Il senso della terra

«Coloro che abitano un mondo dietro il mondo sono, in tedesco, gli Hinterweltler (il titolo di questo terzo discorso suona in originale: Von den Hinterweltlern). Ma gli Hinterweltler sono, in italiano, coloro che abitano un mondo dietro il mondo solo se si tiene presente che il termine è ricalcato su Hinterwäldler. Gli Hinterwäldler sono coloro che abitano dietro i boschi, cioè al di là di essi, dalla parte che non comunica con la civiltà, faccia non illuminata della luna. Sono uomini primitivi, zotici, che vivono “fuori del mondo”, una vita solitaria e bestiale.» (S. Giametta, Commento allo “Zarathustra”, Bruno Mondadori, Milano 1996, pp. 21-2.)

Il bosco germanico è diverso da quello latino. Pensare al bosco delle fiabe. Nelle fiabe dei Grimm il bosco è vicino alle case. In Basile il bosco esiste solo nella forma di un giardino attorno al palazzo dove vive l’orco come un qualsiasi altro abitante della città. Ogni filosofia costituisce un rapporto tra le parole di una lingua e i concetti che essa formula a partire da quella lingua. La lingua tedesca crea un termine per indicare ciò che vive aldilà della civiltà, e questo termine è appunto ciò che la filosofia, a un certo punto, deve modificare per segnare una frattura con la filosofia ad essa precedente. La civiltà latina parla più genericamente di “mondo”. La civiltà germanica parte dalla terra; e dalla terra dove c’è il bosco, che divide diverse terre. La civiltà latina crea un vocabolario filosofico che ignora tutto ciò che è del Nord, perché per essa il mondo germanico poteva esistere solo in quanto terreno di una conquista. La civiltà germanica crea un vocabolario che si oppone al mondo del Sud, perché ormai, a partire da Nietzsche, creare un nuovo vocabolario filosofico vuole dire opporsi alla civiltà latina: «Più onesto e puro parla il corpo sano, nella sua perfezione tetragona: ed esso parla del senso della terra.» (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, in Opere di Friedrich Nietzsche, volume VI, tomo I, Adelphi, Milano 1973, p. 33.)
La metafisica è intessuta di pensiero giudaico-cristiano, che a sua volta è un tessuto della terra del sud. Questa è la tessitura inconsapevole della filosofia occidentale dalla quale essa origina i propri concetti, che solo in apparenza sono slegati da una terra, relativi soltanto a un mondo dello spirito, ma che in realtà sono collegati a un mondo di una terra precisa. Un mondo che vedeva un mondo dietro il mondo. L’espressione “fine della metafisica” smaschera questa larva di mondo opponendogli un altro mondo, quello germanico, ma evitando appunto il salto della messa in maschera. Nominando, prima di tutto. Non corpo e anima, quindi, ma corpo e terra.
La filosofia non ha mai parlato della terra, ma parlare della terra è appunto il nuovo compito che attende la filosofia.
Il tema è indirettamente presente in Perché restiamo in provincia? di Heidegger. La filosofia, si fa lì notare, può nascere solo da quel preciso e ristretto ambiente: dai discorsi con i contadini, dagli animali che accompagnano il lavoro dei contadini, dalle tempeste improvvise di neve che sorprendono il lavoro del filosofo. È una filosofia che deve nascere da altre parole. Tutto questo non determina solo l’ora della filosofia, ma l’era diversa dove il pensiero e il suo  vocabolario devono infine arrivare.

Il tempo di Zarathustra

“Ma che vale un tempo che ‘non ha tempo’ per Zarathustra?”.
Questo tempo è prima di tutto un tempo che rimanda a una seconda fase. La citazione completa suona infatti: «”Non abbiamo ancora tempo per Zarathustra” – questa è la loro obiezione. Ma che vale un tempo che “non ha tempo” per Zarathustra?» Questo tempo è un tempo che non ha tempo. Per quale cosa questo tempo è un tempo che non ha tempo? Se non ci fosse questo stare nel tempo per non avere tempo, questo tempo non sarebbe un tempo. Ma questo tempo è un tempo solo se ci si pone una domanda. Questa domanda è: “Che tempo è un tempo che non ha tempo per Zarathustra?” Questo tempo è il tempo nel quale non si riconosce il carattere indoeuropeo di Zarathustra; ma è anche il tempo nel quale l’iranico Zarathustra compare metà greco e metà profeta ebraico: è un tempo nel quale Zarathustra non ha più tempo per avere tempo.
La domanda: «Ma che vale un tempo che “non ha tempo” per Zarathustra?» è però una domanda sul tempo. Essa, infatti, prevede e rimanda a un diverso tipo di tempo.
Questa domanda suona come: “Che tempo è un tempo che non ha tempo per Zarathustra?” Modulata così, la domanda rivela il suo annidamento nelle questioni del tempo.
C’è un tempo che non prevede Zarathustra, e un tempo nel quale Zarathustra irrompe come richiamo a un tempo diverso.
“Non avere tempo per Zarathustra” vuole dire non essere distratti nei propri progetti nel tempo da un progetto estraneo, che sottrae tempo al compimento di un progetto. E il compimento di questo progetto esclude Zarathustra.
Il tempo di Zarathustra è la fine del concetto comune di tempo. Questo concetto comune di tempo è il tempo che ha nel contare “fino al compimento di un certo tempo” la sua propria natura, secondo la formula di Agostino. Quindi è un tempo che prevede dei progetti e si manifesta soprattutto nell’arco di un progetto. Progetti contemplati lontani nel passato (nella prospettiva del tempo percorso e del progetto completato; ciò che il soggetto ha realizzato) o lanciati lontano nel futuro (come progetti a venire; ciò che il soggetto deve ancora realizzare). Il progetto è sempre un incontro con una meta da parte di un soggetto. Al contrario, Zarathustra non affolla il tempo di progetti. Quindi questo nuovo tempo per il quale non si ha tempo sarebbe non un semplice accantonare nel tempo, quanto una possibilità di uccidere il tempo.
Le Confessioni di Agostino contengono riflessioni basilari sul tempo. Ma da che cosa deriva questo aspetto di base, cioè di fondamento? Le riflessioni sul tempo di Agostino occupano parte del Libro XI, ma tutta l’opera può essere divisa in due grandi parti: una prima parte, che può essere definita L’andare per il mondo (Libro I-IX); una seconda parte, che si potrebbe definire Teoria del soggetto (Libro X-XIII). Comune a entrambe è il disegno divino che Agostino riconosce nei confronti di se stesso in quanto soggetto, e quindi la possibilità di raccontare la propria storia come movimento verso una meta, verso la quale “si” tendeva anche quando ancora non se ne aveva coscienza alcuna, come Agostino riconosce quando racconta il periodo del proprio paganesimo. Infatti le Confessioni possono essere considerate il primo esempio di Bildungsroman. In questo si mostra la verità tanto quanto in essa tutto è falso come un libro. Ma dalla possibilità di diventare “falso come un libro” saranno chiamati a uscire, alla fine dell’epoca della metafisica, coloro che collegheranno romanzo e racconto autobiografico, Hamsun e Henry Miller, per esempio.
Se Zarathustra libera l’ente dalla necessità del divenire, allora Zarathustra deve anche liberare il tempo dalla necessità dell’annidare in sé progetti.
Ma quando il tempo sarà solo patrimonio di tempo, allora il tempo sarà qualcosa di falso e segreto, perché il poeta è il patrimonio del silenzio.

F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, in Opere di Friedrich Nietzsche, volume VI, tomo I, Adelphi, Milano 1973, p. 204.

Il sentiero del Nord

Per tornare nella sua caverna, Zarathustra giunge davanti alla porta della «grande città». Il pazzo chiamato dal popolo la «scimmia di Zarathustra» gli sbarra la strada e inveisce contro la città. Zarathustra passa oltre la grande città, senza dare troppa importanza alle invettive del pazzo. Che cosa vuole dire tutto questo? Perché Zarathustra non inveisce contro la grande città, mentre le invettive contro la grande città sono lanciate dal pazzo che il popolo definisce la «scimmia di Zarathustra»? Perché la grande città è quel destino della modernità contro il quale le invettive sono inutili, perché le invettive fanno ancora parte di quell’insieme che ha portato alla costruzione delle grandi città. Il pazzo rappresenta l’atteggiamento di rottura attiva nei confronti della modernità, cioè quell’atteggiamento che combatte la modernità all’interno delle strutture che costituiscono la modernità. La posizione di Zarathustra è più complessa, perché intravede un tempo nel quale tutti i rapporti saranno diversi. La diversità di questo tempo riguarderà anche la vicinanza che nella modernità è rappresentata solo dalla grande città. Il popolo definisce il pazzo «scimmia di Zarathustra» perché ne intuisce la somiglianza con le idee di Zarathustra, e nello stesso tempo ne intuisce la differenza, per cui il pazzo che scimmiotta Zarathustra è solo la scimmia di Zarathustra. La grande città è la grande città europea dell’epoca di Nietzsche: Parigi (la Parigi di Balzac, di Baudelaire), Berlino (come indica Sossio Giametta nel suo commento allo Zarathustra). Il pazzo furioso rappresenta i poeti che hanno creato il mito poetico e letterario della grande città (Balzac, Baudelaire, Benjamin e prima di tutti Agostino, il «mediocre meticcio africano» cantore della grande città di Dio e pazzo furioso verso Roma); la città è la creazione della razza del Sud, ma Zarathustra è ormai sul sentiero del Nord. La grande città del Sud è infatti il sentiero del Nord nel pensiero che è il pensiero dell’eterno ritorno. Zarathustra passa oltre la grande città perché non vuole diventare un pazzo furioso, perché sa che la posizione del pazzo furioso è inconcludente; e sceglie di rimanere in provincia per pensare fino in fondo il suo pensiero.

Fontane nella notte

Zarathustra, II, Il canto della notte S. Giametta (Commento allo “Zarathustra”, Bruno Mondadori, Milano 1996, pp. 99-100) fa notare come questa lirica, composta a Roma, abbia così poco di atmosfera italiana. Le fontane citate da Nietzsche hanno il riscontro reale nella fontana del Tritone di piazza Barberini, dove si trovava la casa di un amico di Nietzsche. Il senso sacro della notte non ha posto in una città come Roma. Questo non avere spazio da parte del sacro in una città come Roma riguarda sia la Roma classica, sia quella moderna. Ma che Roma era quella visitata da Nietzsche? Si può mai dire che Nietzsche sia mai stato a Roma? (Queste considerazioni sono importantissime per la definizione di un passaggio attraverso le città, quel passaggio che adesso è ritenuto dal termine “turismo”.) La fontana della lirica non è l’artefatto fatto dalla mano dell’uomo allo scopo di abbellire un giardino o una città. La lirica parla di un’ora sacra in una notte sacra, che rende particolarmente sacre le sorgenti. Per conoscere queste ore sacre Nietzsche ha dovuto abbandonare la terra in cui è stata la sua origine. La terra che ha avuto l’origine del pensatore Nietzsche è una delle terre dell’origine della razza germanica. Ma Nietzsche ha dovuto andare al di là dei confini che limitavano questa terra. Il Sud conosciuto da Nietzsche non è il Sud nel quale la razza informe del Sud ha avuto una delle sue origini. Il Sud visitato da Nietzsche era in realtà il Nord della terra dell’origine del pensatore Nietzsche, che era ciò che poteva essere raggiunto dopo un abbandono della terra dell’origine a favore di una terra nella quale si identificava il luogo di un proficuo soggiorno. Per colui che oggi legge i testi di Nietzsche la terra meridionale che ha visto l’occasionale soggiorno di Nietzsche è la terra in cui Nietzsche ha potuto dire la verità della terra dell’origine della razza del Nord. Questa terra è la terra che permette di circondare il filosofo del Nord che soggiorna nel Sud con la terra del sacro Nord, che non è la terra che ha visto l’origine del filosofo Nietzsche nel tempo in cui egli ha dovuto abbandonare questa terra. La razza germanica conoscerà queste notti (p. es. la notte di mezza estate), capaci di rendere ancora più sacre e distruttive, per chi le cerca, le sorgenti e lo spazio isolato nel quale esse sorgono. Per il filosofo tedesco della fine della metafisica (cioè della fine della filosofia e della civiltà greca, latina, ebraica) il paesaggio germanico è un destino. Egli può cercare il Sud attraverso un passaggio, ma quello che trova è sempre il paesaggio del Nord. Quando Nietzsche scrive: “… tutte le fontane cantano ora più forte…” non importa che egli si trovasse vicino alla fontana del Tritone a Roma. È la foresta e la sorgente germanica che sorgono in queste parole messe insieme, ed è la Germania che sorge in una foresta della notte. Uno studioso può far sapere che Nietzsche si trovava ospite del tale pittore svizzero, che abitava appunto in quella piazza, ma in quelle parole c’è tutto il mondo germanico e Roma non c’è più. Qui si contrappongono “foresta” e “giardino”, fattoria e città, sacro e monumento.

M. Lutero, Discorsi a tavola, Giulio Einaudi Editore, Torino 1999, p. 289: «L’aria notturna in Italia è malsana. Il 14 novembre parlavano molto della qualità dell’aria in Italia e dicevano che era sottilissima, cosicché la notte gli abitanti chiudevano tutte le finestre e le aperture, perché l’aria notturna era malsana.»

Solo un facitore di parole

Mai dire di uno scrittore: «È nostro!» È sempre la gabbia che scatta intorno a tutti!
Il bello delle idee di un filosofo sta nella pericolosità. Tutte le idee dell’uomo hanno la bellezza di molte diverse pericolosità. Qualunque idea è pericolosa. L’appropriazione di una idea da parte di qualcuno fa perdere sempre qualcosa di questa pericolosità indefinita. Allora sopraggiunge la piattezza della interpretazione.
Uno scrittore, un filosofo, un poeta dovrebbe essere caratterizzato proprio a partire dalla sua insofferenza verso un sistema ordinato di uso delle parole.
Filosofia e poesia sono ciò che permette di sfuggire alla gabbia che condiziona la vita di tutti i giorni. Infatti, poesia e filosofia sono un inciampo nella vita di tutti i giorni.
Ma il filosofo e il poeta possono sfuggire alla gabbia che condiziona l’uomo comune proprio in quanto possono sfuggire alle leggi della psicologia comune. Che è quanto la critica di tutti i giorni tende loro a negare.
Il poeta rende vere le parole di una lingua quando, solo per gioco, in una luce che è appena d’alba polare, ne illumina l’aspetto di crepuscolo del gioco. È stato più volte detto che la parola usata dal poeta non è la stessa parola usata dal giornalista, nel momento in cui il giornalista usa quella stessa parola.
Il poeta è solo “un facitore di parole”, “ein Worte-macher”, per usare le parole lontane di Nietzsche.
Però niente deve ricordare la parola del poeta, perché poeta è colui che affida la propria parola al mondo che rigetta la memoria.
Allora uno scrittore non deve essere un punto dove tutte le linee di una personalità coincidono, ma un insieme teorico da cui serie sempre diverse si dipartono per disperdersi. La fantasia di una metodologia di questo tipo è stata applicata da Hugh Kenner nello studio L’età di Pound.
Da qui l’importanza del post-strutturalismo.
Tolkien è un comodo caso. Due esempi tratti da La realtà in trasparenza. Lettere 1914-1973 (Bompiani, Milano 2001):
Lettera 45: Tolkien scrive di aver cominciato a studiare germanistica «come reazione contro i “classici”» (p. 65). Continua accusando Hitler (la lettera è del 9 giugno 1941) di distruggere il vero spirito nordico.
Lettera 53 (al figlio Cristopher): Tolkien parla del mondo che sta diventando tutto uguale, e conclude: «Ad ogni modo, questo dovrebbe essere la fine dei grandi viaggi. Non ci saranno più posti dove andare. E così la gente (penso) andrà più veloce» (p. 76). Poco dopo dice: «non sono del tutto sicuro che una vittoria americana a lunga scadenza si rivelerà migliore per il mondo nel suo complesso piuttosto della vittoria di –».
Notare: che cosa si può lanciare a partire dalla frase “fine dei grandi viaggi”? La «reazione contro “i classici”» richiama la contrapposizione civiltà germanica/civiltà latina.
Quanto si potrebbe collegare partendo da queste frasi! La critica ha detto di Tolkien: “Questo è nostro!”. Oppure: “Questo invece è nostro!”
Ma anche Mishima suona al caso. L’era degli scudi non chiamava più la penna da portare con sé.
Questo quando parlare non è scambiare parole come monete, ma chiamare alla parola.
Come l’infedele secondo il Corano, il poeta è simile al ragno, che costruisce la propria casa nel vuoto.

          ich bin nur ein Worte-macher:
          was liegt an Worten!
          was liegt an mir!