Il tempo di Zarathustra

“Ma che vale un tempo che ‘non ha tempo’ per Zarathustra?”.
Questo tempo è prima di tutto un tempo che rimanda a una seconda fase. La citazione completa suona infatti: «”Non abbiamo ancora tempo per Zarathustra” – questa è la loro obiezione. Ma che vale un tempo che “non ha tempo” per Zarathustra?» Questo tempo è un tempo che non ha tempo. Per quale cosa questo tempo è un tempo che non ha tempo? Se non ci fosse questo stare nel tempo per non avere tempo, questo tempo non sarebbe un tempo. Ma questo tempo è un tempo solo se ci si pone una domanda. Questa domanda è: “Che tempo è un tempo che non ha tempo per Zarathustra?” Questo tempo è il tempo nel quale non si riconosce il carattere indoeuropeo di Zarathustra; ma è anche il tempo nel quale l’iranico Zarathustra compare metà greco e metà profeta ebraico: è un tempo nel quale Zarathustra non ha più tempo per avere tempo.
La domanda: «Ma che vale un tempo che “non ha tempo” per Zarathustra?» è però una domanda sul tempo. Essa, infatti, prevede e rimanda a un diverso tipo di tempo.
Questa domanda suona come: “Che tempo è un tempo che non ha tempo per Zarathustra?” Modulata così, la domanda rivela il suo annidamento nelle questioni del tempo.
C’è un tempo che non prevede Zarathustra, e un tempo nel quale Zarathustra irrompe come richiamo a un tempo diverso.
“Non avere tempo per Zarathustra” vuole dire non essere distratti nei propri progetti nel tempo da un progetto estraneo, che sottrae tempo al compimento di un progetto. E il compimento di questo progetto esclude Zarathustra.
Il tempo di Zarathustra è la fine del concetto comune di tempo. Questo concetto comune di tempo è il tempo che ha nel contare “fino al compimento di un certo tempo” la sua propria natura, secondo la formula di Agostino. Quindi è un tempo che prevede dei progetti e si manifesta soprattutto nell’arco di un progetto. Progetti contemplati lontani nel passato (nella prospettiva del tempo percorso e del progetto completato; ciò che il soggetto ha realizzato) o lanciati lontano nel futuro (come progetti a venire; ciò che il soggetto deve ancora realizzare). Il progetto è sempre un incontro con una meta da parte di un soggetto. Al contrario, Zarathustra non affolla il tempo di progetti. Quindi questo nuovo tempo per il quale non si ha tempo sarebbe non un semplice accantonare nel tempo, quanto una possibilità di uccidere il tempo.
Le Confessioni di Agostino contengono riflessioni basilari sul tempo. Ma da che cosa deriva questo aspetto di base, cioè di fondamento? Le riflessioni sul tempo di Agostino occupano parte del Libro XI, ma tutta l’opera può essere divisa in due grandi parti: una prima parte, che può essere definita L’andare per il mondo (Libro I-IX); una seconda parte, che si potrebbe definire Teoria del soggetto (Libro X-XIII). Comune a entrambe è il disegno divino che Agostino riconosce nei confronti di se stesso in quanto soggetto, e quindi la possibilità di raccontare la propria storia come movimento verso una meta, verso la quale “si” tendeva anche quando ancora non se ne aveva coscienza alcuna, come Agostino riconosce quando racconta il periodo del proprio paganesimo. Infatti le Confessioni possono essere considerate il primo esempio di Bildungsroman. In questo si mostra la verità tanto quanto in essa tutto è falso come un libro. Ma dalla possibilità di diventare “falso come un libro” saranno chiamati a uscire, alla fine dell’epoca della metafisica, coloro che collegheranno romanzo e racconto autobiografico, Hamsun e Henry Miller, per esempio.
Se Zarathustra libera l’ente dalla necessità del divenire, allora Zarathustra deve anche liberare il tempo dalla necessità dell’annidare in sé progetti.
Ma quando il tempo sarà solo patrimonio di tempo, allora il tempo sarà qualcosa di falso e segreto, perché il poeta è il patrimonio del silenzio.

F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, in Opere di Friedrich Nietzsche, volume VI, tomo I, Adelphi, Milano 1973, p. 204.

Il sentiero del Nord

Per tornare nella sua caverna, Zarathustra giunge davanti alla porta della «grande città». Il pazzo chiamato dal popolo la «scimmia di Zarathustra» gli sbarra la strada e inveisce contro la città. Zarathustra passa oltre la grande città, senza dare troppa importanza alle invettive del pazzo. Che cosa vuole dire tutto questo? Perché Zarathustra non inveisce contro la grande città, mentre le invettive contro la grande città sono lanciate dal pazzo che il popolo definisce la «scimmia di Zarathustra»? Perché la grande città è quel destino della modernità contro il quale le invettive sono inutili, perché le invettive fanno ancora parte di quell’insieme che ha portato alla costruzione delle grandi città. Il pazzo rappresenta l’atteggiamento di rottura attiva nei confronti della modernità, cioè quell’atteggiamento che combatte la modernità all’interno delle strutture che costituiscono la modernità. La posizione di Zarathustra è più complessa, perché intravede un tempo nel quale tutti i rapporti saranno diversi. La diversità di questo tempo riguarderà anche la vicinanza che nella modernità è rappresentata solo dalla grande città. Il popolo definisce il pazzo «scimmia di Zarathustra» perché ne intuisce la somiglianza con le idee di Zarathustra, e nello stesso tempo ne intuisce la differenza, per cui il pazzo che scimmiotta Zarathustra è solo la scimmia di Zarathustra. La grande città è la grande città europea dell’epoca di Nietzsche: Parigi (la Parigi di Balzac, di Baudelaire), Berlino (come indica Sossio Giametta nel suo commento allo Zarathustra). Il pazzo furioso rappresenta i poeti che hanno creato il mito poetico e letterario della grande città (Balzac, Baudelaire, Benjamin e prima di tutti Agostino, il «mediocre meticcio africano» cantore della grande città di Dio e pazzo furioso verso Roma); la città è la creazione della razza del Sud, ma Zarathustra è ormai sul sentiero del Nord. La grande città del Sud è infatti il sentiero del Nord nel pensiero che è il pensiero dell’eterno ritorno. Zarathustra passa oltre la grande città perché non vuole diventare un pazzo furioso, perché sa che la posizione del pazzo furioso è inconcludente; e sceglie di rimanere in provincia per pensare fino in fondo il suo pensiero.

Fontane nella notte

Zarathustra, II, Il canto della notte S. Giametta (Commento allo “Zarathustra”, Bruno Mondadori, Milano 1996, pp. 99-100) fa notare come questa lirica, composta a Roma, abbia così poco di atmosfera italiana. Le fontane citate da Nietzsche hanno il riscontro reale nella fontana del Tritone di piazza Barberini, dove si trovava la casa di un amico di Nietzsche. Il senso sacro della notte non ha posto in una città come Roma. Questo non avere spazio da parte del sacro in una città come Roma riguarda sia la Roma classica, sia quella moderna. Ma che Roma era quella visitata da Nietzsche? Si può mai dire che Nietzsche sia mai stato a Roma? (Queste considerazioni sono importantissime per la definizione di un passaggio attraverso le città, quel passaggio che adesso è ritenuto dal termine “turismo”.) La fontana della lirica non è l’artefatto fatto dalla mano dell’uomo allo scopo di abbellire un giardino o una città. La lirica parla di un’ora sacra in una notte sacra, che rende particolarmente sacre le sorgenti. Per conoscere queste ore sacre Nietzsche ha dovuto abbandonare la terra in cui è stata la sua origine. La terra che ha avuto l’origine del pensatore Nietzsche è una delle terre dell’origine della razza germanica. Ma Nietzsche ha dovuto andare al di là dei confini che limitavano questa terra. Il Sud conosciuto da Nietzsche non è il Sud nel quale la razza informe del Sud ha avuto una delle sue origini. Il Sud visitato da Nietzsche era in realtà il Nord della terra dell’origine del pensatore Nietzsche, che era ciò che poteva essere raggiunto dopo un abbandono della terra dell’origine a favore di una terra nella quale si identificava il luogo di un proficuo soggiorno. Per colui che oggi legge i testi di Nietzsche la terra meridionale che ha visto l’occasionale soggiorno di Nietzsche è la terra in cui Nietzsche ha potuto dire la verità della terra dell’origine della razza del Nord. Questa terra è la terra che permette di circondare il filosofo del Nord che soggiorna nel Sud con la terra del sacro Nord, che non è la terra che ha visto l’origine del filosofo Nietzsche nel tempo in cui egli ha dovuto abbandonare questa terra. La razza germanica conoscerà queste notti (p. es. la notte di mezza estate), capaci di rendere ancora più sacre e distruttive, per chi le cerca, le sorgenti e lo spazio isolato nel quale esse sorgono. Per il filosofo tedesco della fine della metafisica (cioè della fine della filosofia e della civiltà greca, latina, ebraica) il paesaggio germanico è un destino. Egli può cercare il Sud attraverso un passaggio, ma quello che trova è sempre il paesaggio del Nord. Quando Nietzsche scrive: “… tutte le fontane cantano ora più forte…” non importa che egli si trovasse vicino alla fontana del Tritone a Roma. È la foresta e la sorgente germanica che sorgono in queste parole messe insieme, ed è la Germania che sorge in una foresta della notte. Uno studioso può far sapere che Nietzsche si trovava ospite del tale pittore svizzero, che abitava appunto in quella piazza, ma in quelle parole c’è tutto il mondo germanico e Roma non c’è più. Qui si contrappongono “foresta” e “giardino”, fattoria e città, sacro e monumento.

M. Lutero, Discorsi a tavola, Giulio Einaudi Editore, Torino 1999, p. 289: «L’aria notturna in Italia è malsana. Il 14 novembre parlavano molto della qualità dell’aria in Italia e dicevano che era sottilissima, cosicché la notte gli abitanti chiudevano tutte le finestre e le aperture, perché l’aria notturna era malsana.»

Un’arte nichilista

La musica è un’arte nichilista. In nessuna altra arte si può esprimere un impulso nichilista così efficace e convincente come nella musica. (Ricordare quello che diceva Mishima.)
Qualcosa lega l'”Allelujah” del Messiah al rondò della nona sinfonia di Mahler.
Bachtin: la musica gira intorno alle parole, ma più le affronta, più la musica le fa esplodere. Bachtin vedeva nella polifonia letteraria la possibilità di inglobare più parole in una sola parola di personaggio; ma la musica dissolve la parola. In ogni occasione, anche attraverso la polifonia.
Il concetto di “Dio” è l’ultima arte possibile in grado di comportare un’opera d’arte offerta allo sguardo di uno spettatore.
Se la musica è nichilismo organizzato, un compositore può trasferire il potenziale nichilista della musica in una persona. Secondo il necrologio scritto da Donald Mitchell per la morte della figlia di Mahler Anna, ella aveva molto della musica del padre, quasi fosse una creazione della musica di lui. Il compositore avrebbe allora la capacità di trasferire la caratteristica della propria musica in campi completamente diversi? Ma qui c’è un’altra ambiguità: una creazione di Mahler o una creazione della musica di Mahler? È come la penombra di una discendenza gnostica.
La parola è suono, ma il suono dissolve la parola.
La poesia è musica in agguato.
La musica è pura struttura. Poesia e letteratura possono avvicinarsi alla musica.
La musica è un gioco nichilista proprio nel suo poter fare a meno delle parole senza poter fare a meno di un pensiero che richiama la parola per la sua completa espressione. Quello che viene scatenato è la traiettoria di un sistema complesso di pensiero. Ripensare a quello che diceva Mishima: la musica come bestia feroce in gabbia.
La musica gira sempre attorno alle parole: ma più le affronta, più le fa esplodere.
La letteratura si avvicina alla musica solo come cattiva letteratura: Umberto Eco come patetico caso di stravinskismo letterario.
Solo la vera poesia è invece musica in agguato.
Ma la musica è poi quella cosa che noi siamo abituati a conoscere come musica?
C’è un giudizio di Heidegger sull’ultima sonata di Schubert molto particolare: «Questo noi non possiamo farlo con la filosofia.»: è come se la musica aprisse nuovi campi al pensiero, in un mondo che il pensiero non può fare. Certa musica di Schubert colpisce per il suo tono divinamente compatto (il primo tempo della nona sinfonia, l’ultima sonata per pianoforte). Si avrebbe allora nella musica la coesistenza del pensiero e del suo annullamento. Un pensiero che procede per strappi. E la musica di Schubert sarebbe prima di tutto pensiero geniale. Il naturale impulso nichilista della musica può avvicinarsi alla genialità. Un pensiero geniale potrebbe attualmente essere un pensiero autenticamente in grado di strappare da sé il principio del terzo escluso.

 

 

 

 

     Il necrologio di Donald Mitchell compare in A. Joseph, A. Mahler, M. Mahler & D. Mitchell, Mahler’s Smile: A Memoir of his Daughter Anna Mahler (1904-1988), in D. Mitchell & A. Nicholson [Edited by], The Mahler Companion, Oxford University Press, Oxford 2002, pp. 593-6.

     Nello stesso volume c’è anche il giudizio sul rondò della nona sinfonia sopra ricordato: S.E. Hefling, The Ninth Symphony, in D. Mitchell & A. Nicholson [Edited by], op. cit., pp. 483-4: «But Mahler’s compositional tour de force of negativity is the Rondo-Burleske. Originally dedicated “To my brothers in Apollo”, it is the most syntactically untraditional, contrapuntally complex, and riotously sardonic movement in all Mahler’s oeuvre – as La Grange comments, Mahler never ventured further into nihilism than here.»

     Il giudizio di Heidegger sulla sonata di Schubert è riportato in R. Safranski, Heidegger e il suo tempo, Longanesi & C., Milano 1996, p. 402.
Le riflessioni di Mishima sono tratte da E. Ciccarella, L’angelo ferito. Vita e morte di Mishima, Liguori Editore, Napoli 2007, p. 105: «In realtà la distanza che lo scrittore prendeva dall’universo musicale era il frutto di un profondo terrore inconscio, che poi diventerà invece molto cosciente quando confesserà: “Provo un terrore inusuale per questa cosa informe chiamata suono”; o quando paragonerà la musica ad una bestia feroce imprigionata in una gabbia, un gabbia inaffidabile che poteva cedere da un momento all’altro.»

     Per quanto riguarda lo “stravinskismo”, vedere G. Gould, L’ala del turbine intelligente, Adelphi, Milano 2007, pp. 303-6.

Letteratura italiana (e Italiani bastardi)

Mi ha sempre infastidito la letteratura italiana. Letteratura che conosco pochissimo. Per disprezzarla non è necessario conoscerla; è solo necessario disprezzarla; disprezzarla sempre, comunque, dovunque. La sua diffusione dipende dal fatto che la letteratura italiana, più che di una letteratura, ha le fattezze di un virus. È una infezione fatta per colpire anime coniglio; fatta per essere trasmessa attraverso anime coniglio.
Questo dipende dal fatto che l’Italia non è una nazione e gli Italiani non sono un popolo. L’Italia è quel qualcosa che una banda di massoni è riuscita a fare di tanti maledetti pezzi di terra diversi.
In alcuni saggi memorabili, Heidegger indica in Hölderlin il poeta della razza germanica. Gli Italiani sono un popolo di bastardi. Un popolo di bastardi non ha un poeta. Un popolo di bastardi ha soltanto qualche paroliere. Dante è il massimo paroliere del popolo bastardo degli Italiani.
Il poeta svela al suo popolo il suo destino. Un popolo di bastardi non ha un poeta. Un popolo di bastardi non ha un destino.