Così come riportato in Delitto e castigo, l’ultimo sogno di Raskol’nikov precisa che: «Quando [Raskol’nikov] era malato aveva sognato che tutta la terra cadeva preda d’una tremenda pestilenza, inaudita e incredibile, che proveniva dal profondo dell’Asia e avanzava verso l’Europa.» (Fëdor M. Dostoevskij, Delitto e castigo, Feltrinelli, Milano 2013, traduzione di Damiano Rebecchini, Epilogo, 2, p. 510).
Il profondo dell’Asia è la fonte del meticciato slavo; così come l’Africa è la fonte del meticciato latino. Ciò che minaccia l’Europa è il Meticciato che soffia alle frontiere nella sua doppia fonte: meticciato slavo, meticciato latino.
Cencioso e parassitario, arrogante e ben piantato alle frontiere d’Europa, questo meticciato ha la stessa funzione della vecchia usuraia Alena Ivanovna, cenciosa e parassitaria, pericolosa e autoritaria in Delitto e castigo, per quanto non lo si comprenda. Ma è come se Dostoevskij, con il particolare dell’ultimo sogno riportato di Raskol’nikov, avesse voluto lasciare un messaggio.
Raskol’nikov ha ucciso, rubato e posto in salvo la ricchezza procuratasi in quel modo nascondendola sotto una pietra. Togliere la vita a un meticcio è come togliere a un ladro la ricchezza che quel ladro ha messo insieme attraverso i vari furti commessi. Ogni meticcio ruba; ogni meticcio ruba sempre, anche quando non ruba. Il meticcio è quell’essere la cui pericolosità consiste nell’essere al mondo, indipendentemente da quello che fa. Comprendere questo è anche giungere a ciò che permette il riconoscimento del meccanismo dell’arte degenerata. Si giunge all’arte degenerata solo quando l’arte permette al meticcio di manifestare la propria condizione, unendola in modo inscindibile alla perfezione dell’oggetto d’arte, ma permettendo di trarre la relativa soluzione finale.
Non si può considerare il delitto “individuale” di Raskol’nikov, riportato in Delitto e castigo, senza pensare al delitto non individuale, perché delitto di razza, che richiede una nuova forma di romanzo per essere considerato. Sempre parlando a livello di romanzo – naturalmente.
Delitto e castigo è un romanzo che non parla della eliminazione di una o più razze, ma considera, come tema di discussione, l’eliminazione di una vecchia usuraia, un “pidocchio”, e che su questa possibile eliminazione innalza la sua costruzione romanzesca. Raskol’nikov è colui che passa subito alla eliminazione del pidocchio – e subito dopo alla eliminazione della innocente Lizaveta, sorella dell’usuraia (del pidocchio) e testimone indiretta del delitto appena avvenuto.
Nella logica del romanzo, l’innocente sorella è destinata a cadere, perché individuo trovatosi, per caso, nel posto sbagliato nel momento sbagliato (infatti, al di fuori, di quel particolare, ella avrebbe avuto pieno diritto a vivere; nella logica della nuova epica, sarebbe invece destinata comunque alla soppressione in quanto appartenente alla stessa razza della vecchia usuraia, per quanto di carattere completamente diverso, particolare inconsistente. È chiara la differenza? Infatti proprio questa differenza ne autorizza la soppressione (mentre invece nel romanzo nichilista Delitto e castigo, nichilista perché scritto dal punto di vista dell’individuo, l’uccisione della sorella dell’usuraia appare come la cosa più ingiusta). L’individuo e la razza devono sempre funzionare in due modi assolutamente opposti.
Ma la degenerazione è qualcosa che riguarda l’individuo solo in quanto l’individuo è il risultato di una degenerazione. Solo così la degenerazione può essere determinata. Ciò che supera l’individuo è la mancanza di degenerazione, che è qualcosa che noi non possiamo ancora vedere, così come non possiamo vedere la nuova forma di epica.
Il romanzo slavo, secondo l’azzeccata formula di d’Annunzio, ha qui il suo inciampo: non pensa per razze, perché è una forma che pensa l’individuo per l’individuo – cioè l’individuo che ha a che fare con l’individuo attraverso la polifonia indicata da Bachtin. Polifonia tutt’altro che intricata.
L’inciampo è ciò che non si scorge essere nelle vicinanze che accade di percorrere, ma che nemmeno si può allontanare di colpo. Così Nietzsche esprimeva dubbi sulla possibilità di creare colonie tedesche o svizzere in Paraguay mescolando l’elemento tedesco con quello latino (cioè con il meticciato): «Da parte svizzera sono stato indotto a pensare che i numerosi, quasi sistematici fallimenti delle colonie tedesche o svizzere negli stati attorno a La Plata abbiano origine nel mescolamento delle nazionalità, vale a dire nella vita promiscua di elementi tedeschi e latini. Non si riesce ad avere un sentimento patrio, la sensazione di una casa, se si ha nelle immediate vicinanze la sporcizia italiana ecc.» (F. Nietzsche, Epistolario. Volume V. 1885-1889, Adelphi, Milano 2011, versione di Vivetta Vivarelli. A Bernhard Förster ed Elisabeth Förster-Nietzsche. Nizza, 2 gennaio 1886, p. 136). Il problema di fondo è sempre lo stesso: alleviare la terra dalla sporcizia che più da vicino la minaccia – cioè dal meticciato.
Delitto e castigo è il romanzo che si costruisce attorno a nozioni di vicinanza e distanza abilmente modificati in rapporto a ciò che scaturisce dall’uccisione del pidocchio. Ma la rinascita di Raskol’nikov avviene sotto il segno della Resurrezione di Pasqua, che è ciò che fa risorgere il concetto di individuo, che comporta il fatto di buttare via il pidocchio con le pulizie di primavera – e che è l’opposto dell’uccidere il pidocchio. Raskol’nikov sconta l’uccisione del pidocchio rendendosi conto che ogni pidocchio è un essere umano, quindi aderendo all’ideologia del meticciato.
Se infine un romanzo è vittoriosamente giunto alla possibilità di considerare l’uccisione di un individuo – quando un individuo non è altro che un pidocchio – una nuova forma epica deve pensare la possibilità di uccidere una razza quando questa non è altro che un pericolo per le forme sane. E allora di passarla liscia, senza castigo né resurrezione.
Si ribadisce che togliere la vita a un meticcio è come togliere a un ladro quella ricchezza che il ladro ha messo insieme attraverso i diversi furti commessi.
La nuova forma epica deve iniziare là dove la vecchia forma si è fermata. Se Delitto e castigo si costruisce attraverso la vicinanza di personaggi intorno al protagonista (Raskol’nikov che deve proteggere la sorella Avdot’ja Romanova insidiata, in forme diverse, da Svidrigajlov e da Lužin, l’amico Razumichin che è parente dell’inquirente Porfirij Petrovič, Sonja, con la quale Raskol’nikov entra in contatto dopo avere incontrato il padre in una bettola ed essere stato testimone, pochi giorni dopo, della sua morte a causa di un incidente stradale, lo stesso metodo di Porfirij Petrovič che ha lo stesso fine: concedere la libertà al colpevole in modo da mantenere la massima vicinanza con lui, vicinanza che permette di stringere la rete addosso a Raskol’nikov, così la nuova forma epica deve stabilirsi come epica della distanza. Ma distanza che farà sì che un pidocchio non potrà mai essere scambiato per un essere umano, tanto meno per il nuovo essere umano, che deve invece essere il risultato di uno sforzo collettivo, vale a dire di un allevamento in base ad un progetto particolare. Né progetto né collettività sono considerati in Delitto e castigo.
Prima di tutto è il concetto di essere umano che deve cambiare. Delitto e castigo recupera il vecchio concetto di essere umano andandolo a ripescare nel sottosuolo fognario di San Pietroburgo: è il profondo dell’Asia, attraverso la Siberia, dal quale la nuova pestilenza avanza verso l’Europa.
Questo equivale a rileggere Delitto e Castigo impostando le giuste domande. Raskol’nikov è il meticcio (perché non è l’individuo, bensì è la razza meticcia, che, nella riconsiderazione della domanda di Raskol’nikov, deve giungere alla domanda circa la legittimità della soppressione dell’altro: è solo il meticciato che può eliminare il meticciato). Alena Ivanovna è il meticciato proiettato, vale a dire il meticciato visto da colui che non ha paura della propria azione, come invece ha dimostrato di avere Raskol’nikov. Raskol’nikov è colui che non ha proiettato il proprio meticciato di razza degenerata come razza che deve essere eliminata, insieme al pidocchio da sopprimere, giustamente individuato nella vecchia usuraia ma come massa alla quale deve essere concessa una resurrezione, poiché, secondo l’istanza avanzata da Sonja, anche il pidocchio Alena Ivanovna sarebbe un essere umano.
In Delitto e castigo c’è la presenza del coro alle prese con la monodia, più che la polifonia. Il coro polifonico in Dostoevskij va bene per far felice il vecchio Lukács – e ingannare Bachtin. Per cui ci si può chiedere: come funziona, questo meccanismo, a livello di romanzo?
La città con i suoi abitanti si stringe in una soffocante vicinanza intorno a Raskol’nikov, mentre le strade della città diventano strade che portano, cioè che lo portano alla sua destinazione finale, come accade appunto nell’episodio narrato in VI/3, quando Raskol’nikov, diretto in casa di Svidrigajlov, dopo aver camminato assorto nei propri pensieri, si accorge di essere giunto fuori strada, e fa per tornare indietro, ma proprio allora vede Svidrigajlov là dove non si sarebbe mai aspettato di trovarlo, e si accorge di essere sulla strada giusta, poiché mai lo avrebbe trovato se avesse preso la strada giusta per trovarlo – indicando come punto giusto dove trovarlo il punto là dove egli avrebbe dovuto essere.
Siamo quindi in una terra che circonda con le proprie attenzioni coloro che la occupano, senza abitarla, non arrivando a drastici interventi come nel racconto La strada di Lovecraft, ma arrivando a “spostare” da una parte all’altra i suoi occupanti, in modo da farli giungere alla decisione definitiva, distruttiva per loro: è una terra degenerata che risponde con vibrazioni ai movimenti dei suoi occupanti più che mai degenerati.
Riconoscendo Raskol’nikov, grazie a Sof’ja Semenovna, la sacralità del pidocchio Alena Ivanovna, Delitto e Castigo riconosce la sacralità del meticciato e la necessità di colpa e redenzione da parte di Raskol’nikov, consistente nell’avere eliminato un singolo pidocchio, il tutto implicitamente compreso nell’atto di difesa del meticciato. Qual è la forma che Raskol’nikov riserva alla propria collocazione nel rapporto con l’Altro?
Un tratto avvicina Delitto e Castigo (1866) a Boris Godunov (1831) di Puškin: la domanda del tipo “perché non io?”, che si pongono i rispettivi protagonisti, il giovane studente Raskol’nikov e il giovane monaco Grigorij, più o meno coetanei. Questa domanda nasce dal nichilismo, che attanaglia l’individuo. L’individuo qualunque può adesso porsi questa domanda perché non riconosce più la distanza fra le cose, le cose e la Cosa. Ma meno che mai riconosce se stesso come forma del meticciato. Questo è ciò che invece dovrebbe fare se rispondesse alla domanda che, implicitamente, egli ha posto guardando l’Altro che aveva di fronte a sé e riconoscendolo come manifestazione del meticciato. Se uno equivale a uno, allora uno qualsiasi può fare quello che prima aspettava a colui che era stato ufficialmente investito di una missione particolare (consistesse questa missione nell’essere Napoleone o nell’essere il figlio vivente dello zar ucciso da bambino).
È sufficiente, questo particolare, a determinare la degenerazione? La degenerazione dell’individuo nobile è qualcosa che riguarda anche la degenerazione dell’individuo non nobile. È qualcosa che riguarda l’individuo solo in quanto l’individuo è il risultato di una degenerazione di per sé. Ciò che infatti supera l’individuo è la mancanza di degenerazione, che è qualcosa che noi non possiamo ancora vedere – e di cui Delitto e castigo non parla, così come non parla il Boris Godunov di Puškin.
Se le strade che portano sono una caratteristica del romanzo moderno (Hans Ulrich Gumbrecht, La strada, in Il romanzo. IV. Temi, luoghi, eroi, Einaudi, Torino 2003, pp. 465-493), allora la lettura di un romanzo deve comportare, nel lettore, il confronto con le varie strutture del romanzo, realizzate o possibili – affinché venga portato nella nuova forma. Così, leggendo un romanzo, noi siamo portati verso nuove forme possibili, che possiamo solo intravedere, attraverso il vecchio tipo di romanzo che stiamo tanto leggendo quanto lasciando.
Il ragionamento di Raskol’nikov blandisce la vicinanza, ma, come succede a Boris Godunov, non è all’altezza della sua azione e rimane vittima di una falsa vicinanza che continuamente lo spia e commenta la sua azione. “Tutti sanno!”, pensa egli diverse volte nel romanzo a proposito del suo delitto, di cui, in effetti, nessuno sa niente, poiché l’unica che, di colpo, aveva saputo, la sorella del pidocchio Alena Ivanovna, era stata eliminata proprio da Raskol’nikov. La risoluzione avviene infatti tramite la riconquista di una vicinanza, questa volta non più ostile. Quindi attraverso una vicinanza fatta infine oggetto di una domesticazione. Cioè una vicinanza falsa.
Subito dopo la condanna a otto anni di lavori forzati in Siberia, Sonja si trasferisce nel villaggio siberiano dove c’è la colonia penale in cui è rinchiuso Raskol’nikov, in modo da stargli vicino. Dal canto suo, Raskol’nikov non prova nessun sollievo per questa vicinanza non richiesta e tiene a distanza gli altri condannati perché non si considera colpevole. Egli è ancora sicuro della distanza che ha instaurato con il gesto compiuto, anche senza averne saputo poi trarne le conseguenze. Infatti, per Raskol’nikov il singolo pidocchio è ancora da eliminare. Sonja si acquista invece la simpatia dei detenuti attraverso la vicinanza che ella manifesta nei loro confronti.
La collocazione di Raskol’nikov come individuo ha adesso l’efficacia di un punto determinabile attraverso una vicinanza che è avvicinamento (o ingrandimento lungo una carta geografica all’inizio comparsa a distanza). Così Raskol’nikov viene rintracciato, nel romanzo, nella sua nuova collocazione in Siberia: «Siberia. Sulla riva di un fiume ampio e desolato sorge una città, uno dei capoluoghi amministrativi della Russia; nella città c’è una fortezza, nella fortezza una prigione. In questa prigione è rinchiuso da nove mesi […]» (Epilogo, 1, p. 497).
Il gesto di Raskol’nikov proietta il meticciato nell’Altro, ma non riconosce l’altro in sé come risultato di una degenerazione, da qui l’impossibilità di via d’uscita – che solo può essere impostata attraverso la distanza; cosicché l’unica via d’uscita deve impostarsi attraverso una nuova formulazione della nozione di vicinanza, che è l’omologo della formulazione nichilistica della nozione di individuo.
Così la vicinanza è qualcosa che condanna il gesto di Raskol’nikov, tanto è vero che i detenuti ritengono Raskol’nikov un “ateo”, un pensatore nichilista, uno che pensa diversamente da loro e che pertanto essi ritengono giusto condannare all’isolamento e al disprezzo, fino a considerare giusto tentare di sopprimerlo. Tutto in considerazione di una falsa distanza.
Soprattutto nella seconda versione, il Boris Godunov di Musorgskij, derivato dal dramma di Puškin, insiste su questa vicinanza con la grande importanza attribuita al coro. Il coro non è più un personaggio indicante una collettività singola, come nelle varie forme del teatro d’opera, che ha uno spazio di movimento ben delimitato, che lo fa entrare in scena, cantare e uscire, ma un elemento fluido che serpeggia plurale intorno all’infanticida, allo scopo di non dargli scampo, e stringerlo fino allo strozzamento. Saltando da una vetta all’altra del tempo, lo si potrebbe vedere come l’anticipazione dello straniamento epico, che sul palco osserva, commenta e condanna i gesti degli odiati potenti.
Dopo una malattia, che ha coinciso con il periodo pasquale, Raskol’nikov avverte una differenza e sente la vicinanza di Sonja. Quella vicinanza della donna, che è amore, gli permette di comprendere la vicinanza con tutti gli altri esseri umani e quindi la mostruosità del suo gesto, per cui egli è pronto a scontare la pena, ormai di soli sette anni, e quei sette anni, che adesso sono paragonabili a sette giorni costituiscono il confronto fra la Settimana di Passione e la settimana di creazione del nuovo mondo fondato sulla vicinanza rinnovata, che egli ha appena terminato di inaugurare.
Abbiamo così una strana ambiguità: l’omicidio è condannato, ma solo grazie a quell’omicidio un uomo ha ottenuto la salvazione – quindi quell’omicidio è stato un bene e se, per disgrazia, esso non fosse mai stato commesso, Raskol’nikov non avrebbe ora nessuna possibilità di resurrezione, poiché la resurrezione era ciò che egli chiedeva, e solo tramite il delitto è adesso chiaro che egli può ottenerla. Qual è dunque la funzione della vecchia usuraia? È la funzione di una domanda mal posta oppure posta fuori tempo. Perché ciò che il nuovo tempo impone, non riguarda l’uccisione di un individuo (alfine di migliorare le condizioni di vita di una piccola comunità – come era nelle intenzioni di Raskol’nikov), bensì l’uccisione di una razza (alfine di alleviare la terra). Infatti questa resurrezione si basa sul delitto individuale, che è ciò che Dostoevskij poteva ottenere tramite la forma del romanzo (e giungendo così alla formula del “romanzo slavo”), mentre ciò che bisogna ottenere – ora – è la nuova forma epica, che non può che mettere il genocidio al posto prima tenuto dal delitto individuale, e cancellare la ridicola resurrezione nel pieno pentimento nella macerazione del meticcio slavo, perché ciò che deve ottenere questa nuova forma, non è una nuova vicinanza attraverso la vecchia forma del romanzo, ma l’epica della distanza attraverso la nuova forma, che noi non possiamo vedere.
Ogni tanto mi chiedo: “Comparirà mai un romanzo, di cui si possa dire: ‘ecco una cosa diversa?’”. Ma mi piace pensare che Dostoevskij, questo disgustoso meticcio slavo, nell’ultimo sogno di Raskol’nikov abbia voluto lanciare un segnale, su ciò che realmente comporta l’arrivo di ciò che è slavo in Europa… In quanto grande artista, Dostoevskij ha messo in guardia sul pericolo rappresentato dalla sua razza.
È un po’ come quello che avviene negli ultimi biglietti di Nietzsche, dove tutti quei messaggi, scritti a persone diverse, sembrano tendere a un unico significato, trasmettendo ai diversi destinatari lo stesso messaggio e dove il senso ultimo, raggiunto nell’ultima lettera, che è anche quello fatto ormai rizoma, riporta il nome “Nietzsche”, che era il nome iniziale, conclusione del percorso, e dove l’avvio è invece nel biglietto a Brandes, che gioca sul fatto di avere scoperto ciò che era ormai facile trovare, ma impossibile perdere.
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Il film
Il film tratto da un romanzo appassisce cose che in un romanzo sono presenti. Ma questo dipende dal fatto che, nel film, ci si accanisce a seguire una grammatica di racconto stabilita a livello di azione. Di per sé il film tratto dal romanzo potrebbe ricreare il romanzo in altri modi, arricchendo anzi il romanzo. Si è scelto di limitarsi a ciò che si intende come azione – dando per scontato che il romanzo sia costituito da una serie di azioni. E stando così le cose, il film sarebbe chiamato a riassumere ricordando azioni. Il film ha l’effetto di una serie di tableaux vivants, che ripropone i momenti in cui l’azione ha meglio imbrigliato i personaggi nel romanzo, intervenendo dove lo scrittore poteva dal canto suo soltanto agire sull’immaginazione del lettore. Il film si pone come aggiornamento tecnologico del genere romanzo.
Immaginiamo un film tratto da Moby Dick di Melville, che presenti non solo l’azione legata alla caccia alla balena di nome Moby Dick, ma anche tutta la parte enciclopedica sulla balena, che costituisce il tratto caratteristico del romanzo di Melville Moby Dick. Vale a dire: immaginiamo il film che da Moby Dick non è mai stato tratto.
Un romanzo comprende parti narrative e parti sceneggiate – queste ultime sempre più insistenti. Il film dovrebbe tenere presente questa alternanza, così come ogni film dovrebbe basarsi sul rapporto tra film e cinema – in questo devo dire che il detestabile finocchietto e meticcio italiano Pier Paolo Pasolini aveva perfettamente ragione nel richiamare il rapporto che la linguistica strutturalista ha stabilito tra “lingua” e “parola”.
Margaret Doody ha fatto notare (Dare un volto al personaggio, in Il romanzo, I, Einaudi 2001) come gli illustratori dei romanzi si siano sempre concentrati sui momenti fondamentali della trama come momenti che si possono riassumere in una singola scena di azione. Come poi i registi cinematografici, essi volevano mostrare i personaggi in azione o al centro di una scena di grande azione.
Al punto in cui siamo, trarre un film da un romanzo vuole dire permettere al lettore di vedere quello che il lettore si sarebbe aspettato di vedere come ciò che avrebbe veduto se fosse stato lo spettatore, anziché il lettore, di quel testo.
Limiti del romanzo
Forma estrema del romanzo, sempre possibile: “Romanzo senza parole”.
Alternativa: «Tutti i materiali della nostra vita sono materiali di cui possiamo fare ciò che vogliamo. Chi ha molto spirito fa molto della sua vita. Ogni conoscenza, ogni avvenimento, per chi è completamente spirituale, costituirebbe il primo elemento di una serie infinita, l’inizio di un romanzo infinito.» (Novalis, Polline, 66, in Id., Opera filosofica. I, traduzione di Giampiero Moretti, Einaudi 1993, p. 383.)
Abilità: Scrivere un romanzo eliminando trama e personaggi.
I libri devono fare a meno del lettore: devono essere posti in modo da leggersi e parlarsi esclusivamente fra di loro. Il libro deve così tendere a una fraterna forma nucleare, volta a sfiorare la totale illeggibilità. Si ha letteratura solo quando il desiderio di uccidere la lingua ha trovato un modo fra i tanti ufficiale di manifestarsi.
Certamente, la letteratura offre opportunità a colui che sbircia la possibilità di guadagnarsi da vivere continuando a scribacchiare storie – in quanto scrittore. È lo scrittore fatto mestierante, che realizza il dominio tecnologico dell’arte nefasta di scrivere; ma la letteratura accoglie pure la possibilità dello scrittore che niente sa di ciò che scrive. Con lo scrittore avviene come col pensatore: non capisce ciò che fa, meno ancora gliene importa qualcosa; è ciò che di estraneo egli immette nell’opera che permette di ricreare continuamente, in forme diverse, quello che egli per primo ha pensato, tornando sempre a fissare.
Quello che Foucault non ha considerato nell’articolo Che cos’è un autore?: l’Autore è il Lettore ideale del libro che pure alla fine egli ha scritto, quindi è il lettore ideale del libro che, da sempre, egli avrebbe voluto leggere anziché scrivere. Si scrive solo per leggere la propria opera; non per essere autore, ma per diventare ideale e perfetto lettore di un libro che si configura sulla base di un traguardo di illeggibilità. Altrimenti si è soltanto scrittori di professione.
Giorgio Manganelli aveva fissato la letteratura “come menzogna”. Andava bene. Se consideriamo la letteratura come menzogna, possiamo vedere lo scrittore impegnato nella questione della verità come ciò con cui meno che mai ci si può porre in dialogo. O che spreca il suo tempo insieme al talento suo. Prendiamo Pasolini. Il guaio di Pasolini è che era un finocchietto, per cui non si può dire qualcosa su Pasolini senza dire che era un finocchietto; anzi, ad essere precisi senza dire che era un finocchietto italiano. Ma parlare del finocchietto italiano Pasolini è proprio quello che non si può fare. Così non si parla del finocchietto Pasolini e non si capisce che l’unico modo di parlare di Pasolini non è altro che quello di parlare del finocchietto Pasolini. Parlare del finocchietto Pasolini, è parlare del meticcio italiano. E qui ritorniamo daccapo. Fermo restando che parlare del finocchietto Pasolini non è parlare dei finocchi: né in bene né in male, deve essere chiaro. Concludo ribadendo che Pasolini era un finocchietto italiano.
Scrivere in verticale
Si è sempre pensato a scrivere in orizzontale, ora bisogna cominciare a scrivere in verticale. Scrivere in orizzontale è portare avanti una storia, dimostrare una tesi; scrivere in verticale è tuffarsi in ogni parola, andare a fondo (in tutti i sensi), anziché andare avanti. L’aforisma di Nietzsche è in parte un modo di scrivere in verticale. Anche tutto il pensiero frammentario (Novalis) lo è.
Contrariamente a quello che cercano di ottenere i corsi di scrittura creativa, bisognerebbe ora creare la possibilità di scrivere, in modo difficile, un libro impossibile da leggere.
Scrivere è tenere insieme le cose, impedire che si sparpaglino dappertutto.
Leggere i libri è sempre un’attività compromettente. I libri si indeboliscono quando vengono letti, eppure non è possibile evitare di leggerli, se si vuole realmente conoscerli. Alla base di tutto deve esserci il principio di leggere tutti i libri del mondo e scriverne uno che li contenga infine tutti. Che è il principio di scrivere un romanzo interamente fatto di frasi fatte. Allora leggere diventerebbe un modo per scrivere un libro e per vanificare il concetto di Autore. L’Autore muore sempre quando il suo libro viene letto. Bisogna non solo imparare a scrivere in verticale, ma anche imparare a leggere in verticale.
Pasolini, Teorema
Se l’arte del disprezzo è ciò che si potrebbe pensare come l’arte che dovrebbe essere insegnata in questa epoca tanto fastidiosa quanto radicalmente perbene, tale arte è ciò che, meno che mai, potrebbe essere resa materia di insegnamento; perché riguarda ciò che, per istinto, deve essere posseduto fin dall’inizio – cioè ciò che permette a ciascuno di distinguere fra salute e malattia, vale a dire ciò che permette di indicare ciò che deve essere eliminato senza porsi il problema della confutazione, poiché la malattia è proprio ciò che non deve essere confutata, ma eliminata.
Siamo qui per parlare del meticciato. Non si tratta di interpretare un testo (meno che mai il romanzo Teorema del meticcio italiano Pier Paolo Pasolini), ma di indicare come una forma di disprezzo verso il meticciato, e verso i prodotti culturali del meticciato, in questo caso verso il romanzo Teorema del meticcio italiano Pier Paolo Pasolini, possa prendere forma.
Se il meticciato è quella cosa che tutto spiega, ma della quale non è possibile parlare, allora impostare la chiave di lettura sul meticciato è fare riferimento a ciò che non ha fondamenta, e quindi abbandonarsi al gioco per cui meno che mai il gioco vale la candela.
Il meticcio vuole l’estinzione. La degenerazione della razza è sempre il fenomeno esteticamente più interessante (come aveva indovinato Lovecraft) e l’arte degenerata ne è l’esempio estremo. Guai, dico io, a celarne i tardivi frutti. Gobineau ha scritto in merito cose notevoli.
Non mi piace pensare che i meticci, in quanto qualcosa di biologicamente vicino agli animali, si chiamino stando appesi da un ramo all’altro dell’albero del tempo al fine di corrispondersi con fastidiosi richiami. Mi piace pensare che la brutta musica del meticcio russo Šostakovič chiami la brutta musica del meticcio italiano Rossini, sul ramo del tempo attratto tanto prima di lui.
Per togliere loro la vita, è importante giungere a capire come i meticci giungano a presentare se stessi come ciò che ha diritto di negare il principio di vita indegna di vivere, che è appunto ciò che deve essere ripensato.
Con i nostri sparuti occhi d’Occidente vediamo un medesimo sacchetto di spazzatura che si gonfia attraverso gas diventato loco comune. Perché ciò che deve essere pensato, cioè ciò che porta alla separazione, è la degenerazione – che noi, sotto i nostri occhi dell’Occidente, ci ostiniamo a non volere più vedere.
Qual è la posizione di Teorema, il romanzo del meticcio italiano Pier Paolo Pasolini che ci tiene qui allacciati, attorno a questo sacchetto di vecchia immondizia dove troviamo molte cose frettolosamente rinchiuse per essere gettate?
Il romanzo Teorema si compone di quarantasette capitoli divisi in due parti, rispettivamente di ventotto e diciannove capitoli – più l’Appendice alla prima parte, costituita da cinque poesie. Abbiamo pertanto quarantadue capitoli in prosa e quattro capitoli in poesia (più l’Appendice alla prima parte). Considerate le proporzioni, non si può dire che questo romanzo mischi prosa e poesia, ma si può dire che la poesia vi giochi un ruolo costante, strategico, cristallino, nascosto all’interno di un qualcosa delegato alla prosa – che concerne il sacchetto della spazzatura e la raccolta differenziata dei rifiuti.
Questo però non dice niente, perché noi siamo qui per parlare del meticciato, che è appunto ciò di cui questo romanzo non dice niente. Il romanzo Teorema non parla del meticciato.
Ma ecco la mia convinzione: Pasolini era un meticcio; Šostakovič era un meticcio bello e stracciato, autore di uno stantio fior fiore di arte degenerata.
Però il meticcio italiano Pasolini era incomparabilmente più geniale del meticcio russo Šostakovič. (Questo nessuno lo può negar!)
A malincuore lo sostengo, perché i meticci italiani non li ho mai potuti soffrire. Ma un meticcio è un meticcio, spazzatura chiusa in un sacchetto da gettare.
Come no!
C’è un piano di smaltimento dei rifiuti che contempli lo smaltimento del meticciato?
Non mi risulta che un meticcio sia qualcosa da smaltire in qualche contenitore apposito – per ora.
Confrontiamo le facce burbere di questi due meticci: nelle fotografie vediamo che Šostakovič ha una faccia impensierita (non si tratta di una faccia pensierosa, ma di una faccia impensierita), infatti la sua musica non è una musica che chiama il pensiero, ma soltanto una musica impensierita. La fotografia di questo volto burbero rimanda lo schizzo sgraziato di ciò che musica era e che come musica salta addosso, prima di tutto al suo creatore, alieno singhiozzo, poi che salta addosso a colui che ha la sfortuna di porsi come il suo più povero ascoltatore – infatti la musica di Šostakovič è un tempo buio che deve essere percorso dai suoi ascoltatori –; Pasolini ha la faccia che si perplime secondo una accanita rete di rughe. Le rughe sono strade che allacciano percorsi che si bloccano. Nel meticcio italiano Pier Paolo Pasolini non c’è niente da pensare, solo vie da sterrare.
Il meticcio è una cosa che deve essere eliminata.
Infatti questo è importante ogni tanto: far sapere, per capriccio, a un meticcio, che è un meticcio. Per il resto vale sempre la regola del carro bestiame.
Notare, dico, come i capitoli incrinino il rapporto di causa/effetto, fondamentale in ciò che per noi determina la narrazione. Questo è sufficiente a mettere in discussione la temporalità, cioè il fatto che un avvenimento, raccontato all’interno di questo romanzo, avvenga prima o dopo di un altro avvenimento raccontato in questo romanzo. Che cosa vuole dire, quindi, questo modo di allestire un romanzo? Che le frasi non sono allacciate da un rapporto di causa-effetto, ma hanno valenza di frammenti; e, nel caso dei versi, di aforismi. Questo è uno dei punti di forza del romanzo Teorema, che così si pone dal punto di vista dell’opera frammentaria o aforistica, cosa che invece non si può dire della brutta musica del meticcio russo Dmitrij Dmitrjievič Šostakovič, che non ha mai segnato niente di nuovo, ma ha sempre solo segnato il brutto passo sgraziato del suo paese di meticci.
In Teorema questo caso è riassunto nella figura sgraziata del cronista, che pone delle finte domande (non è un caso che la parte del cronista, nel film Teorema, sia stata affidata a Cesare Garboli), domande che contengono già in sé le risposte, e infatti nessuno degli intervistati si piglia la briga di rispondere. Cosa riguarda queste domande? ineluttabilità della rivoluzione e missione del proletariato.
Ma questo è proprio quello che permette a Pasolini di impiantare il suo romanzo.
Per questo noi ci siamo trovati qui per parlare del meticciato. Il discorso di Pasolini deve essere bloccato nella misura in cui egli pensava di parlare del popolo italiano, mentre invece è del meticcio italiano, cioè del meticciato italiano, di cui si deve parlare. E di cui Pasolini, come già d’Annunzio, ha vittoriosamente accennato a parlare.
L’ospite-Cristo è presentato con quella serenità dell’idiota indicata da Nietzsche come modo di essere di Gesù nel mondo. Ma un bastardo di italiano è sempre un bastardo di italiano. L’ospite-Cristo è il personaggio meno tematizzato tra tutti quelli di cui tratta questo romanzo. Sono invece tematizzati gli altri, sconvolti dall’incontro avuto con lui. Quello che è discutibile è avere chiuso l’incontro con il divino (si potrebbe dire qui soltanto un cristianesimo alla Jesus Christ Superstar) corretto secondo la piccola ideologia dei soviet, che era quanto, allora, un meticcio italiano di sinistra poteva permettersi di chiacchierare. Si ripete che ciò non toglie che il finocchietto di sinistra, e meticcio italiano, Pier Paolo Pasolini, in quell’occasione, sia andato oltre anche solo per un minimo.
La prosa viene utilizzata nel suo massimo ventaglio per indicare un referente qualunque fra i possibili (può essere primavera o autunno, il giorno prima o il giorno dopo); la poesia nella unicità della parola intesa come suono.
Il capitolo 27 della prima parte, «Gli Ebrei si incamminarono…», è invece una via di mezzo tra prosa e poesia. Proietta su un piano mitico una vicenda individuale, pur rimanendo essa stabilita nella prosa.
Così Teorema non affronta una soluzione diversa, ma rimane in una impostazione umanistica ideologicamente delimitata.
La questione è tra rappresentazione (prosa) e non rappresentazione (poesia)? il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini c’è andato vicino, ma poi ha sempre evitato di giocare sul problema – che vuole dire: trattare il problema.
La questione è la terra in quanto problema che pone la questione del “teorema” come questione della terra con cui si ha a che fare. Che è ciò che il romanzo Teorema non affronta. Ma questo voleva dire togliere la terra sotto i piedi del meticcio italiano Pier Paolo Pasolini; cioè togliergli la sua falsa terra, perché un meticcio è sempre ciò che non ha mai terra dove poggiare. Cosa che egli, finocchietto com’era, mai avrebbe potuto fare.
La poesia è ciò che non ha bisogno di rappresentazione, mentre la prosa è ciò che vediamo qui chiamata ad una rappresentazione straniata. Questo è il colpo di genio.
Ma ipotesi da avanzare: se Teorema fosse stato scritto da uno scrittore di razza bianca, anziché da un meticcio, come il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini è stato, sarebbe venuto fuori un capolavoro? L’opera d’arte geniale non è mai intralciata dalla razza. Solo un meticcio poteva scrivere la Commedia di Dante; il caso ha voluto che fosse un meticcio italiano a scriverla; ma nessun poeta di razza bianca avrebbe mai potuto scrivere quella cosa disgustosa che è la Commedia di Dante, richiedendo essa, sempre, un meticcio in funzione di autore.
Che cosa blocca il meccanismo Teorema che abbiamo, vale a dire la carcassa che ci rimane fra le mani, cioè quel tale romanzo ingombrante? La carcassa del meticcio è ciò che sporca la terra. La terra è ciò che deve essere sollevata dal peso del meticciato. Solo così potremo parlare di una terra alleviata.
Il narratore di Teorema mette a punto il suo spazio scenografico.
Questo spazio è solo scenografia rappezzata alla meno peggio; che spetta al narratore descrivere, cioè trasferire in forma narrativa facendone lo sfondo per la rappresentazione del teorema in questione.
Quando i fatti di Teorema vengono narrati, non sembra di seguire una narrazione, quanto di avere a che fare con la descrizione di una scenografia.
È rilevante il fatto che i personaggi non parlino, non si scambino battute di dialoghi, ma comunichino tramite un gioco di posture.
Il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini crea il falso spazio che è la falsa terra giusto acconciata per lui. Il primo a non credere in questa falsa terra è proprio il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini. Infatti il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini delega al cronista le domande-palafitta che egli stesso ha composto come le domande che non chiedono risposta. Ma che cosa è la domanda che non chiede risposta? è il nuovo Cristo, cioè la nuova immagine del vecchio Cristo che il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini ha impalato nella figura dell’ospite.
È un Cristo un po’ bambolina vudù che vediamo irrompere in quello scenario appena appena rappezzato dal teatro moderno. È il Cristo new-age.
Un bastardo di italiano è sempre un bastardo di italiano, direte voi.
E noi siamo qui per parlare del meticciato. Cioè dell’arte di mettere insieme le bamboline vudù.
Il piccolo linguaggio comune è quello che Genette ci mostrava appartenere a Balzac come livello medio tra il massimo rispetto delle norme sociali e il massimo disprezzo delle stesse, e che mostrava Balzac spiegare le azioni dei suoi personaggi ricorrendo al richiamo di una teoria scientifica tramite «tristi ritornelli» volti a spiegare il modo di agire di una zitella, di una cortigiana, di una duchessa (e infine, possiamo dire noi, di un meticcio italiano sgradevolmente finocchietto e di sinistra).
Come si costruisce lo spazio del romanzo Teorema? Ponendo lo spazio del discorso in cui espressioni come “borghese”, “lotta di classe”, “rivoluzione”, hanno il più profondo significato, cioè creando lo spazio che non esiste – al di fuori di quei personaggi. Il narratore può così chiamarsi in causa. Egli ha un piccolo circolo di riferimento terminologico. È il discorso della sinistra del meticcio italiano anni Sessanta-Settanta, preziosamente sintetizzato nelle bamboleggianti domande del cronista.
Questo è lo spazio minaccioso in cui il narratore di Teorema avvia la sua ninnananna di parole e il cronista quella delle due sue inchieste (quella sulla santità e quella sulla donazione della fabbrica), dove appunto pone le domande.
La minaccia che caratterizza questo spazio militarizzato è lo stesso di quello che regola lo spazio sonoro della musica di Šostakovič. Questa minaccia può essere esibita a livello di interpretazione (come faceva il meticcio russo Kondrašin), o fatta suonare, come faceva Mariss Jansons; ma non nascosta, come faceva Bernhard Haitink.
È importante il tono del linguaggio usato in questo straccio di romanzo, cioè la descrizione straniata: non la narrazione, ma la descrizione di una messa in scena. Il romanzo Teorema ha preso avvio in contemporanea al film omonimo. Ha importanza?
Nel meticcio italiano Pier Paolo Pasolini è fondamentale l’impegno, che è ciò che costituisce la severità della sua prosa (sempre, per questo, autenticamente boccaccesca – cioè scadente) e del suo sguardo pungente e maligno, che vediamo rilanciato dalle fotografie che lo ritraggono e ce lo pongono davanti. Maleficamente, con quel suo piccolo muso di meticcio italiano. Ricorda perfettamente una delle tante descrizioni dei musi dei meticci fatte da Lovecraft nelle sue lettere: «asiatici dal muso di topo e dai piccoli occhi lucenti».
Pasolini organizza lo spazio di Teorema nello stesso modo in cui Šostakovič organizza lo spazio delle sue sinfonie.
Il passaggio della banda festosa in Mahler diventa la banda militare minacciosa in Šostakovič. Se un meticcio è ciò che non ha terra, è anche ciò che ha modo per trovare ad essa il più triste surrogato. L’unico compositore italiano veramente geniale è stato Monteverdi, ma ciò non toglie che anche Monteverdi non fosse altro che un meticcio. Perché un meticcio si conferma nella terra come quella cosa che non ha terra. L’Autore è colui che si dà tanto da fare per farsi notare vivo, quando invece è colui che dovrebbe darsi da fare per fare la parte del morto nel gioco.
Dietro Šostakovič ci sono le orde mezze mongole del meticciato slavo; dietro Pasolini, le orde del nordafrica del meticciato negro-semitoide. Per questo l’Europa non sarà mai l’Europa, in quanto terra della razza bianca d’Europa, finché non avrà mandato via da sé le due branche meticce che da sempre l’hanno soffocata: il meticciato slavo e il meticciato latino.
L’arte del meticcio Pier Paolo Pasolini è una questione di degenerazione della razza. Ma per non parlare più dell’arte del meticcio italiano Pier Paolo Pasolini bisognerà farla finita con il meticciato. Avremo mai il coraggio di dire che il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini era solo un viscido, squallido finocchietto di sinistra – e bastardo di italiano? Cioè uno dei tanti viscidi personaggi del Decameron?
Noi sappiamo che l’impegno si verifica tramite l’intruppamento. L’intruppamento è il tratto che avvicina la bruta prosa del meticcio italiano Pier Paolo Pasolini alla brutta musica del meticcio russo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič. Nel meticcio russo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič l’intruppamento si ha attraverso le brutte marce militari, rozze quanto minacciose, che percorrono le sue quindici volte inutili sinfonie, musica per orde mongole chiamate a caracollare e distruggere qua e là; nel meticcio italiano Pier Paolo Pasolini tramite l’impegno, che il narratore, i personaggi (primo fra tutti il cronista delle due inchieste) pongono in forma di formule o di domande rivolgendosi indirettamente al lettore. In entrambi i casi, questi due meticci hanno bisogno di uno spazietto falso dove dare l’impressione di muoversi con disinvoltura.
Pier Paolo Pasolini e Dmitrij Dmitrievič Šostakovič minacciano il mondo creando opere minacciose. Questi due meticci realizzano un piccolo spazio artificiale dove la loro azione viene teatralmente composta grazie al Verfremdungseffekt. Per il meticcio russo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič sono le linee astratte che richiamano altri mondi sonori; per il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini è lo spazio straniato dove avviene l’azione di Teorema. Ma, in entrambi i casi, la cosa funziona fiaccando la possibilità nell’ascoltatore, o lettore, di un altro modo di intendere.
La musica di Dmitrij Dmitrievič Šostakovič è un periodo che deve essere affrontato – con la speranza di rigettare, non di ignorarlo, finora, perché questo è una lunga epoca buia, che porterà a diverse epoche buie. La musica del meticcio russo Šostakovič ha il suo posto nella musica così come ciò che deve essere affrontato per andare oltre; né più né meno di quanto accade per il meticcio russo Dostoevskij per la letteratura. Avremo a che fare con opere di meticci italiani, di meticci russi, di indios, di negri, di semiti, perché ciò che ha fatto la razza bianca sarà ignorato.
Ciò che il meticciato ha fatto nel mondo è ciò che deve essere cancellato, ma non ignorato. La possibilità della degenerazione è infatti qualcosa che è tra noi e che dobbiamo affrontare.
C’è un racconto di Lovecraft, The Shadow Over Innsmouth, che mostra come la degenerazione razziale sia qualcosa che ci riguardi, perché radicata tra noi, raggiungibile acquistando un biglietto d’autobus – che chiede poco del nostro tempo per mostrarci come noi, infine, finiamo per essere parte consenziente di ciò che prima aborrivamo.
La creazione dell’opera è, per entrambi i due meticci (il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini, il meticcio russo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič), la creazione di uno spazio fittizio, dove il destinatario, lettore o spettatore che sia, viene zittito – in quanto Altro che sta nello stesso luogo per un caso, come luogo dove deve nascondersi. Vale a dire come ciò che sta in un non luogo.
Se la domanda che, nelle opere di questi due meticci, non suona mai, è del tipo: “Che cosa è la terra?” allora la terra è ciò che non viene più presa in considerazione come suono della domanda che deve essere posta.
Il meticcio è ciò che non ha terra, ma che, in alcuni casi, avverte la mancanza di terra come vergogna del suo scorrere la terra, oppure vergogna del suo occupare la terra.
Questo è ciò che accomuna due parolieri italiani così diversi come il meticcio italiano Gabriele d’Annunzio e il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini.
Il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini ha mostrato questa vergogna, solo indirettamente, indicando la domanda, che egli non avrebbe mai avuto il coraggio di impostare, ma domanda che può essere condotta a suonare da altra parte. Questo è ciò che divide le opere del meticcio italiano Pier Paolo Pasolini dalle opere del meticcio russo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič. Cioè le opere che permettono di impostare la domanda, il cui testo è stato impostato per eludere. È questa la differenza che si pone tra i due meticci, il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini e il meticcio russo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič.
Per il resto un meticcio equivale a un altro meticcio, perché sono due cose che concorrono a sporcare la terra, e che, in quanto cose che sporcano la terra, andrebbero rimosse dalla terra che sporcano. Perché solo tramite la rimozione del meticciato si avrà la terra come terra in quanto terra alleviata, cioè come luogo aperto all’abitazione. Che sarà l’abitazione della terra da parte della razza bianca.
Tutto ha inizio da un attimo di tempo disponibile, giusto il tempo di ascoltare la musichetta del meticcio russo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič. La musichetta del meticcio russo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič è ciò che suona per sua natura come musichetta da sempre già ascoltata. Si potrebbe dire che questo è il modo in cui la brutta musica del meticcio russo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič si insinua, malefica forbicetta, nell’orecchio dell’ascoltatore, chiamando, a complemento, la prosa – comunque più sofisticata –, del meticcio italiano Pier Paolo Pasolini. Anche la prosa del meticcio italiano Pier Paolo Pasolini si insinua in una piega. La creazione di uno spazietto per un esperimento mentale. Il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini crea il suo spazietto e dà il titolo di Teorema all’opera che mostra ciò che avviene in quello spazietto; il meticcio Dmitrij Dmitrievič Šostakovič crea le sue onde sonore e poi si ferma lì. (L’ho detto che il meticcio russo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič è inferiore al meticcio italiano Pier Paolo Pasolini, pur essendo, tutti e due, nient’altro che due disgustosi meticci.) Se è un esperimento mentale di cui si tratta, l’esperimento mentale ruota attorno alla frazione infinitesimale in cui il soggetto dell’esperimento è per una frazione infinitesimale di tempo vivo e morto nello stesso tempo.
Spazietto che i meticci si ritagliano = spazietto in cui i meticci che vi si muovono possono essere chiamati “meticci”. Quindi spazio mentale che chiama l’esperimento mentale.
Ma proviamo ad applicare la serie di sopra a Pasolini. Otteniamo quattro punti principali che vediamo non servirci: 1) Pier Paolo Pasolini era un finocchietto viscido di autentico stampo italiano; 2) Pier Paolo Pasolini era un disgustoso meticcio italiano; 3) Pier Paolo Pasolini era un piccolo marxista malignetto perfettamente stampato in 3D dal Partito Comunista Italiano; 4) Pier Paolo Pasolini era un cattolico piccolo ed ipocrita di stampo meticciato italiano, viscidamente e tradizionalmente cattolico. Il tratto comune di questa viscida cosa, comunemente chiamata Pier Paolo Pasolini, è la meschineria, che accomuna quella viscida cosa che è stato il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini alla meschineria del meticciato italiano, alla quale, quella viscida cosa (comunemente chiamata Pier Paolo Pasolini) è stato sempre il degno e sugoso paroliere, fornitore indefesso di parole e polemiche lungo tutta la misera sua vita di meticcio, frocio e paroliere italiano.
Un popolo può giungere ad avere uno scrittore; un meticciato non può avere altro che un paroliere: lo scrittore giunge alla lingua di un popolo in quanto tesoro della razza a cui egli mai può attingere; il paroliere usa la parola della lingua in quanto sacco di parole dell’alingua, di cui egli può fare legittimamente man bassa quando vuole.
Come interviene, il pruriginoso, nel testo di Pier Paolo Pasolini? Pier Paolo Pasolini avverte solo la presenza del pruriginoso, ma quando si tratta di rappresentarlo, ricorre sempre alla scena straniata. Si può parlare di scelta – cioè di uso organizzato del pruriginoso? Che cosa ha rubato, il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini, dal bauletto del Verfremdungseffekt? Come uno zingaro, un meticcio italiano è sempre un ladro, tanto più quando non ruba. È per questo che gli italiani sono giustamente conosciuti come “zingari africani”.
Noi infatti sappiamo che il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini, come tutti i meticci, era anche un ladro.
Ha rubato qualcosa di suo nel momento in cui ha rubato. Che cosa ha rubato, il meticcio, quando è nato? Il meticcio ruba quello che è già suo, ma tutto ciò che il meticcio può rubare è quanto appartiene a ciò che sta nella terra in quanto categoria della “vita indegna di vivere”. Perché il meticciato è proprio ciò che non ha diritto di vivere ma che, se trova diritto di vivere, questo è il risultato di una sopraffazione.
Notare i “Corollari” e le “Inchieste” in Teorema. Ogni corollario è caratterizzato da una funzione specifica, che determina in modo univoco un personaggio.
Corollario di Emilia: funzione religiosa. La religiosità meschinamente popolare. Collegamento: Il trionfo della morte di d’Annunzio. Già l’ho detto: d’Annunzio e Pasolini hanno molti punti in comune, almeno nell’affrontare il meticciato, anche se nessuno dei due avrebbe mai accolto questo inopportuno termine per le loro orecchie asinine.
Eppure d’Annunzio e Pasolini hanno affrontato il meticciato italiano in un modo unico, che ancora deve essere compreso.
Per ora abbiamo i seguenti corollari:
Corollario di Odetta: funzione matematizzante. Fotografia e matematica.
Corollario di Pietro: funzione artistica.
Corollario di Lucia: il piacere del puro movimento (gli adescamenti, il labirinto nel quale ella trova piacevole perdersi).
Corollario di Paolo: la funzione economica. (Il mettersi a nudo, che vediamo realizzarsi nel diciassettesimo capitolo della seconda parte del romanzo.)
Le due inchieste costituiscono il nucleo del romanzo: la posizione della borghesia davanti al sacro e la posizione della borghesia nella lotta di classe. Infatti senza quella cosetta da portare a casa, il tutto non avrebbe senso. Il meticcio tornerebbe a casa sua, come è sempre stato: nudo.
Entrambe le posizioni sono introdotte a forza dal cronista, che le pone come elementi su cui discutere, ma che non sorgono dagli eventi considerati. Ma un meticcio è solo un meticcio, cioè è quella cosa che ha sempre girato nudo, senza che lo si notasse.
La musica di Dmitrij Dmitrievič Šostakovič è un periodo buio nel quale, ciclicamente, dobbiamo sostare, come con le domande delle due inchieste di Teorema.
Un merito del meticcio italiano Pier Paolo Pasolini è di restituire alla vita il meticcio che è alla base di una sua propria sottocultura. Così egli ha riportato in vita i personaggi del Decameron nella sua personale trasposizione cinematografica di quella stupidaggine che il Decameron, pur mettendo il napoletame al posto dei toscanacci, ma richiamando genialmente un noto giudizio di Musil, che probabilmente egli non conosceva (non era colpa sua, era solo un meticcio italiano), e che la fa finita con quella cosa stupida che è il Decameron, così come quell’appunto di Nietzsche del 1882-84 la fa finita con quella cosa stupida che è la Commedia di Dante. (Per farla finita con la “letteratura” dei meticci, bastano appunti di diario o di quaderni vari; l’importante, per farla finita, è che ci sia il disprezzo verso il meticciato.)
Il racconto del meticcio italiano Pier Paolo Pasolini in Teorema è veramente un racconto degno del meticcio italiano Giovanni Boccaccio, molti anni prima che al meticcio italiano Pier Paolo Pasolini venisse l’idea di trarre un film dal Decameron del meticcio italiano Giovanni Boccaccio.
Qual è il nucleo del romanzo Teorema, che vuole rappresentare l’irruzione del sacro all’interno di una famiglia borghese fine anni Sessanta, e che noi vediamo? Dio ha violentato il suo fedele. Il fedele si scopre essere niente. Questo è il nucleo del romanzo. Tutto si è svolto secondo gli schemi: il rapporto dell’ignaro fedele con Dio, Dio che spia il momento adatto per aggredire, e Dio che colpisce, con l’aiuto prezioso del suo fido postino. Teorema mette in luce questo Dio meschino, che si aggira, sempre dio sordido, in squallidi fondali di periferia. Il dio di Pasolini è un Dio meticcio, squallidamente meticcio, un dio lovecraftiano, perché Pasolini era uno squallido meticcio, anche se il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini non lo avrebbe mai ammesso. E alla fine del suo romanzo, il meticcio Pier Paolo Pasolini lo rivela pure, citando dal “Libro di Geremia”: «Mi hai sedotto, Dio, e io mi sono lasciato sedurre, mi hai violentato e hai prevalso» (p. 152).
Quando il fedele – violentato – fa presente questa accusa, nota che tutto era solo un set.
Tutto il discorso del meticcio italiano Pier Paolo Pasolini sul pene innocente dei sottoproletari (rivisto scioccamente nelle novelle del film che il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini ha tratto dal testo del meticcio italiano Giovanni Boccaccio) è debitore di questa visione del Dio meticcio che può solo manifestarsi brutalizzando il “suo” fedele, poiché un tale dio non ha un fedele, ma solo un punto che si muove in una terra che non appartiene a nessuno, sordida, aperta a tanti passaggi, dove un dio sconcio, come appunto il dio semita è, può violentare il suo fedele. (Ma, ad essere precisi, la terra dove agisce questo dio non è una terra, ma una terra, luogo marcato dalla installazione di un set adeguato.)
È un caso che io abbia fatto un confronto tra un romanzo di Pasolini e la musica di Šostakovič, però il confronto poteva essere fatto solo tra due meticci.
Questo è un esempio di quello che può essere chiamato “Cristologia gay”. Il Cristo pantocratore è il signore del mondo. Il Cristo domina ciò che è chiamato mondo. Colui che gli si oppone, può farlo solo in nome di una diversa visione del tutto su cui ha lanciato lo sguardo, cioè sul mondo.