La lingua italiana

Ho sempre odiato l’Italia; ho sempre odiato gli Italiani: popolo di meticci, popolo di bastardi, popolo che non dovrebbe né stare né restare in Europa. Popolo che non dovrebbe mai essere entrato in Europa. Il meticcio italiano è un meticcio che non ha niente di europeo. Ma quanto ci vuole a capirlo?
Niente tradisce di più l’origine non europea del meticcio italiano quanto il suo modo stravagante di parlare.
Niente tradisce di più l’origine semita del meticcio italiano quanto la sua lingua. C’è qualcosa di più odioso della lingua del meticcio italiano? lingua di criminali, lingua di ladri, lingua di truffatori, lingua di prepotenti. Ascoltate il suo tono “abbaiato” che non la lascia mai, che rende la lingua italiana così simile alle lingue arabe; fate attenzione al suo tono sempre gridato, sempre sopra tutte le righe; e insieme al suo tono mellifluo, che la rende così adatta a una lingua di segreti, lingua di imbrogli, lingua di favori segreti, lingua di tranelli, lingua di ammiccamenti, lingua di puzza di suq. Quale altra lingua europea è parlata a voce così alta? Un Italiano abbaia sempre la sua maledetta lingua per soverchiare un altro maledetto Italiano. È questa la logica di quel maledetto popolo che vive in quel maledetto paese. Ma è l’unica logica adatta a un popolo di meticci, a un popolo di gente disgraziata, a un popolo bastardo quale il popolo degli Italiani bastardi è da sempre stato e che sempre deve continuare ad essere.
Niente tradisce di più l’origine semita del meticcio italiano quanto la sua lingua.
Osservate bene due meticci italiani che parlano tra loro: osservate tutte quelle smorfie, quei gesti da secoli orfani della commedia dell’arte, quell’andirivieni dei braccini, simili ad antenne di scarafaggi, quell’ondeggiare della postura, quel guardare di sbieco l’avversario, quella fissità inespressiva, ma minacciosa, degli occhi. Non è uno spettacolo raccapricciante? Non è uno spettacolo indegno dell’Europa?
Due Italiani che parlano tra loro sono già una cosca mafiosa. Tutto il segreto della cupola è già lì. Togliete a quel popolo di bastardi, che è il popolo italiano, la sua lingua maledetta e avrete tolto la mafia maledetta dal mondo.

     Dio stramaledica l’Italia!
     Dio stramaledica gli Italiani!

L’intavolatura di Martin Lutero

I Discorsi a tavola di Martin Lutero costituiscono un testo che ruota attorno a un qualcosa che, proprio i Tedeschi, hanno capito appena; hanno capito solo a metà.
In Italia si può vedere la traduzione (parziale) di Leandro Perini (Giulio Einaudi Editore, Torino 1969).
Questo qualcosa può riassumersi in una frase del tipo: “L’Europa ha due grandi nemici: gli Ebrei e gli Italiani!”.
Ma quello che è importante, in questo testo, è che Lutero, per la prima volta, ha compreso perfettamente la relazione che esiste tra Ebrei e Italiani.

Preghiamo Dio affinché ci liberi dai falsi Tedeschi!
Preghiamo Dio affinché ci liberi da Ebrei e Italiani!
Preghiamo Dio affinché ci liberi dal Dio semita!

La battaglia di Arminio

La battaglia di Arminio di Heinrich von Kleist contiene alcuni confronti, certamente non intesi in questa forma dall’autore, ma presenti nel testo, con la civiltà germanica, sui quali vale la pena dirigere una riflessione. Questo perché, quando lo scontro è uno scontro tra civiltà, un testo che richiama l’antica battaglia delle razze non può che richiamare l’insieme di ciò che oppone razza superiore e razze inferiori, qualunque siano le intenzioni dell’autore.
1. Arminio: «Credo che i Tedeschi siano più dotati di talento, ma che gli Italici, sebbene meno dotati, l’abbiano sviluppato meglio nell’epoca presente». Arminio afferma che un’armata germanica in marcia o in sosta suscita il riso in confronto a una di Roma (atto I, scena III). Notare il richiamo a ciò che il testo chiama “l’epoca presente”, identificata come un’epoca di decadenza, nella quale, proprio per questa caratteristica, la civiltà latina può ottenere il massimo del successo. Questo è proprio ciò che chiama il teatro, il fattore dello spettatore invisibile, ugualmente richiamato dalla pubblicità, cioè l’arte di sfottere, tipica della civiltà latino-semita. Ma c’è un altro fattore che il testo suggerisce: l’arte della guerra, il tipo di guerra che in quel momento si combatte. Armata romana e armata germanica richiamano infatti due tipi diversi di guerra.
2. Teutoburgo. Accampamento di Arminio. Arminio e alcuni Anziani osservano le fiamme che si alzano dai villaggi attraversati dalle armate di Roma. Così avanza nel mondo la civiltà di Roma. (Atto III, scena I). Roma è barbarie.
3. Ventidio ha insegnato a Tusnelda l’arte di abbigliarsi e acconciarsi i capelli con lo sfarzo di una Romana. Arminio le rivela che i Romani hanno l’abitudine di tagliare i capelli biondi delle donne tedesche per farne parrucche per le loro donne: «Neri sono [i capelli delle Romane], neri e grassi, come quelli delle streghe. Non belli, asciutti, d’oro, come i tuoi.» (Atto III, scena III). Bellissimo episodio che richiama lo scontro in corso alla sua vera natura, cioè allo scontro razziale: la razza nordica autenticamente indoeuropea e il meticciato romano, che niente ha di europeo (meno che mai di indoeuropeo).
4. Sfila l’esercito di Roma. Varo chiede a Ventidio assicurazioni su Arminio. Egli sa che, non appena marcerà contro Marbod, la sua posizione sarà molto delicata: poiché avrà di fronte l’esercito di Marbod e alle spalle quello di Arminio. Ventidio lo rassicura, ma ogni sua frase è ambigua. Questo dialogo è un capolavoro: c’è tutta la falsità dei Latini, il loro amore per gli intrighi, la loro assoluta diffidenza, il loro essere biforcuto nel mondo. Ventidio ha la lingua biforcuta perché la lingua del suo popolo è una lingua biforcuta. Ventidio prende per spirito profetico quello che è malevolenza degli uni verso gli altri. Caratteristica tipica della sua gente: la razza latina. Tusnelda chiede a Settimio spiegazioni sulle insegne che vede portate dall’esercito romano. Viene così a sapere che l’Aquila ha il compito di riunire i soldati in battaglia. Tusnelda: «Da noi usa il canto corale dei bardi» (p. 629): storia come vedere, storia come dire. (Atto III, scena VI.)
5. Entra una mandragora [così la traduzione]. Varo la interroga: da dove vengo? Risposta: dal nulla. Dove mi dirigo? Risposta: verso il nulla. Dove sono? Risposta: a due passi dalla tomba. Poi scompare. Parlando della mandragora, Varo accosta la Sibilla romana alla maga di Endor. (Atto V, scena IV.) Questo personaggio è riconducibile alla völva dell’Edda, che qui racconta il futuro della civiltà semito-latina visto nella sua opposizione alla civiltà germanica. Così ci sarà infine una battaglia di Arminio dopo la quale la civiltà latina verrà consegnata al nulla.
6. Varo parla di due corvi: uno che pareva annunciargli la vittoria, l’altro la tomba. I due corvi possono essere accostati ai due di Óðinn, ma senza una reale funzione. Un popolo di bastardi è un popolo raccoglitore di mitologie, leggende e racconti; tutto un materiale del quale non sa che fare. (Atto V, scena VII.)
7. Varo: «Arminio, Arminio, è dunque possibile che uno abbia capelli biondi ed occhi azzurri e che sia falso come un cartaginese?» (atto V, scena IX). Varo espone apertamente quella ideologia che egli, prima di tutti, dovrebbe non accettare.
8. I Capi temono che Arminio marci contro Marbod. Arminio: «per il tonante bronzeo carro di Wodan»: di tonante c’è qui, prima di tutto, l’errore. Non era Óðinn il dio con il carro, ma Þórr. (Atto V, scena XI.)
9. Arminio: «E poi muoveremo audacemente… verso Roma. Noi, fratelli, noi o i nostri nipoti! Sono infatti fermamente convinto che l’intero mondo non potrà ottenere pace da questa genía di assassini fin quando non sarà totalmente distrutto il loro nido di predatori e una bandiera nera non sventolerà sopra un desolato cumulo di macerie.» (atto V, scena ultima). È qui anticipata la fine della civiltà semito-latina, riassunta nella battaglia finale contro la grande città. Si ripresenta lo scontro dapprima negato: l’odio verso la grande città e lo smascheramento della civiltà latino-semita.

Teutoburgo vi compare come una città con strade nelle quali si può camminare e un parco chiuso da un cancello, una specie di giardino all’inglese, dove la natura sembra seguire indisturbata il suo corso e dove Tusnelda fa rinchiudere Ventidio in modo da farlo sbranare dall’orsa che, poco prima, vi aveva fatto rinchiudere. Una delle caratteristiche fondamentali dello scontro tra civiltà romana e civiltà germanica, la grande città semito-latina e l’assenza di città nel mondo germanico, è del tutto ignorato.
La battaglia di Arminio di Heinrich von Kleist è uno strano testo. Tutto, in questo strano testo, viene messo in scena come se la battaglia di Arminio fosse già avvenuta. Quello che il testo presenta è infatti la nuova battaglia di Arminio, cioè quella battaglia che, dopo la battaglia di Arminio storica, bisogna combattere per scacciare l’influsso della civiltà latino-semita. La battaglia di Arminio “storica” ha segnato la vittoria dei popoli tedeschi sull’esercito di Roma e la fine dell’aggressione della civiltà romana nei confronti del nord, Ma il risultato è stato che la Germania, così come tutto il nord, ha finito per accettare, senza accorgersene, sempre più la civiltà latino-semita, arrivando a pensare, alla fine, come quella civiltà e organizzando il proprio modo di vivere e di abitare la terra secondo i principi di quella lontana civiltà.
Ma mai troppo lontana!
«I dag kjenner mange mennesker i Norden gresk og romersk mytologi bedre enn den norrøne» (G. Steinsland, Eros og død i norrøne myter, Universitesforlaget AS, Oslo 1997, p. 18).
Il fatto della battaglia personale, che chiunque deve combattere in nome della battaglia di Arminio, mette in evidenza un’altra questione.
Atto III, scena II: entrano in successione tre Capitani tedeschi. Riferiscono le atrocità commesse dai Romani lungo il loro percorso: distruzione delle residenze di Arminio, uccisione di una puerpera col suo bambino, distruzione della quercia sacra a Wodan. Sono i simboli delle tre funzioni indoeuropee secondo Dumézil, riportate nell’ordine: 2, 3, 1.
Arminio accoglie le notizie con gioia e le fa diffondere, in modo da aumentare l’odio verso i Romani. Infine, ordina a Eginardo che dei Tedeschi travestiti da Romani seguano di nascosto le truppe di Varo, saccheggiando e incendiando.
In Teoria del partigiano Carl Schmitt (Adelphi, Milano 2005) definisce La battaglia di Arminio di Kleist «il più grande poema partigiano di tutti i tempi» (p. 17).
Il partigiano, continua Schmitt, costringe il suo avversario a entrare in uno spazio diverso. Notare il richiamo al teatro nel testo di Schmitt: «Sbucando dalle quinte, il partigiano disturba il dramma convenzionale che si svolge, conforme alle regole, sul palcoscenico» (p. 98). Il partigiano è, a questo punto, una figura da melodramma, da operetta, da dramma di cappa e spada.
Ma il partigiano di ieri è il terrorista di oggi. Il partigiano non è più una figura difensiva e da operetta, ma diventa «uno strumento manipolato da un’aggressività che mira alla rivoluzione mondiale» (p. 104).

Rimane il punto di partenza: l’errore fondamentale di Kleist: aver rappresentato Teutoburgo come un città con strade dove i capi, in incognito, camminano di notte per studiare il comportamento della popolazione. Un tema che sembra richiamare la grande città di Baghdad dei racconti fioriti intorno al califfo Hārūn al-Rashīd nelle Mille e una notte.
È una sovrapposizione di scenografie che il testo teatrale ha imparato a rappresentare. I guerrieri germanici si muovono, nella loro Germania violata, attraverso una scenografia che rappresenta la Germania violata come una grande città semita. Ma essi combattono concretamente per liberare la Germania,
È appunto lo sdoppiamento tipico al quale il teatro moderno, in quanto messa in scena, non può più fare a meno. Soprattutto il teatro d’opera unirà una interpretazione musicale filologica a una messa in scena slegata da qualsiasi temporalità (scenografia costituita da blocchi in movimenti, costumi contemporanei, ecc.). Da qui è da rivedere il tentativo di Händel di creare oratori profani, in lingua inglese, in risposta all’invadente teatro italiano.

Un bel commento all’articolo “2000 år sedan slaget vid Teutoburgerskogen!” nel sito www.patriot.nu (30 settembre 2009), cominciava con questa semplice frase: «Det är bara en ny Hermann som behövs och lite till.» (http://patriot.nu/artikel.asp?artikelID=1330).

H. von Kleist, La battaglia di Arminio, in H. von Kleist, Opere, I, Guanda, Parma 1980 (trad. di Ervino Pocar).