Fontane nella notte

Zarathustra, II, Il canto della notte S. Giametta (Commento allo “Zarathustra”, Bruno Mondadori, Milano 1996, pp. 99-100) fa notare come questa lirica, composta a Roma, abbia così poco di atmosfera italiana. Le fontane citate da Nietzsche hanno il riscontro reale nella fontana del Tritone di piazza Barberini, dove si trovava la casa di un amico di Nietzsche. Il senso sacro della notte non ha posto in una città come Roma. Questo non avere spazio da parte del sacro in una città come Roma riguarda sia la Roma classica, sia quella moderna. Ma che Roma era quella visitata da Nietzsche? Si può mai dire che Nietzsche sia mai stato a Roma? (Queste considerazioni sono importantissime per la definizione di un passaggio attraverso le città, quel passaggio che adesso è ritenuto dal termine “turismo”.) La fontana della lirica non è l’artefatto fatto dalla mano dell’uomo allo scopo di abbellire un giardino o una città. La lirica parla di un’ora sacra in una notte sacra, che rende particolarmente sacre le sorgenti. Per conoscere queste ore sacre Nietzsche ha dovuto abbandonare la terra in cui è stata la sua origine. La terra che ha avuto l’origine del pensatore Nietzsche è una delle terre dell’origine della razza germanica. Ma Nietzsche ha dovuto andare al di là dei confini che limitavano questa terra. Il Sud conosciuto da Nietzsche non è il Sud nel quale la razza informe del Sud ha avuto una delle sue origini. Il Sud visitato da Nietzsche era in realtà il Nord della terra dell’origine del pensatore Nietzsche, che era ciò che poteva essere raggiunto dopo un abbandono della terra dell’origine a favore di una terra nella quale si identificava il luogo di un proficuo soggiorno. Per colui che oggi legge i testi di Nietzsche la terra meridionale che ha visto l’occasionale soggiorno di Nietzsche è la terra in cui Nietzsche ha potuto dire la verità della terra dell’origine della razza del Nord. Questa terra è la terra che permette di circondare il filosofo del Nord che soggiorna nel Sud con la terra del sacro Nord, che non è la terra che ha visto l’origine del filosofo Nietzsche nel tempo in cui egli ha dovuto abbandonare questa terra. La razza germanica conoscerà queste notti (p. es. la notte di mezza estate), capaci di rendere ancora più sacre e distruttive, per chi le cerca, le sorgenti e lo spazio isolato nel quale esse sorgono. Per il filosofo tedesco della fine della metafisica (cioè della fine della filosofia e della civiltà greca, latina, ebraica) il paesaggio germanico è un destino. Egli può cercare il Sud attraverso un passaggio, ma quello che trova è sempre il paesaggio del Nord. Quando Nietzsche scrive: “… tutte le fontane cantano ora più forte…” non importa che egli si trovasse vicino alla fontana del Tritone a Roma. È la foresta e la sorgente germanica che sorgono in queste parole messe insieme, ed è la Germania che sorge in una foresta della notte. Uno studioso può far sapere che Nietzsche si trovava ospite del tale pittore svizzero, che abitava appunto in quella piazza, ma in quelle parole c’è tutto il mondo germanico e Roma non c’è più. Qui si contrappongono “foresta” e “giardino”, fattoria e città, sacro e monumento.

M. Lutero, Discorsi a tavola, Giulio Einaudi Editore, Torino 1999, p. 289: «L’aria notturna in Italia è malsana. Il 14 novembre parlavano molto della qualità dell’aria in Italia e dicevano che era sottilissima, cosicché la notte gli abitanti chiudevano tutte le finestre e le aperture, perché l’aria notturna era malsana.»

Una musica che non c’è più

Certa musica moderna (Lontano di György Ligeti, Spiegel im Spiegel di Arvo Pärt, A Midsummer Night’s Dream di Benjamin Britten, In tempus praesens di Sofija Gubajdulina) andrebbe analizzata dal punto di vista della persistente e suadente evocazione di una musica che non c’è più. Anche il Rake’s Progress di Stravinsky si fonda su un analogo artificio. È come se questa musica richiamasse la capacità di evocare qualcosa di una musica che, nella sua completa struttura, semplicemente, ormai non c’è più. Sotto certi aspetti, l’avanguardia più radicale (Cage, ad es.) ha avuto dalla sua qualcosa di più onesto: la volontà di rompere a tutti i costi con una musica del passato.
Sarebbe da precisare il ruolo svolto da Mahler nella formazione di questa particolare musica moderna. Adorno diceva che l’Adagetto della quinta sinfonia è musica inconsistente. Mahler avrebbe così aperto a questo tipo di musica inconsistente, a questo tipo di musica di puro effetto? (Pensare anche all’Adagio della quarta sinfonia. È l’aspetto “sehr ruhig” della musica di Mahler che dovrebbe far pensare.)
Ma è comunque possibile vedere il doppio aspetto della musica di Mahler: musica di strada (erede della musica dei giardini di Mozart); musica di pura sensazione (proiettata, appunto, verso questi aspetti della musica di Britten, Ligeti, Pärt, ecc.).
In questa musica possibile ha la sua posizione imponente Šostakovič. Notare i ritmi con le percussioni.
     Alcune cose devono essere chiarite:
          1. Qual è questa musica che non c’è più? Perché questa musica è così familiare, anche solo tramite un rapido accenno?
         2. Qual è il luogo dove questa musica, posto che la si possa precisare, può essere definita come “musica che non c’è più”? E, soprattutto, qual è il luogo dove questa musica era familiare, prima che diventasse “musica che non c’è più”?
         3. Qual è il rapporto tra lo “spettro” che si aggirava per l’Europa, la figura del Golem, e questa musica, che, con passo d’avvoltoio, viene dai vecchi Paesi Comunisti (Šostakovič, Ligeti, Pärt, Gubajdulina). Qual è il rapporto tra tutto questo e la musica germanica?
È probabile che qui si richiami una differenza fondamentale: quella tra “arte elevata” e arte di consumo. Lo stato socialista ha spesso contrastato questa differenza.
(Ma tutto questo è, probabilmente, una delle facce del postmodernismo.)

Totalità

Manca uno studio relativo su come l’istituzione della città abbia modificato il comportamento degli esseri viventi. In mancanza di un testo base ci si può riferire ad alcuni libri che affrontano la questione da diverse angolature.
Il modo migliore per fissare una possibile bibliografia è indicare quei libri che hanno trasmesso lo stupore che di colpo si è avvertito quando ci si è resi conto di trovarsi a vivere in una città. Cioè in un qualcosa di diverso da ciò che caratterizzava i precedenti insediamenti umani.
Infatti è proprio questo da affrontare prima di tutto.
La situazione della classe operaia in Inghilterra di Engels è forse il testo che maggiormente trasmette questo stupore, ormai a noi tolto.
I «passages» di Parigi di Benjamin è un testo che collega “città” e “modernità”. Di nuovo, due concetti che stentano a suonare nelle loro rispettive dissonanti novità. Agostino, il “mediocre meticcio africano”, secondo la geniale definizione di Rosenberg, nella Città di Dio apre a una considerazione diversa della città. Qui l’analisi parte dallo scontro fra due città: la Gerusalemme celeste e la Gerusalemme terrena. L’abitante della città terrena può solo dimostrarsi insofferente nel rapporto con quella celeste. Ma in lui non può esserci nessuno stupore.
Nel Tramonto dell’Occidente Spengler confronta invece diverse città in senso verticale, cioè scendendo nel tempo, a partire dall’idea del tramonto della Terra della Sera. Roma e Baghdad vengono così a suonare insieme, cioè a consonare.
Il concetto di città è un concetto semita, prima di tutto; mediterraneo, in un secondo tempo. Ma sempre uguale.
Alla città semita bisogna contrapporre la casa indoeuropea. Il libro di riferimento è, forse ancora adesso, La casa degli Indeuropei di Giangabriella Buti (Firenze, Sansoni 1962). Non città, ma casa. Spengler ha notato l’espansione urbanistica di Roma in senso verticale. La casa tende a sparire, in lontananza c’è già il palazzo (Monteverdi, Basile, ecc.).
L’Europa non ha mai conosciuto in origine qualcosa come una città. Il più antico insediamento europeo è quello di fattorie isolate, non di grandi città. La grande città è un artificio che collega Bibbia, Corano, Mille e una notte, la filosofia del mediocre meticcio africano Agostino e la poesia di Roma “città eterna”. Ma la città è estranea alla natura dell’Europa. In quei testi la città si espande sempre in verticale. Come torri. Minaccia il cielo. Lo assorda con lo schiamazzo dei suoi abitanti sempre più litigiosi e numerosi. Sauron e Babele. Sempre bersaglio di un dio tiranno, che le abbatte per manifestare il suo potere criminale.
Lo stupore di colui che cammina nelle città moderne con disagio è lo stupore del Viandante d’Europa. Che annulla la città, che sa che attraversare l’Europa è camminare nella terra la cui terra non è più la terra degli Europei. Attraversare la strada di una città è allora compiere un viaggio, secondo l’avvertimento di Henry Miller.
L’etologia dimostra come la città modifichi il comportamento di alcuni animali prima solo selvatici, ora parzialmente inglobati nella città. Piccoli animali che prima della costruzione delle città non si avvicinavano agli insediamenti umani.
Baudelaire presenta il caso di una poesia all’interno di una città nella quale la poesia viene cercata, costi quel che costi, a tutti i costi, dal soggetto errante. Da qui il tema del flâneur.
Così il poeta e l’animale sono adesso gli abitanti ai quali è dato muoversi come estranei nella città.
Il cinema, in quanto degenerazione dell’arte del romanzo, presenta il fascino di città pericolose e misteriose. E in questo il cinema si risolve. Fascino scandito da ritmi musicali negroidi, negrosuadenti; ma, secondo l’estetica moderna, proprio per questo degno di giungere alla rappresentazione. Northrop Frye vedeva nella pubblicità l’ironia che permette di accogliere il prodotto finale a scanso di qualsiasi sconcio critico.
Solo il poeta può vedere la bellezza unica di una lontana città che nessuno conosce. Ammantata sui monti ai lati di un mare freddo e senza movimento. Solo il poeta può scrivere la lode in onore degli dei. Solo l’uomo è il testimone della bellezza del mondo. Solo il poeta riconosce nel mondo il ritorno degli dei. Ma il poeta da solo non salva il mondo.
L’animale che si avvicina all’uomo salva il mistero del mondo. Il poeta scrive parole che hanno forma e suoni di animali. Quello che il poeta fa è il mistero del mondo. Quello che chiama il poeta è il grande dolore del mondo.
Fragile è la possibilità del poeta. Senza fragilità il mondo sarebbe triste, lento e solitario nel mese che termina la serie di dodici.