in questo romanzo viene sempre inteso come “vicinanza”. Questo tipo di rapporto beffardo si ripresenta anche con la donna – che compare come legata a quella terra in quanto giardino.
Ricordare il punto in cui Micòl accusa il Narratore di sfruttare qualunque occasione di vicinanza con lei per baciarla e strusciarsi contro di lei. Vediamo come si presenta nell’originale, cioè secondo il resoconto del Narratore: «Aggiunse che da molto tempo in qua il mio modo di condurmi non era dignitoso: né per me, né per lei. Lei me l’aveva detto e ripetuto mille volte che era inutile, che non cercassi di trasferire i nostri rapporti su un piano diverso da quello dell’amicizia e dell’affetto. Macché. Appena potevo, io, al contrario, le venivo addosso con baci e altro, come se non lo sapessi che in situazioni come la nostra non c’è niente di più antipatico e controindicato. Santo Iddio! Possibile che non riuscissi a trattenermi? Ci fosse stato fra noi in precedenza un legame fisico un po’ più profondo che non quello determinato da qualche bacio, allora sì che lei avrebbe potuto capire che io… che lei mi fosse entrata per così dire nella pelle. Ma dati i rapporti che erano sempre intercorsi fra noi, la mia smania di abbracciarla, di strusciarmi contro di lei, non era il segno probabilmente che d’una cosa sola: della mia sostanziale aridità, della mia costituzionale incapacità a voler bene davvero. E poi, andiamo! Che cosa significavano le improvvise assenze, i bruschi ritorni, le occhiate inquisitorie o “tragiche”, i silenzi immusoniti, gli sgarbi, le insinuazioni cervellotiche: tutto il repertorio di atti inconsulti e imbarazzanti che esibivo instancabilmente, senza il minimo pudore? Pazienza se le “scenate coniugali” le avessi riservate a lei sola, in separata sede. Ma che anche suo fratello e Giampi Malnate dovessero esserne spettatori, questo no, no e poi no.» (IV/5, p. 196). Notare come il Narratore esponga chiaramente la riprovazione di Micòl nei confronti di lui, senza cercare di giustificarsi in nessun modo. Questo è tutto, fuorché onestà. Probabilmente il segreto dell’Interpretazione di Micòl sta proprio qui: il Narratore si identifica completamente con le ragioni della persona con la quale si sta confrontando, senza nulla chiedere, così come il Giardino non poteva essere posseduto più di tanto (non essendo una terra ma solo un terreno dove andare). Sembra che proprio qui stia la questione dell’ingranaggio (poiché di ingranaggio di romanzo piantato qui si tratta): ma ricordare che quello che noi leggiamo di questo atteggiamento, da parte del Narratore nei confronti di Micòl, non è ciò che noi leggiamo soltanto come parole che il romanzo consegna a noi, ma come parole che il Narratore presenta come parole che il personaggio Micòl ha consegnato a lui, e che il Narratore, in quanto personaggio del romanzo, consegna a sua volta a noi, lettori di quella storia malnata.
Micòl come signora del giardino offre un punto in cui andare, o un punto da cui andare, ma mai una traiettoria lungo la “terra”, perché la terra è ciò su cui ella, signora di un giardino, non ha nessuna signoria. Così il punto piantato su un terreno deve contrapporsi alla traiettoria, perché la traiettoria è ciò si svolge sopra una terra. L’incontro con Micòl non offrirà mai al Narratore una traiettoria lungo la terra, che porta infine all’incontro con la donna.
Considerando invece il richiamo alle leggi razziali, nel modo in cui compaiono in questo romanzo, ci si può chiedere: che funzione hanno, a livello di meccanismo del romanzo, queste piccole leggi razziali? Se svolgessero appena il ruolo di una punteggiatura? Sappiamo, prima di tutto, che sono ciò che permettono la riunione di una piccola compagnia estemporanea intorno ad uno scalcagnato campo da tennis nel giardino dei Finzi-Contini.
Che non è cosa da poco da sapere.
Il Narratore della vicenda è stato sempre precisato in quel ruolo come colui che ha avuto l’occasione di sfruttare diversi tipi di vicinanza. La “vicinanza” è ciò che la bambina del Prologo, Giannina, ha chiamato come segmento appropriato per colmare la lacuna tra vivi e morti. Lacuna che non riguarda solo i morti collocati nei cimiteri moderni, dove la visita alla tomba ha funzione di surrogato alla visita che prima si rendeva alla casa di quelle persone – quando quelle persone erano vive; ma anche i morti delle necropoli archeologiche, che sono stati collocati nelle tombe dove, ormai, nessuna visita può avere la funzione di surrogato alla visita alle case che si rendeva a quei vivi. È su questo nuovo rapporto tra morti da tanto tempo e morti da poco tempo, che la bambina instaura la vicinanza, ma è invece su una vicinanza tra morti che riposano in cimiteri e morti che non riposano in nessun cimitero che, con la sua andatura zoppa, questo romanzo si mette in moto.
La bambina Giannina del Prologo richiama la Micòl ragazzina, che, in I/5, sfida il Narratore a entrare di nascosto nel Giardino. Ma per entrare nel Giardino, il Narratore deve nascondere, su indicazioni di lei, sottoterra, il veicolo che gli ha permesso di mantenersi in equilibrio fino a quel punto (quindi, seguendo le indicazioni della bambina, deve privarsi di quel veicolo basato sull’equilibrio, che gli ha permesso, fino a quel momento, di non effettuare nessuna scelta fra i mondi che venivano scorsi a uguale distanza, tenuti appunto in equilibrio). La bicicletta gli ha permesso di arrivare al punto in cui il Giardino può essere violato, ma contestualmente gli ha impedito di oltrepassarlo. Per effettuare quella violazione, bisogna infatti farla finita con quel veicolo, cioè nasconderlo, seppellirlo sottoterra come una cosa morta.
Il modo migliore per nascondere qualcosa è nasconderlo sottoterra. Se il veicolo ha permesso al Narratore di mantenersi in equilibrio sopra la terra, tutto allora cambia sottoterra; se la sfida è lanciata dalla bambina del Prologo (passare il muro nel giorno in cui il Narratore non ha passato tutti gli esami), ed è ripresa dalla ragazzina in I/5, allora c’è da chiedersi quale sia lo schieramento posto in campo dal Narratore, essendo il Narratore non così sprovveduto come potrebbe sembrare. In questo gioco delle tre carte, egli è infatti, tra le due carte in bilico, quello che salva pelle e palle d’un sol colpo. Ciò che avviene sottoterra è ciò è destinato a tornare in superficie. Ma qui non pare succedere.
Non è poco per determinare questo romanzo.
Il romanzo Il giardino dei Finzi-Contini si organizza intorno a un campo da gioco, che è il gioco del tennis. Sappiamo che l’amore per quel gioco è ciò che ha permesso la riunione di quella compagnia intorno a quel piccolo e malandato campo, che del campo da tennis, a livello professionale, conserva ben poco, stando a quanto dicono i vari personaggi del romanzo. Quasi tutte quelle persone erano state cacciate dal circolo di tennis al quale erano iscritte (il circolo Eleonora d’Este di Ferrara). La cacciata era avvenuta dopo l’applicazione in Italia delle leggi razziali del 1938. Tuttavia, al di fuori della nozione puramente legata alla data, il romanzo non dice nient’altro di più. Vale a dire: non dice niente in quanto concerne l’amore oppure l’odio per ciò ciò che è capitato di avere a che fare con la terra.
Questo potrebbe anche essere un ottimo segno. Ma poi vediamo che abbiamo solo a che fare con un certo modo di regolare dei comportamenti relativi alla consuetudine di stare lì.
Se confrontiamo l’episodio che vede “i vecchi” comparire durante le partite che si svolgono nel giardino e l’episodio che vede il Narratore scacciato dalla Biblioteca perché ebreo, vediamo che la differenza non è molta, per quanto i due episodi siano di natura completamente diversi. Il fatto è che questa differenza si riduce a qualcosa come un accomodamento con nuovi principi imposti da un’autorità avvertita da sempre come qualcosa alla quale ci si deve presentare, si deve obbedire, ma sentita da sempre come qualcosa di estraneo. Qualcosa che non regola la terra, ma qualcosa verso cui, scorrendo la terra, bisogna avere a che fare, mantenendo il comportamento più equilibrato possibile.
La famiglia dei Finzi-Contini viene definita dal padre del Narratore come “gente strana”, da cui è meglio tenersi lontani (non in equilibrio, ma lontani). Gente, egli sostiene, che poteva persino arrivare a vedere di buon occhio le leggi razziali in cammino sulle vie che si stendono dentro le mura di Ferrara.
È questo che rivela un preciso atteggiamento verso la terra: che permette a ciò che non ha nemmeno un giardino di definire ciò che ha un grande giardino come “gente strana”. E la stranezza vale da tutte e due le parti: ricordare il punto il cui il Narratore nota la stranezza del professore Ermanno Finzi-Contini che chiede a lui, anziché ai propri figli, di occuparsi dei suoi scritti.
Si può dire, allora, che quello con cui il Narratore si trova a confrontarsi non è altro che l’impossibilità di stabilire un progetto, vale a dire un fine? La terra non offrirà un radicamento quanto uno sradicamento, il giardino non offrirà una visione completa, il rapporto con Micòl non offrirà uno sbocco. Ma è quanto permetterà al narratore lo sblocco, che avverrà appunto abboccando alle provvidenziali leggi razziali. Infatti nascondere la bicicletta nel sottosuolo è ciò che permetterà al Narratore del Giardino di mantenersi come un signore dell’equilibrio (cioè di mantenersi come il signore di quel mezzo a cui egli ha appena rinunciato). Nascondere la bicicletta nel sottosuolo non è solo nascondere ciò che gli ha permesso di restare in equilibrio fino a quel momento, ma è ciò che gli permetterà di sfruttare un nuovo equilibrio, che comporterà la rottura con i Finzi-Contini, con l’amico Malnate e infine con la città dentro le mura di Ferrara. Alla volta della “città aperta” di Roma.
Il rapporto del Narratore con quell’insieme – che può essere tanto Giardino quanto Donna – si basa su di un abuso di trattare la terra quanto di trattare la donna. L’abuso nei confronti della terra è ciò di cui egli, in quanto individuo, non è responsabile; l’abuso nei confronti della donna è ciò di cui egli, in quanto individuo, è responsabile. Da qui il suo resoconto autoaccusatorio. Che è il romanzo che noi leggiamo.
In questa fantasia il Narratore mette in atto un rapporto manchevole, basato su una vicinanza: nel suo sogno del sottosuolo egli rimarrà sempre vicino alle strade e alla gente di Ferrara, aiutato da una donna di Ferrara alla quale egli si potrà sempre appoggiare per soddisfare le sue più immediate esigenze. Ma questo non è quello che vuole il padre del Narratore, che invece spinge il figlio a scorrere la terra.
Forse il problema è proprio questo: che i due personaggi principali del romanzo, il Giardino e Micòl, non si integrano abbastanza per offrire una contrapposizione veramente lineare al Narratore (che del romanzo è l’indiscutibile protagonista).
Il Narratore in quanto figura unica deve vedersela con un elemento tripartito che a volte gli si presenta come Giardino, a volte come Donna. In un primo tempo il Narratore sarà chiamato ad affrontare il Giardino nella forma più semplice e completa: scavalcare il muro di cinta nel punto più facile, dove ci sono gli appigli, secondo le indicazioni fornitegli dalla figlia tredicenne dei proprietari; egli non si azzarda a passare, trova la scusa della bicicletta, che verrebbe lasciata incustodita; Micòl gli insegna allora dove nasconderla: in un rifugio sottoterra, che, quando egli vi accede, lo porta a fantasticare intorno ad una vita nascosta, lunga anni e anni, aiutato attivamente da Micòl.
Di questo cunicolo (wormhole) e di questa stanza sotterranea nel romanzo non si parlerà più (peccato, si potrebbe dire, ne sarebbe uscito l’ECO di qualcosa di qualche romanzo d’appendice!), eppure è quello che mette in moto la vicenda che si svolge in superficie: è la messa in moto del pensiero che prende il via dalla ruga di sottoterra.
Quello che si può dire di un personaggio non è qualcosa che possa scendere più di tanto nella profondità di un testo, ma qualcosa che possa gravitarvi intorno come campo di possibilità che possono sempre essere dette. Per leggere un testo, bisogna familiarizzarsi con qualcosa di simile a una tabella di possibilità ridotta a un minimo grado. È probabile che alla critica letteraria manchi, adesso, lo strumento pari a qualcosa come l’equivalente di una costante di Planck.
Dove determinare, allora, la differenza tra Giardino e personaggio? Il Giardino è ciò che non propone l’Interpretazione, che invece è ciò che caratterizza Micòl; il Narratore non dà voce al Giardino, mentre dà voce a ciò che Micòl gli ha detto sul modo che egli ha di comportarsi nei confronti di lei. Il Giardino accoglie solo nella sua ultima manifestazione, in quanto Giardino di notte (mentre Micòl non ha mai accolto, salvo permettere il giudizio di lei nel resoconto di lui attraverso le parole di lei) e questo permette una interpretazione da parte del Narratore, che ne ricaverà la possibile relazione tra Malnate e Micòl – ma niente invero di più. Il Narratore non potrà raccontare come la terra sia stata incisa per fissare i morti dei pochi Finzi-Contini da lui conosciuti (essendo state, quelle persone, deportate nei campi di sterminio nazisti – che miravano ad alleviare la terra, ma ciò che nel mondo è entrato di soppiatto, dall’ambiente deve uscire in malo modo), ma può riportare il modo in cui, nelle parole che Micòl gli ha rivolto, egli si strusciava addosso/appiccicato a lei in un modo a lei sempre inopportuno. È come se l’ammissione di non poter scavare una terra, anche solo per depositare dei morti, dovesse giustificarsi con la soddisfazione sostitutiva di uno strusciamento sopra quella terra. È infatti questo che il giardino offre al Narratore (per quanto nella doppia forma di Giardino e di Donna). Mentre il Giardino è, nei confronti del Narratore, il sostitutivo della terra, ciò che il giardino offre concretamente al Narratore è il sostitutivo della donna. Questo perché? In quel giardino non si può piantare niente, così come quella donna non accoglierà mai in sé, ma quel giardino potrà essere occasione di scorrimenti, così come – furtivamente – anche quella donna. Così questo porta alla questione di base: il falso rapporto dell’ebreo con la terra e il vero rapporto della terra con colui che abitava quella terra, che l’ebreo gli ha tolto. È questa la nascita del fantasma o del morto che ritorna a pieno diritto sulla terra. Il Narratore è qui quella cosa inconsistente che, impropriamente, esige da Micòl quella cosa che l’ebreo gli ha sempre tolto, cioè la terra.
Sappiamo che il protagonista, a un certo punto, alza i tacchi da Ferrara; mentre il padre del Narratore a un certo punto è obbligato a fare fagotto. Fare fagotto è chiudere da qualche parte (o valigia o fagotto) quello che si vuole portare via; alzare i tacchi è andare via senza avere il tempo di portare via niente. Alzare i tacchi è la libertà dell’autostoppista, che lo consegna alla strada. Sappiamo delle leggende metropolitane dell’autostoppista fantasma, del fantasma di Elvis che fa l’autostop; perché non pensare anche l’ebreo errante come autostoppista, appena fuori le mura di Ferrara? La bambina aveva posto una domanda su chi era nato prima (tra Etruschi ed Ebrei); il padre della bambina, per rispondere, indica il suo amico con il gesto che qualifica l’autostoppista. Colui che fa il gesto per essere trasportato è colui che viene identificato come personaggio che occupa invece un punto nel mezzo che lo trasporta, non come autostoppista, ma come amico nell’arco di una gita che prevede la possibilità di scorrere un segmento di quel terreno che essi occupano, ma non abitano. Quella persona era tanto l’autostoppista accolto, che la bambina ha permesso di riconoscere, quanto l’amico che faceva parte di quella gita, grazie a una sovrapposizione, cioè al semplice gesto col pollice del padre e alla nozione di decoerenza.
Tanto la terra che compone quel giardino, quanto la donna, che ha funzione di signora di quel giardino, sono spogliati, nel romanzo di cui si sta trattando, della propria caratteristica: essere qualcosa di sacro. Tanto quel giardino, quanto quella donna, permettono di essere bellamente inseriti in un romanzo a partire da una spogliazione che riguarda il sacro. Ma che cosa vediamo, quando ci innamoriamo?
Che cosa è l’amore? per il Narratore è la vicinanza opportuna che c’è sempre stata fra loro due (Narratore e Micòl), che deve essere sancita, ad un certo punto, formalmente; per Micòl l’amore è invece ciò che squarcia la vicinanza importuna che, per un caso o per l’altro, fra loro due c’è sempre stata, ma che ad un certo punto, in caso di vero amore, dovrebbe essere interrotta, affinché uno possa sbranare l’altro. Il Narratore chiama una visione ridotta dell’amore (un uomo nascosto sottoterra, una donna che gli assicura una vita tranquilla da fantasma sulla superficie), ma Micòl chiama la visione a quel punto estrema dell’amore: le leggi razziali, dove una parte può legittimamente sbranare l’altra, in nome della terra dove abitare. Terra che comunque ella non ha mai posseduto. Ma è per questo che il padre del Narratore, lungo tutto il romanzo, fa sempre notare al figlio che i Finzi-Contini hanno tutto da guadagnare dalle leggi razziali. Il padre del Narratore ha infatti guardato con apprensione il probabile amore tra il figlio e Micòl: concedersi a Micòl non vuole dire permettersi di vivere nascosto sottoterra protetto da Micòl, ma scatenare in pieno le leggi razziali, con tutte le estreme conseguenze. C’è forse qualcosa, in questo romanzo, che possa essere collegato, o anche soltanto ricordare, l’amore per la terra e l’amore per la donna? Pensando allora l’amore come qualcosa che collega la terra e la donna? Io penso proprio di no.
Non può esserci amore se non attraverso la Terra del Sacro. Ma come parlare di amore in questo romanzo che, intitolato ad un “giardino”, non può nemmeno stabilire che cosa sia, in fondo, un giardino?
La donna è una cosa. Ma è la cosa che solo la parola dell’antico islandese þing può restituire in quanto riunione di tante cose, assemblea, cioè itinerario in terre che non avremmo pensato di conoscere, prima dell’incontro con quella “cosa” che ha riunito tante cose diverse davanti a noi, donando loro l’autentico significato nuovo. Il dono dell’amore è il dono che fa a pezzi colui che non conosce il significato della parola þing. È questo che dice l’Interpretazione di Micòl. Micòl Finzi-Contini, in quanto donna mai esistita, è una cosa che ha in sé il significato di questa riunione di tante cose. Che pure è il dono dell’amore. Il Narratore è colui che non conosce il significato della parola þing, e quindi sbaglia tutto nel suo incontro con Micòl. Può ricevere amore (avvertendo egli il significato della parola þing), ma non dare amore (non conoscendo egli il significato pieno di quella parola). Il personaggio Micòl, in quanto datrice di amore e realizzazione della parola þing, avrebbe dovuto confrontarsi con un personaggio in grado di riconoscere il significato di quella parola. Il Narratore non poteva corrispondere; il professore Ermanno Finzi-Contini è colui che meno sa del significato della parola þing. Si rivolge al Narratore, che, per un caso o per l’altro, secondo lui, potrebbe anche saperne, a quel punto, più di lui (per questo gli propone di occuparsi dei suoi scritti). Gli scritti del professore Ermanno riguardano allora l’avvicinamento al concetto di donna in quanto “riunione”. Ma che cosa sa il Narratore su cosa si nasconde nella parola norrena che sta per la parola italiana “cosa”? Noi non lo sappiamo, ma sappiamo che egli sceglie di fuggire quando la donna glielo spiega, senza ricorrere al significato lontano, che probabilmente ella stessa non conosce; da questa lezione il Narratore non ha imparato niente e quando scrive intorno a quella cosa che lo ha fatto fuggire, non dice altro che ciò che ha imparato dalla sua lingua: “una cosa è una cosa”. Salvo riportare precisamente le parole che la cosa (cioè la cosa in quanto riunione di cose, vale a dire la donna) aveva rivolto a lui, con precisa ferocia.
Ma se giardino e donna trovassero invece una loro propria icona? Allora sarebbe proprio una più che falsa icona.
Il film realizzato dal romanzo nel 1971 da Vittorio De Sica, mostra proprio come, tagliando il Prologo, si possa dare sgambetto pieno all’andatura zoppa caratteristica di questo romanzo. (Ma sappiamo che lo sgambetto allo zoppo non gli fa mai perdere il passo, semmai il contrario!)
Nel film il Prologo viene tagliato; mentre viene sceneggiato in un modo completamente nuovo l’Epilogo, che nel romanzo è presente solo a livello indiretto. Il risultato è che tutto quello che c’è in mezzo, cioè gran parte del materiale del romanzo, funziona solo in quanto serie di link per lo spettatore che ha leggiucchiato il romanzo, o che magari lo ha letto. Così il film può utilizzare stralci di dialoghi decontestualizzati, valevoli solo per colui che ha leggiucchiato il romanzo, o forse lo ha letto, mentre il risultato è che viene perduto il significato che quei dialoghi avevano nel romanzo, vale a dire la funzione che le parole fissate in quei dialoghi svolgevano – così come, parlando a livello di Gestalt, un do naturale suona sempre allo stesso modo di qualunque do naturale, ma suona in un modo diverso se il do naturale ha funzione di tonica oppure di dominante.
Il film comincia con la compagnia che si riunisce per terminare il torneo di tennis bloccato a causa dell’applicazione delle leggi razziali in Italia: il romanzo comincia con il ricordo del Narratore che vuole realizzare una vicinanza tra vivi e morti, non permessa in quel caso come con la visita ad un cimitero, perché i Finzi-Contini, almeno quelli che egli ha conosciuto, non hanno una sepoltura in un cimitero. L’inizio del film riprende materiale dei primi due capitoli della seconda parte del romanzo. Quindi è legittima la domanda: qual è la storia che viene raccontata nel film e qual è la storia che viene raccontata nel romanzo da cui quel film è stato tratto o sottratto? Domanda che pone la legittimità della domanda di fondo: come si determina la storia in quanto racconto unico da modulare – vuoi in forma di romanzo, vuoi in forma di film – cioè in forma di storia unica?
Nel film la mancanza della “terra” iniziale si ripresenta come presenza di un ipotetico luogo ultimo di un andare insieme, padre del Narratore e Micòl, come luogo di raccolta di ciò che non ha mai avuto “terra”, ma che ha tolto terra a chi, legittimamente, la possedeva, permettendo al nuovo narratore (nel film chiamato “Giorgio”), di raggiungere un ambiente dove organizzare il testo del romanzo Il giardino dei Finzi-Contini – che sarà un nuovo ambiente ma non una terra, e infine il soggetto di quel film (e quindi niente di più che una menzogna sulla terra).
Violando per la prima volta, di notte, il giardino dei Finzi-Contini, di colpo, così come di colpo, nel Prologo, si rende possibile la visita alla necropoli di Cerveteri, scavalcando il muro, il Narratore ha reso possibile la vicinanza non tra tutte le possibili forme del mondo, ma fra tutte le possibili frasi del mondo (compresa la frase che stabilisce che il suo amico intrattenesse, da tempo, una relazione con Micòl, e che sfruttasse le particolarità di quel giardino per incontrarsi regolarmente, segretamente, con lei, magari con la tacita approvazione della famiglia di lei, essendo sempre stati, i Finzi-Contini, secondo le parole del padre, “gente strana”), dal canto suo, Micòl aveva rivelato solo al Narratore il punto in cui scavalcare il muro, perché era il punto che ella lo aveva così organizzato come punto per passare da una parte all’altra. Ma la violazione del muro (avvalendosi di quella parete attrezzata) è anche ciò che ha permesso in fondo al Narratore di prendere la decisione di allontanarsi stabilmente da Ferrara, ottenendo l’opportunità di scrivere infine quella storia che ha contribuito a confermarlo come autore, ma che non instaura, nemmeno questa volta, cioè a livello di romanzo da lui scritto, un rapporto con la terra. Semmai il contrario.
Visto che si è accennato al film, bisogna dire che, nel film, il personaggio meglio rappresentato è quello che se ne fa un baffo di tutta la situazione messa in campo dal romanzo: Romolo Valli, nella parte del padre del Narratore, nel film chiamato Giorgio, come l’autore del romanzo.
La vergogna che si prova nel dover interpretare sciocchi modi di dire dell’alingua italiana, come “andare a donne”, è niente in confronto alla vergogna che si prova ad avere, comunque, sempre a che fare quando si ha a che fare con quell’ingombrante ammasso di stupidità che è la lingua italiana, quando la si vede sempre comparire in piena vita da tutte le parti; vergogna che può essere compensata dal piacere e dalla speranza di contribuire a fare sparire, finalmente una volta per tutte dal mondo, quella brutta cosa che è l’alingua italiana (che coincide con la lingua italiana, cioè con l’alingua degli italiani, perché la prima cosa chiama sempre la seconda cosa) e contestualmente fare sparire dal mondo quell’ammasso di gente diverse che si è trovata a non poter fare altro che fare suo quell’ammasso di parole diverse per rosicchiare quel posticiattolo in quel terreno.
Paolo Sorrentino, La grande bellezza
Manifesto di malafede, quanto malafede che è appunto fede in un paese che non ha perso ancora la buonafede in ciò che è la forza di una malafede, come infatti sempre risulta evidente lungo tutto il film, La grande bellezza pone invece stravaganti e più che evidenti domande interessanti, dove, questioni a parte, si assiste a uno sdoppiamento a poco a poco prevedibile: i dialoghi sono costruiti attraverso un chiacchiericcio e un richiamo a frasi sfatte, ma sempre a un chiacchiericcio che non porta mai a dire niente, mentre le immagini sono raffinate ed esaltano la pretesa bellezza dei luoghi (poiché questa “pretesa” bellezza è proprio ciò su cui non si deve mai discutere, così come il “chiacchiericcio” può essere relegato a semplice chiacchiera) dove le vicende si svolgono. Fra i due livelli non c’è nessun rapporto, cioè nessun punto contro ad un altro punto, vale a dire un contrappunto. Che è invece il contrappunto su cui il film dovrebbe fare forza: la punta della parola, magari spuntata, contro la punta dell’immagine. Se manca il senso dell’abitare (non solo dell’abitare una casa, ma prima di tutto abitare una terra) allora è solo il chiacchiericcio che può manifestarsi – in quanto parodia della lingua, là dove coloro che parlano sono parodia di esseri umani, in quanto parodia di coloro che hanno in consegna l’arte del dire al massimo grado, cioè la lingua.
Chi guarda questo film sa che guarda un film che s’intitola La grande bellezza. Quindi, guardando questo film, egli va alla ricerca, anche senza volerlo fare, di una “grande bellezza”, che il titolo gli ha appena promesso. Così qui casca l’asino del modo di dire, quanto in uno stesso soffio scompare l’alta giraffa che si vede elegante alle Terme di Caracalla, a un certo punto strategico (di questo film): dove si nasconde il trucco della “grande bellezza”, che pure il titolo promette a tondo tutto? Non certo nel protagonista maschile; tanto meno nelle attrici che gli fanno corona, insistentemente presentate in un modo che ne nasconde il fascino, tanto meno, ancora, nelle battute che i personaggi pronunciano lungo tutto il film e che si lanciano l’un l’altro come coltelli in un gioco di gratuita cistercense abilità attorno a una sagoma di sangue blu esibito. Allora si torna a chiedere: dove trovare la “grande bellezza” – visto che di una “grande bellezza” deve pure, in un modo o nell’altro, infine trattarsi?
Ma siamo sicuri che, per affrontare questo tema, si debba rimanere al livello del semplice individuo – vale a dire ostinarsi a raccontare una storia di individui? (Ma che cosa vuole dire, questo, poi?)
Sappiamo di un altro livello di malafede: gli accenni al vuoto come mancanza di opera oppure dello strano rapporto che potrebbe legare l’opera e la sua mancanza. È il tema intravisto da Foucault e Derrida in Antonin Artaud. Infatti questo tema si collega al rapporto che si instaura fra lingua e parola. Ricordare che il film inizia con una citazione tratta dal romanzo Viaggio al termine della notte di Céline (relativo al viaggio immaginario, cioè al viaggio che, concretamente, non è un viaggio) e che, a un certo punto, viene ricordato il desiderio di Flaubert di scrivere un romanzo sul niente. Al niente evidenziato nel film dalla chiacchiera, anziché da una pienezza di senso con cui fare i conti, il film contrappone lo scenario, lo sfondo, suggerendo l’idea che, con tanta bellezza apparecchiata tutt’intorno ai personaggi di quel film, la mancanza di opera sia quasi necessaria, perdendo così l’opera parte della sua franca indispensabilità – per quanto proprio qui potrebbe consistere la malafede al completo? Un nulla deve comunque appoggiarsi a qualche cosa, anche se solo intravisto nella sostanza di un ectoplasma, no?
Dove trovare, quindi, la grande bellezza? Sembra in ciò che i personaggi non dicono, non mostrano, non posseggono, ma che, inevitabilmente, ruota fissamente loro attorno come in una scenografia ronconiana, su rotaie, perché essi vi alludono con l’atteggiamento, col modo di parlare, con il chiacchiericcio che sempre non si stancano di cambiarsi; vale a dire: con la tecnica del bluff che essi mettono in opera lungo tutto l’impiccio di questo film, non vi pare?
Nello spazio di questo film è sempre presente la grande città per eccellenza (Erre-O-Emme-A). Non c’è mai la natura (infatti R-o-m-a non è niente di conforme ad un qualcosa come la natura, ma è ciò che proprio snatura la natura, il palazzo di marmo che tira un frego sulla natura, cioè proprio ciò che è sorto per negare la natura – di qualunque natura si tratti da ogni parte. Giustamente, poiché questo è lo spazio su cui si è insediata da ultimo la maledetta Italia – butta cosa con la quale, nei tempi di contagio è indispensabile convivere.) Lo spazio è città, la bellezza è solo bellezza urbana. Però le persone non sono “urbane”, poiché, come si vede dall’inizio alla fine del film, queste persone si detestano (o, nel migliore dei casi, si disprezzano) l’un l’altra. Però l’Italia vive solo nella metastasi della proliferazione delle grandi città nel terreno in cui essa ha avuto modo di stendersi. Lo stare insieme, frequentarsi in quello scenario monumentale, non dice niente ai personaggi di quel film, perché non spinge a nessuna vicinanza. Giustamente, si è già detto, ed è il caso di ripeterlo! C’è semmai la pretesa di avocare a sé – questo spazio tosto – come succedaneo di un’opera che – non si può escludere – qualcuno possa sentirsi a essere poi chiamato a comporre (ma gli venisse un cancro). Da un certo punto di vista, l’invasione della chiacchiera non ha mai fine, né può legarsi alla fine del pensiero – e su questo dubbio alcuno non si pone (poiché non c’è il cammino del gambero).
Dimenticavo: ad essere precisi, il titolo avrebbe dovuto suonare come “La grande mancanza”; quello che infatti il film presenta è una mancanza; c’è uno scenario ma non ci sono le persone che abitano quello scenario. Tutto è solo apparenza, come il tranquillo vicino di casa che si scopre essere poi il latitante Giulio Moneta.
Vediamo le persone che occupano quello spazio.
Il problema è: perché un personaggio come Jep Gambardella è perfettamente credibile come protagonista di un film il cui titolo promette “la grande bellezza”? Su che cosa fonda la sua autorità, il protagonista Jep Gambardella? Sul romanzo intitolato “L’apparato umano”, che egli ha scritto e pubblicato negli anni Ottanta, con grande successo di critica.
Proviamo ad affrontare questo titolo, titolo di un romanzo, che non è mai stato pubblicato (come viene precisato nei titoli di coda del film), per comprendere il titolo del film che invece è ben visibile, a chi sceglie di vedere quel film. Per “apparato” possiamo intendere un “ornamento”, un “paramento”, anche uno sfoggio, una pompa, e poi anche un apparecchio o un insieme di apparecchi, di macchine, di congegni che, in un determinato impianto, servono ad un determinato scopo. Possiamo intendere qualcosa che viene sfoggiato, messo in scena, offerto allo sguardo di un pubblico, presentato come uno spettacolo. Ma allora di che tipo di spettacolo si tratta? Sappiamo che, in quanto “apparato scenico”, esso è di tipo “umano”, poiché il titolo completo suona appunto: “L’apparato umano”. Come indicare, allora, un apparato (scenico) che non sia umano (e che richieda un romanzo che non verta più sull’apparato scenico, bensì su l’apparato umano? Se per “apparato scenico umano” intendiamo una commedia umana, è ovvio che per “apparato scenico non umano” dobbiamo intendere una “commedia più che umana”, cioè una commedia un tantino soprannaturale, divina. Lo statuto di Jep Gambardella, in quanto protagonista del film La grande bellezza, è allora quello di colui che garantisce il passaggio attraverso mondi affatto diversi fra di loro. E questo comporta la domanda: dove vedere i mondi diversi nel film La grande bellezza, che sembra svolgersi invece in un’area molto ben circoscritta e più che datata?
Sembra di capire che è un apparato che richiede una messa in scena. Questo sembra da ricavare, considerando il romanzo “L’apparato umano”. Ma dove trovare il luogo della messa in scena? Il grande palazzo rinascimentale è stato il luogo di nascita del teatro d’opera. Sappiamo che Jep Gambardella non ha più scritto un romanzo, eppure lo vediamo condurre una vita agiata in grandi palazzi. Che cosa vuole dire? Il romanzo scritto da Jep Gambardella richiedeva una messa in scena che si svolgeva nei palazzi rinascimentali di cui è piena Roma, e nei quali lo vediamo muoversi, dirigersi, sostare per caso. Ma il palazzo in cui avviene la messa in scena è un palazzo che non ha niente con il teatro Esterháza, perché non si apre sulla natura, ma sul centro di Roma, come vediamo più volte. Quello che noi vediamo in questo film è la messa in scena che quel romanzo richiedeva.
Al di fuori di questo il film presenta la morte di tre personaggi, che si collegano, rispettivamente, alla morte di Elisa, un amore giovanile di Jep, di Andrea, il figlio “problematico” di Viola, che si suicida, e di Ramona, che muore di morte naturale e prematura. La morte del primo dei tre personaggi è nascosta e vissuta con un senso di intima vergogna e sofferenza. Il luogo dove questa morte viene annunciata è il pianerottolo dove si trova l’appartamento di Jep Gambardella; la morte del secondo personaggio è affrontata nel modo più convenzionale possibile (scelta dell’abito per l’occasione, delle parole da pronunciare e del modo in cui pronunciarle); la morte del terzo personaggio è invece la più ellittica dal punto di vista scenico, anche se coinvolge di più il protagonista, ma non più di tanto, poiché, come il primo, non sembra rientrare in uno schema preordinato (è la morte come è la morte in quanto ospite tra tutti più inquietante che bussa quando meno la si aspetta). Più si va avanti in queste morti, più la morte sembra scendere però di importanza, come se i personaggi di volta in volta incontrati meritassero sempre meno importanza.
La morte è ciò che permette alle parole di passare dal livello di chiacchiericcio a quello di verità (senza tuttavia mai giungere all’uso della lingua, cosa che richiederebbe la presenza di un popolo su una terra, cioè di una razza, cioè di quella cosa che mai gli italiani hanno raggiunto), quindi la morte sarebbe ciò che permetterebbe di passare da un livello di chiacchiericcio ad un livello di verità. Andrea, il figlio “problematico” di Viola, dice la verità sulla sua situazione, cioè di sentirsi oggettivamente vicino alla morte, così come fa Ramona quando, improvvisamente e qualche tempo dopo rispetto a quando la domanda le era stata posta da Jep, in tutt’altro luogo, risponde: “Spendo tutti i miei soldi per curarmi”, e altrettanto avviene durante lo scambio di battute tra Jep e Alfredo, il marito di Elisa, la ragazza amata da Jep in gioventù. La morte come conclusione di una vita falsa, giustamente spesa nel chiacchiericcio (quindi una vera vita spesa nella dimensione ad essa adeguata) è l’analogo di un gruppo di persone che non sono un popolo e che occupano uno spazio, non una terra, ma un terreno, un giardino, un parco tenuto da giardinieri con tanto di nani da giardino. Che è il massimo che il popolo che intravede “la grande bellezza” possa aspirare per poi – si spera – finalmente spirare.
Viceversa, Jep sfrutta il tema della morte per svelare la verità sulle parole di quell’arte di scrivere, che egli stesso sembra sornionamente voler adocchiare di nuovo: le parole degli scrittori non vanno mai prese sul serio, dice ad Andrea, che gli ricordava l’insistenza della morte vicina in Proust e in Turgenev, e chiunque scriva, anche soltanto un diario, automaticamente crea uno scenario che sottraggono le parole da lui usate al confronto con la verità, dice ad Alfredo, dopo che questi gli aveva appena fatto sapere che Elisa parlava sempre di lui nel suo diario come dell’unico vero amore della sua vita.
Rispondendo ad Andrea e ad Alfredo, Jep non parla su ciò che si potrebbe definire “letteratura come menzogna”, cioè il carattere autoreferenziale della letteratura, che non richiede prova di verità o messa in pratica, bensì annullamento di qualsiasi verità da parte di una lingua, cioè della sua risoluzione a livello di battuta di spirito, gioco di parole, barzelletta. La prova ne è il fatto che egli non risponde a Ramona.
Il rapporto d’amicizia tra Jep e Romano (nome che è quasi anagramma di Ramona), gli argomenti che continuamente essi sfiorano, anche se non si calano ad acchiappare, permette di porre la domanda di sempre: perché la letteratura italiana suona così sempre falsa? Nel Deep Web è noto come l’emblema della letteratura italiana sia l’ornitorinco. Bozzetti, si dice, mai un’epica. Perché le cose di cui tratta sono sempre cose che non hanno nulla del simbolo, cioè della cosa in quanto riunione di più cose. È questo che porta l’esplosione di parola e lingua. Forse l’unica figura discordante nella maledetta letteratura italiana, ma ad essa pienamente rientrante, poiché inglobata nella figura del simbolo, è allora quella di Carmelo Bene.
Ponendosi la domanda “che cosa è una cosa?”, due sono le risposte: una cosa è la cosa che quella cosa è (risposta della letteratura italiana); una cosa è un insieme di cose che, in quanto appartenente alla lingua di un popolo, solo la lingua può tenere insieme in quanto cosa (risposta di quanto è estraneo alla letteratura italiana). Per questo pensare alla differenza tra la parola italiana “cosa” e la parola dell’antico nordico “þing”, che indica la cosa in un modo molto più complesso nel significato.
Questa incrinatura è qualcosa su cui tutta la cultura moderna è portata a ribattere. La grande bellezza mostra l’incrinatura tra popolo, lingua, ambiente in due momenti particolari: all’inizio del film, quando, in una atmosfera grandiosa e attentamente costruita, all’improvviso l’autista di un pullman turistico scende dalla vettura parlando al telefono e pronunciando la battuta: “… m’hai veramente rotto il cazzo, eh!”; la seconda è quando Jep, di ritorno a casa all’alba, dopo aver abbandonato la casa di Orietta, pensando compiaciuto alla sua carriera di intellettuale mondano, rasentando il fiume, incrociando tre persone qualunque che corrono e parlano, si sente uno di loro che afferma: “… Antonini m’ha rotto veramente il cazzo.” Così l’incrinatura, la crepa sottile che il film presenta è proprio l’impercettibile rottura che c’è sempre stata fra persone e ambiente in quello spazio di muffa e fuffa, che ha permesso la formazione del complesso di cose che viene venduto come “grande bellezza”. Questa non è ironia, sono le vere parole, che di solito non si avvertono perché hanno funzione intercalare, che vengono restituite al loro pieno significato, pronunciate da quelle persone che, da sempre non hanno mai abitato una terra, ma hanno occupato un terreno e fatte pienamente suonare. (Questo rendere vere delle frasi che nascono come un semplice intercalare, su cui non dovrebbe esserci niente da riflettere, si contrappone esattamente alle immagini, che dovrebbero esaltare la pretesa bellezza dei luoghi, più che manifestare l’effettiva bellezza di questi luoghi.)
Se è vero che il film si ricollega a un’immagine grandiosa di Roma, anche solo mondana come quella della Dolce vita, è vero che si inserisce in una tematica che comprende la lingua e la parola, la terra che un popolo abita oppure più modestamente occupa e il paesaggio che lo costituisce, gli dei cui questo popolo ha posto come termini a cui rivolgersi.
Quanto a opere, ce ne saranno sempre di meno.
A ben guardare questi morti non sono gli unici morti di cui il film parli. Tutti coloro che hanno costruito quella città e addobbato quegli scorci, dove i personaggi con cui abbiamo a che fare si muovono e hanno permesso la realizzazione di quel film, sono adesso morti, sono morti quando il film è stato girato e sono morti quando il racconto del film viene presentato. Eppure questi morti vengono ancora richiamati come comparse non visibili nel film, più o meno come i vecchi nobili decaduti Colonna di Reggio, che possono essere noleggiati tramite un modesto cachet a persona più spese di rappresentanza. Qual è il rapporto di questi vivi con quei morti? Un rapporto che non può che essere all’insegna dell’indifferenza, della chiacchiera, dello sfottò, della derisione, del fastidio, della sopportazione, della sorpresa, dello scrollarsi di torno, del far finta di niente, di fingere di non sapere, di tirare a campare, di toccarsi in segno scaramantico, di punzecchiare, di farsi vedere, di non dare importanza, di ignorarsi civilmente, fino ad un certo punto, nonostante qualche sfuriata imbarazzante per tutti (come la sceneggiata di Jep nei confronti di Stefania, quando il vecchio maschio mediterraneo viene sfidato dalla nuova donna mediterranea “con le palle”). Tali vivi, tali morti = tali morti, tali tombe. Tombe che è meglio lasciare non visitate. È un rapporto che non è basato su niente, o meglio che è basato sul niente su cui quel paese è stato composto insieme da tante cose diverse e attraverso il niente su cui esso riesce a vivere e a prosperare e a convincere sempre di essere al mondo come insegna di una “grande bellezza” (ma infatti è proprio quello che è – cioè un grande bluff). Così quel nulla è ciò che il protagonista sembra avvertire, ma quel nulla non è il nulla che dà forma all’anello notato dalla Clarisse di Musil o che permette, ancora prima, la forma della ruota con i suoi raggi che partono dal centro per richiamare il niente da cui quei raggi pure mirabilmente hanno la loro composizione. La “letteratura” di quel “paese” è stata segnata fin dall’inizio dal fastidio che ciascuno avvertiva per il vicino che, per caso, si trovava ad avere accanto come vicino sullo stesso tratto di terreno, da qui il bisogno di sfotterlo, ingannarlo, tenerlo a distanza, guardarlo da dall’alto in basso più che poteva. E il bisogno di ricavarci almeno una macchietta, tanto per sbarcare il lunario (cioè pagare le bollette con la sua attività di scrittore). Questa caratteristica può essere rivenduta in molti modi (novella italiana medioevale, novella italiana rinascimentale, cinepanettone, romanzo a sfondo sociale, film impegnato, docufilm, sketch, fiction), ma si basa sempre sullo stesso tema: la mancanza di coesione tra quanti occupano lo spazio che viene indicato come ciò che costituisce quello stesso paese, che tutti riconoscono – ma che per l’appunto non è un paese.
Jep stesso, in quell’occasione, definisce il suo romanzo un “romanzetto”, ma la stessa Italia non solo è un romanzetto popolar-pecoreccio, ma non è mai stata terra del romanzo. I romanzi possono essere in Italia funghetti, cosette e romanzetti che (zac!) compaiono di colpo dove meno te li aspetti, proprio come funghi e funghetti, e che (zac!) di colpo vengono spicciati dalla critica che li spaccia per tartufi di gran pregio.
Ma l’Italia {meglio così} non avrà mai una carta nell’atlante del romanzo. Il vero scrittore odia la lingua che per caso si trova a dover usare, vuole violentarla, vi avverte qualcosa di estraneo dal quale difendersi con tutta la sua piccola attività nascosta di scrittore.
A proposito di Stefania: come viene costruito, il personaggio Stefania? Si intende: il personaggio Stefania, che ha il suo posto nel film La grande bellezza, viene creato come personaggio a partire da personaggi del tutto simili (di scrittori o di scrittrici) che hanno a che fare col mondo della letteratura della maledetta Italia, dei suoi maledetti partiti, della sua maledetta malagente, della sua maledetta malavita, che occupano il maledetto terreno su cui è allignata la maledetta Italia e che quindi possono entrare a far parte del film La grande bellezza, o in qualche altro modo? ma come può essere decostruito il personaggio Stefania de La grande bellezza?
Sacrale e monumentale, l’inizio del film presenta la morte casuale di un turista giapponese. Un attimo prima di morire, questo turista giapponese scattava fotografie con la sua fotocamera. La marca della fotocamera è stata accuratamente offuscata dalla produzione del film, per cui noi non sapremo mai quale fotocamera egli usasse in quel momento, ma sappiamo che, in quel gruppo turistico, “è morto un tale”. Nella sceneggiatura del film pubblicata da Skira la guida turistica pronunciava infatti la battuta: “Ahò, qua m’è morto l’asiatico!” E poi più oltre non si va.
Insistiamo su Stefania: il personaggio “Stefania” si presenta come possibile decostruzione della “donna con le palle”. Giustamente questa decostruzione non viene mostrata come spogliazione del personaggio, vale a dire come spogliazione di quello che dovrebbe costituire il rivestimento che fa del personaggio Stefania il tratto di riconoscimento della “donna con le palle”, quanto un suo utilizzo in un contesto che ne rivela il nuovo funzionamento, a livello di incrinatura (non per niente in una scena molto vicina a quella della sua umiliazione, vediamo Stefania nuda nuotare nella sua piscina di casa). Tutto infatti è legato alla lingua italiana, e tutto gira intorno al fatto che la lingua italiana, senza bisogno di alcuna spogliazione, non è niente altro che una lingua del cazzo – e che cazzo si può fare con una lingua del cazzo? riconoscere la natura di lingua del cazzo della lingua italiana.
Così la vera domanda è: dove trovare le persone che possono condurre a un personaggio? cioè le persone che, a un certo punto, si possono sentire mancare per davvero?
La chiacchiera può rimandare alla sacralità del linguaggio solo se il movimento avviene all’interno di un individuo che appartiene ad un popolo (e quindi all’interno di quel popolo cui pertiene la sacralità del linguaggio), perché in quel caso il popolo è richiamato alla vera funzione della lingua, che lo strapotere della parola aveva cancellato o posto solo in ombra; in assenza di un popolo, la chiacchiera non può che ripiegarsi su se stessa come mancanza della sacralità del linguaggio, avvertendo così che nessun popolo ha mai abitato spazi e che le chiacchiere, che vengono presentate come chiacchiere al fine di oltrepassare lo spazio delle chiacchiere, sono ciò che ha permesso a quegli spazi di prendere forma, perché un gruppo di persone, che non possono mai costituire un popolo, non abita la terra, ma occupa soltanto un qualche spazio, un terreno, più o meno come fa una pietra in un ambiente delimitato, preso per caso in considerazione – per una ragione o per l’altra. Pietra che può poi sempre essere rimossa, e si spera venga infine rimossa al più presto.
In realtà questo film si basa sulla perfetta concordanza tra chiacchiericcio e architettura come chat col passato, ma in realtà come chiacchiericcio del passato, al fine di realizzare un perfetto chat-contrappunto consonante tramite una cafoneria geometricamente esibita nella messa in scena. Cafoneria, chiacchiericcio non costituiscono dissonanza con le vestigia del passato, perché sono in estrema consonanza fra di loro. E quello che ne viene fuori è l’accordo perfetto, l’accordo di tonica con cui il film si apre e con cui il film si chiude in una perfetta circolarità.
Quel paese non ha mai posseduto quell’architettura, così come quella gente che vediamo agitarsi nel film non ha mai posseduto altro modo di esprimersi di ciò che sentiamo essere usato lungo tutto il film, perché non vi sono rovine, se per rovine intendiamo quello che del passato rimane per richiamare un’altra volta alla lotta un tempo interrotta per un colpo.
Le vere rovine, intendiamo le rovine attive, devono essere pensate già come rovine al momento della costruzione di quegli edifici, pensate come rovine molto tempo prima che una distruzione qualunque possa relegare quanto in quel momento in costruzione al rango di rovine, perché solo così, come rovine attive, diciamo come rovine parlanti, potranno spingere a riprendere la lotta che si era solo ad un certo punto interrotta. Ma ciò di cui possono parlare le rovine è solo la lingua, che sarà la lingua come tesoro della razza e mai le parole come tesoretto di un individuo.
Forse, quello che un artista può fare a questo punto del tempo, raggiunto in questo punto di uno spazio, può essere racchiuso nel disprezzo verso il proprio paese; ad altri spetterà il compito di portare avanti il disprezzo con più distruttivo esito.
Vediamo che in questo modo l’umanità è sentita in quanto ciò che fruscia: fruscio di ciò che appare, appare e scompare, sempre per caso, sempre con una sorpresa, e per lo più ci sta sempre intorno, appunto, come un leggero fastidio, fastidio di un leggero fruscio di ciò che con arroganza appare e scompare. Verso questo fruscio si ha lo sguardo freddo, distaccato, disincantato che ha Jep Gambardella lungo tutto il freddo film, che offende appena, ma non allontana.
Il vicino di casa (David Byrne paparazzato qui nel 2013 sul pianerottolo, sull’ascensore, in una scena che sa di abduction una prima volta, e sul balcone due volte con i capelli disargentati come sarebbe stato nel 2018) che dice sempre la stessa cosa che diceva negli anni Ottanta: “Siamo su una strada che non porta da nessuna parte.” Infatti il vicino di casa è la testa che Jep non riesce mai a far suonare in quanto zucca parlante, ma che solo giunge ad avere a che fare come zucca vuota (che è quello che succede quasi sempre con tutti i vicini di casa, ora che abitare è solo “abitare in verticale”). Parlerà solo una volta, il vicino di casa che somiglia così, stranamente, tanto a David Byrne, ma solo per dire cose qualunque, che tutti possono dire in un momento prima o poi, e che tra il chiacchiericcio di quel film non stupiscono affatto: “Sono io che faccio funzionare questo paese!” Che è quello che Jep diceva senza mai ricorrere all’arte dell’aver detto all’epoca della pubblicazione del suo romanzetto, né del dire all’epoca dell’apice della sua carriera mondana in cui il film lo rappresenta. Ricorrendo cioè, Jep, all’arte del bluff, che è l’arte cui qui ricorre tutto questo sacrosanto film, no? Poiché tutto il film è l’animazione della carcassa di quel dato Jep. Che a sua volta ha fatto funzionare la carcassa del film, cioè di quel dato film che lo ha visto infine carcassa protagonista di questa “Grande bellezza”. Ma dove vedere ciò su cui Jep fa forza? È qui che la domanda si piega, ma non si spiega: che cosa è, infatti, infine, il meticcio italiano (complementare contrapposizione mediterranea alla “donna con le palle”?) La domanda si piega sulla lingua italiana nello stesso tempo in cui non si spiega attraverso di essa, cioè in quanto domanda su quella cosa autenticamente italiana, quanto disgustosa, che è l’alingua italiana, cioè l’alingua degli italiani, che è ciò che comprende entrambe le due cose stramaledette. Il vicino di casa è David Byrne con i capelli disargentati, che dice sempre la stessa cosa che diceva negli anni Ottanta, anno di pubblicazione del romanzo “L’apparato umano” del meticcio italiano Jep Gambardella, qui così straordinariamente appena recensito (infatti questa che qui si legge non è una recensione del film La grande bellezza di Paolo Sorrentino, ma una recensione del romanzo “L’apparato umano” di Jep Gambardella, così come il film La grande bellezza sembra lasciare immaginare che sia stato, recensione che deve comunque lasciarsi profilarsi come un’autentica recensione del niente): “Siamo su una strada che non porta da nessuna parte”, essendo l’apparato umano ciò che viene spacciato come divina commedia, in un popolo che non ha una lingua (ma che ha un’alingua), non ha un popolo (ma che ha un’arte agguerrita del bluff in una serie di ceffi, di tipi, di macchiette, di freak, e sa sempre metterli in scena con orgoglio di parte) per fregare tutti quanti – non siete d’accordo?
Il nuovo romanzo, che Jep annuncia alla fine del film di volere scrivere, sarà infatti la realizzazione del romanzo sul niente, che Flaubert voleva scrivere (e che da allora in poi pende su tutti gli scrittori, come il libro di Mallarmé), ma che in questo caso sarà un’epicizzazione (ma non un’epica) della cafoneria e del chiacchiericcio, ottenuta attraverso l’adattamento alla sola rete di parole del contrappunto che il film realizzava tra immagini e chiacchiericcio. E a questo punto sarebbe eliminata la malafede, col risultato che, se la malafede è la scappatoia concessa al film La grande bellezza, il romanzo che Jep Gambardella si accinge a scrivere sarà proprio la rinuncia a quella sola scappatoia, con tutte le inevitabili conseguenze, no?
Le avventure della lettura
Si pensa che i libri si distruggano con particolari metodi di attenzione, primo fra tutti il fuoco. I libri si distruggono, invece, prima di tutto, attraverso la lettura. Leggendo un libro, gli si fa dire sempre qualcosa di diverso da quello per cui era stato composto.
Una tradizione di tipo umanistico esige una lettura unica, che deve confermare sempre ciò che di quel libro si è stabilito una volta per tutte, tempo prima. Per questo l’umanesimo si indigna così tanto alla distruzione dei libri, ma non vede altro modo di distruzione se non il fuoco o lo smembramento dell’oggetto libro – e condanna quindi qualunque progetto di “distruzione dei libri”. Perché sottrae l’oggetto fatto per essere consegnato alla possibilità della lettura, alla possibilità della non lettura.
Nel romanzo Fahrenheit 451 di Ray Bradbury si immagina che i libri, ad un certo punto lungo il tempo di una civiltà immaginaria, vengano riassunti secondo poche nozioni fondamentali, via via passibili di una brevità sempre più caparbia, per cui, a un certo punto, si comprende che non vale più la pena leggere i libri né (dall’altra parte) tanto meno vale la pena distruggerli con il fuoco. Leggere il libro, aveva infatti compreso quella civiltà, voleva infatti dire esporre il libro alla possibilità di confutare la nozione che doveva salvaguardare il libro dalle avventure sconsiderate della lettura. Lettura del libro e spiegazione di ciò che il libro dice sono due cose che non possono stare insieme. L’opposizione al rogo dei libri è, in quel romanzo, la creazione di una – per così dire – nuova casta di umanisti i cui membri imparano a memoria un libro o una sua parte di esso e la trasmettono ad altri individui della stessa casta. Il libro, anche così, salvato dal fuoco, non viene letto, non si apre alla possibilità di interpretazioni sempre diverse, ma diventa qualcosa già sigillato in sé e da trasmettere senza rompere i sigilli che ne garantiscono la maratona attraverso le generazioni. Così l’umanesimo è stato alla base della minaccia contro l’esistenza dei libri e ricompare, in quel tempo immaginario di una civiltà immaginaria, come ciò che sigilla i libri per impedire la realizzazione della loro autentica natura: la concreta distruzione del libro stesso.