Vizio di forma (2009) di Thomas Pynchon porta alle estreme conseguenze quel vizietto che spingeva verso la bolla hard boiled già presente nell’Arcobaleno della gravità (1973). Vale a dire: Thomas Pynchon costruisce adesso tutto un romanzo a partire dallo stile hard boiled. Sotto un certo aspetto, Vizio di forma si presenta come un romanzo di un Raymond Chandler “allargato”. Si può dire allargato agli allucinogeni del mondo hippy entro il quale il romanzo è ambientato. L’investigatore è un ex hippy di origine italiana (hop wop, hop wop! You fucking wop! Benvenuto wop, wop, wop! Maledetto wop wop wop, mangiawopspaghettiswop! Wop, wop, wop, wop), Larry “Doc” Sportello.
Un bastardo può solo imbastardire. L’ho letto da qualche parte. Dove? Comunque un bastardo mangiaspaghetti può solo imbastardire.
Quale sportello capita di sfondare a questo fucking wop, che passa il tempo a fumare via il suo tempo?
Ma è il caso di chiedersi: cosa può dire Pynchon di questo suo wop-personaggio? È come se Pynchon avesse alla fin fine gettato una maschera della sua arte del romanzo. Qui sembra giungere a un dire che è un dire suasorio, consolatorio (che è tutto dire) – ma forse sarebbe più appropriato parlare di involuzione, cosicché da V. si arriverebbe al culmine dell’Arcobaleno per poi iniziare la discesa su un viale del tramonto.
Come si presenta il rapporto con il mito a cavallo tra modernismo e postmodernismo? nel modernismo il rapporto può essere di parodia, come in Joyce – ma allora il rapporto aveva una propria concretezza. Il personaggio aveva una statura che gli veniva dal mito, la parodia era una lacrima tragica. Nel postmoderno, almeno in Pynchon, il mito è un riferimento piatto, simile ai tanti miti moderni che rimandano al cinema, al rock, alla cultura di massa, riferimenti sparsi qua e là nei suoi romanzi come ceneri (in un mercoledì delle ceneri proiettato su un viale del tramonto). Niente statura per i personaggi, tantomeno lacrima tragica. E quindi viene annullata ogni distanza, lo sprofondamento nel mito, ciò che il modernismo poteva ancora rappresentare in uno stralcio di parola (la prima di Finnegans Wake, «riverrun», può essere intesa come riverain, reverons: “sogniamo” – John Gordon, Finnegans Wake: A Plot Summary, Gill and Macmillan, Dublin 1986, pp. 106-07). In Pynchon manca questa prospettiva: tutto è spiattellato come piattamente vicino. Arte del piattello – insisto io). Ma si passa da un argomento all’altro facendo niente più che surf, cioè facendo in modo di rimanere sulla superficie dell’onda più alta. Arte della tavoletta, arte del piattello, arte dell’esibizione del piercing. Arte della modernità, come insegna l’eco della modernità assassina.
Ciò che caratterizza la narrativa postmoderna è la mancanza di un rapporto con lo stile in quanto stile di una terra sopra la quale si abita. Il linguaggio diventa tutto ciò che si può proiettare su uno schermo alzato sopra la terra. Da qui il richiamo allo stile hard boiled – ma perché proprio quello? È giusto porsi questa domanda? Comunque non cambia proprio niente. Il mondo è lì un insieme di oggetti che un cliché stilistico può rappresentare senza riscontrare difficoltà. La rappresentazione del mondo non è problema che il romanzo debba prendere in sua considerazione. (In questo panorama fa eccezione Umberto Eco, che però agisce in assoluta malafede.) Si controlli la presentazione suggerita di Bigfoot: gigantesco e sgraziato, che entra buttando giù la porta a calci. L’immagine rende bene il personaggio, ma è già stata vista al cinema – almeno così sembra, è un cliché che viene usato vicino ad altri.
Per fare un discorso su Vizio di forma bisogna partire dal romanzo in generale, poiché è sul romanzo in generale che la narrativa di Pynchon va maldestramente ad agire. Il romanzo partiva dalla realtà, pretendeva di riflettere la realtà, anche quando si contrapponeva a precise forme testuali (come nel caso del Gulliver). Pynchon sostituisce alla realtà uno schermo su cui proiettare una idea di narrativa. Il romanzo è un modo di mostrare come le cose del mondo stanno insieme costituendo la totalità del mondo; Pynchon proietta l’illusione di mostrare qualcosa del genere. È allora possibile vedere nello schermo di Pynchon una degenerazione dell’opera mondo – anziché una sua ripresentazione – una degenerazione di quello che era la rappresentazione del mondo nelle opere di Musil e Joyce, un universo alternativo che si contrapponeva a quello reale, una possibilità nel grappolo delle possibilità? Pynchon scivola sempre verso un abbandono.
Se il romanzo segnava il trionfo della prosa della vita (vedere le analisi di Hegel e Lukács), Pynchon vi sostituisce la prosa acquisita per difetto da un altro romanzo; non la prosa della vita ma la prosa che è servita a determinare la prosa della vita in altri romanzi. Ma un’epica moderna non è più nei progetti di un grande scrittore, come dimostra il caso di Giorgio Manganelli.
Quello su cui Pynchon sembra insistere è che niente è raggiungibile senza l’aiuto di un cliché, là dove invece il lavoro dello scrittore dovrebbe consistere proprio nel creare un linguaggio adatto alla rappresentazione di un mondo perbene, fittizio appena quanto si vuole, ma che comunque deve essere spogliato proprio dei cliché – al fine di arrivare al risultato su un piano estetico della narrativa. In fondo è l’impresa di Musil.
Guido Almansi aveva notato un collegamento tra Henry Miller e Thomas Pynchon, in base alla nozione di “opera mondo”; è proprio quello che in Vizio di forma sembra mancare. Una punto rivelatore è il momento in cui la moglie di Bigfoot si intromette nella telefonata tra il marito e il mangiaspaghetti (wop) Sportello (cap. 15, p. 253), che ricorda un momento in Tropico del Cancro, quando lo scrittore viene chiamato col suo nome completo da un personaggio con cui parla al telefono: “Lei è Henry Miller?” (Henry Miller, Tropico del Cancro, in Id., Opere. I, Mondadori, Milano 1992, p. 108).
Bello il capitolo finale, che incanta, capovolgendo, quello iniziale, altrettanto tuffato nella nebbia, di Casa desolata. Peccato che Vizio di forma non sia tutto narrato a partire da quei due tuffi nella nebbia? Ma avete notato come i capitoli finali dei romanzi di Thomas Pynchon siano sempre particolarmente belli?
Avremmo potuto avere un romanzo tutto tuffato nella nebbia, ma solo nebbia in gabbia. Il postmoderno non giunge mai ad una scelta tra valori. Il massimo che può fare è costruire una gabbia ironica dove scatenare un caos frastornante per il lettore, come in Pynchon. Meglio che niente! In Eco c’è l’assunzione gretta di valori comuni medi, quindi il richiamo ad una scelta che è già avvenuta, e tutto a favore del buon senso comune. (Peggio che mai!) Tempo fuor di sesto di Philip K. Dick, indicato come una delle fonti dell’Arcobaleno, giungeva ad una scelta finale da parte del protagonista, che nell’Arcobaleno non si pone mai. Il postmoderno è il genere che si costruisce apposta per abolire la possibilità di scelta, indipendentemente dalla fine. Ogni fine è sempre una brutta fine. Solo le parole possono essere prese in esame.
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Nota su Manganelli
Intorno al cavalier Manganelli desidero appiccare una o più note. Come genialità il cavalier Manganelli avrebbe potuto far fuori i possibili cavalieri avversari nella giostra moderna che si tiene intorno al pupazzo del “realismo magico”. Penso ai nomi del cavalier García Márquez e del cavalier Salman Rushdie. Cosa sarebbe rimasto, di quei due cavalieri abbronzati, fracassoni e colorati, nel momento in cui fossero entrati in battaglia contro il nostro corpulento grigio cavalier Manganelli, che di agile aveva solo il soffio – antico e lieve – del genio? Allora perché il nostro cavalier Manganelli non è andato fino in fondo alla battaglia, divertendosi a postare il grande romanzo moderno che le letterature moderne chiamano alla sfida senza riuscire mai a portare al recinto di un giudizio del dio che la giostra moderna non può intendere come spazio del dio? Le possibilità in Italia di una vasta epopea moderna sono quasi impossibili. Un po’ è un bene, un po’ è un male. Detestare l’Italia è sempre un bene, ma un’opera di questo tipo sarebbe stata comunque opera che avrebbe aperto all’ultimo disprezzo nei confronti dell’Italia. Comunque sarebbe stata impresa degna di incoraggiamento. Il progetto di una “epopea moderna” in Italia deve scadere nell’impresa di becero intrattenimento; l’unica possibilità di romanzo postmoderno italiano va cercata nella grettezza dei romanzi di un umbertino tempo d’eco, che non è un nostro cavaliere, non è scrittore e non rappresenta niente. Eppure proprio in questo “niente” è rappresentata la maledetta Italia. Per cui siamo messi male. Il problema è che l’Italia non è una terra, non ha una lingua, non ha un popolo che la abiti con l’arte ambigua della poesia. (Ha solo Dante!) In qualunque modo, l’Italia non abita il mondo. Ma questo è quello che si può dire per tutti i paesi da dove sono partiti, in cerca di avventure, i cavalieri che poi sono qui confluiti, alla ricerca di gloria, intorno alla giostra del realismo magico. L’Italia rappresenta il caso limite. Per questo vale la pena parlarne. Però mi auguro sia l’ultimo. Al di fuori dell’Italia si può giungere a una formula conciliante tipo Thomas Mann o al romanzo saggio di Musil e anche di Broch. Però strade in Italia chiuse. Un romanzo realista che volesse affrontare la “storia italiana” non potrebbe fare altro che scadere in un intrattenimento becero e pecoreccio. La via opposta, per quanto non tracciata al fine di sfiorare il colpo, sfiora comunque la chiacchiera dotta e un po’ rassegnata (mi sa sia il caso del cavalier Manganelli). Questione di artigli smussati. Manca sempre la grande opera che graffia in faccia la vecchiaccia maledetta. Una via d’uscita possibile, che prima o poi verrà spalancata, è la rappresentazione del dramma di ciò che non ha terra di fronte a ciò che ha terra, cioè il tentativo di strappare la terra a ciò che si propone come terra che non poggia sopra una terra. Vecchia, maledetta Italia! Ma questo comporta il rivolgimento totale di assumere la terra (anche nel momento in cui quella terra si pone come non terra) come asse del discorso, che comporta a sua volta assumere il linguaggio (anche nel momento in cui quel linguaggio si pone come non linguaggio) come protagonista delle avventure cui va incontro il protagonista del romanzo. Così il cavalier Manganelli parte dal linguaggio senza poter giungere molto lontano da ciò che il linguaggio racchiude. Non è questione di mancanza di valore. Dove avrebbe potuto andare a parare – il nostro miglior cavaliere, senza andare a finire malamente? Accade un po’ quello che accade ai romanzi che prendono in giro la logica classica: scadono subito di credibilità, come se essi stessi non credessero nella possibilità di pensare logicamente in un modo diverso. Calvino è sempre il posto più morbido dove posare il culo di una penna da tanto tempo in pena. Probabilmente la lingua italiana è sentita inconsistente da tutti i maledetti scrittori italiani della maledetta Italia, così come inconsistenti sono sentiti i personaggi che con quella lingua molti si provano ad impastare. Non sono le persone a parlare e comunque gli italiani non esistono. Vero è che non sono mai le persone a parlare, è la lingua a parlare attraverso le persone – però mi sa che per questo rivolgimento del romanzo, il romanzo non è ancora pronto. L’affollamento di tanti vocaboli arcaici e letterari da parte del cavalier Manganelli nei suoi proclami di sfida indica un rapporto con la lingua avvertita come massa gretta stabile e sterile. La lingua degli italiani è l’alingua degli italiani: questo è più che un modo di dire. È il modo di vedere la lacrima che gioca sull’apostrofo là dove non ci dovrebbe essere. La stessa frase vincolo cieco del cavalier Manganelli, ipnotica e preziosa, che non porta a niente attraverso la sua lunghezza mai stentata, mai noiosa da leggere, diventa metafora di una situazione che non ha via di uscita per la maledetta Italia perché massa tumorale che gioca e passeggia in un corpo cui non può però fare più la pelle. Bisogna vendere tutta la baracca Italia baldracca. Una frase ha un’uscita, spesso che porta a un’altra frase, non nel caso del nostro cavalier Manganelli, però, che pure è il nostro più valente cavaliere nel momento attuale. È l’alingua degli italiani che viene trafficata in un gioco prezioso di brillanti fatti passare di contrabbando. Una cascata di diamanti che ha comunque il lampo di una sfida. La questione è: di che cosa si deve parlare quando non si può descrivere il vecchio mondo – che però è tutt’altro che spacciato? Si tratta di modi di mettere a fuoco o di mondi da mettere a fuoco? Spero ci sia sempre da appiccare il fuoco. Scrivere in modo da far leggere senza pensare di stare leggendo, ma di far suonare parola dopo parola, nella mente del lettore, il nuovo modo di mettere insieme le parole. Stiamo parlando di un modo di ingannare il lettore? Mai salvi dal gioco dell’eco. Poco importa sia crepato: soltanto macchinette, soltanto pupazzi. L’arte di leggere chiama l’arte di scrivere, così come l’arte di scrivere chiama l’arte di leggere. Questo vale per tutti i libri, non soltanto per i romanzi. È il nuovo che si va a cercare in ogni libro, la ricerca che ha portato alla domanda “Chi è il personaggio Zarathustra?”, ma alla quale nessuno dei nostri cavalieri può dare risposta. La letteratura non richiede sforzo, fatica, sudore o quanto meno applicazione, solo dosi di sana, paziente infernale attenta cattiveria; tanta continua cattiveria. Il cavalier Manganelli ha sfiorato il cavaliere tutto catafratto Adorno nella teoria del caos, non lo ha fatto cadere, ma ha continuato la sua corsa libero dalla giostra noiosa dei nemici, cometina brillante a cavallo della coda di un insieme di Mandelbrot.
Postille di Umberto Eco
Qualche artista ama nascondersi dietro una filosofia della composizione. Borges lo aveva segnalato. Prendere sul serio ciò che si nasconde in una “filosofia della composizione” può delineare tanto un abborracciatore di parole quanto una malafede.
Ultimi due capoversi delle Postille a “Il nome della rosa” (1983) di Umberto Eco: «Pare che il gruppo dell’Oulipo abbia recentemente costruito una matrice di tutte le possibili situazioni poliziesche e abbia trovato che rimane da scrivere un libro in cui l’assassino sia il lettore. | Morale: esistono idee ossessive, non sono mai personali, i libri si parlano tra loro, e una vera indagine poliziesca deve provare che i colpevoli siamo noi.»
Se lo spirito della narrativa di Umberto Eco consistesse nel tentativo di rispondere a questa sfida: creare dei gialli dove il colpevole risulti essere il lettore?
Umberto Eco ha scritto un solo romanzo accostabile al genere del romanzo giallo, Il nome della rosa, ma in tutta la sua narrativa è presente il mistero in quanto elemento principale per tenere avvinto il lettore. Allora sarebbe una questione di dinamica.
Nelle Postille Eco dice che da sempre il romanzo giallo ha scoperto la colpevolezza del lettore. Ma perché Umberto Eco avrebbe avuto bisogno di fare tutto quel giro per dire quello che già la letteratura poliziesca diceva da sempre?
Nel paragrafo 12 delle Postille, “Il post-moderno, l’ironia, il piacevole”, le Postille offrono una lettura semplificata della narrativa postmoderna. Fin troppo semplificata.
Nel decimo paragrafo, quindi due paragrafi prima, si discute su “La metafisica poliziesca”, che viene così riassunta: «In fondo la domanda base della filosofia (come quella della psicoanalisi) è la stessa del romanzo poliziesco: di chi è la colpa? Per saperlo (per credere di saperlo) bisogna congetturare che tutti i fatti abbiano una logica, la logica che ha imposto loro il colpevole. Ogni storia di indagine e di congettura ci racconta qualcosa presso a cui abitiamo da sempre (citazione pseudo-heideggeriana).»
Allora la metafisica poliziesca funzionerebbe come una presa di coscienza della propria situazione: si viene di colpo a sapere quello di cui non si aveva coscienza di sapere.
Nel romanzo successivo al Nome (che è del 1980), Il pendolo di Foucault (1988), Eco introduce il tema del complotto, che tornerà nel suo ultimo romanzo, Numero zero (2015).
Il complotto è un elemento importante nei romanzi di Thomas Pynchon. Non considerato nelle Postille (1983), insisterà nella narrativa di Eco.
Tutto bene se non fosse che il complotto chiama il tema della paranoia.
Non è l’unico fatto curioso. Nelle Postille Eco insiste sul carattere leggero della narrativa postmoderna. Il postmoderno sarebbe la restaurazione dell’innocenza dell’intreccio e del piacere di leggere seguendo una trama. Sicuro che i romanzi di Thomas Pynchon o di John Barth siano così facili da leggere, da seguire, da trovare divertenti?
La riduzione del postmoderno operata qui da Eco apre ad altre riduzioni possibili: Calvino prima di tutto, Margherita Ganeri (Postmodernismo), Tondelli (Un weekend postmoderno). Tuttavia, Eco è il solo a perseguire una estetica tanto sbagliata (proprio perché in malafede) quanto conseguente.
Il nono paragrafo, quello che precede “La metafisica poliziesca”, riguarda la costruzione del lettore, vale a dire il tipo di lettore a cui Il nome della rosa dovrebbe dare vita. Questo lettore, anche se non viene esplicitamente detto, è un lettore disposto a prendere coscienza con una colpa che già lo occupava.
Ma questo lettore non deve essere sconcertato lungo il percorso di questa presa di coscienza. Tutt’altro. Il lettore di Umberto Eco deve essere il destinatario del dono della semplicità dell’innocenza. Anche se l’ingresso nel romanzo lo ha stancato (come accade con le prime cento pagine del Nome), una volta installatosi lì dentro non deve più avere dubbi.
Ma Eco non semplifica solo a livello di interpretazione, ma anche a livello pratico.
Che cosa sono i complotti che strisciano nei suoi romanzi a fianco di quelli i cui contorni sembrano illuminarsi nei romanzi di Pynchon? In Pynchon tutto rimane sempre aperto a livello di possibilità; in Eco tutto è sempre sotto la chiarezza di una lampada che illumina quanto innervosisce, come negli interrogatori di polizia che si vedono al cinema. E infatti Il nome della rosa è un ibrido che va tanto bene per il cinema.
Ma fuori dal cinema il risultato non cambia: troppa luce oscura; ciò che deve restare nell’oscurità va affrontato giocando semmai con l’oscurità.
Si confronti il modo di girare intorno al tema della paranoia che si ha ne L’incanto del lotto 49 e ne Il pendolo di Foucault: in Pynchon è richiamo all’inquietante, in Eco connivenza con un potere di repressione.
È proprio la differenza tra i personaggi a nascondere lo stralcio di qualcosa. Il personaggio è solo lo straccio di qualcosa.
Si potrebbe dire che il personaggio di Pynchon è teso verso una nuova forma (che lo redima); il personaggio di Eco è volto al passato (che niente può redimere). Ma anche così non funziona.
Lo strutturalismo ha formulato un principio che stazionava da tempo nell’aria della rarefatta cultura occidentale: non è l’essere umano a parlare ma è il linguaggio, oppure i miti, a parlare tra loro attraverso gli esseri umani. Questo semplicissimo principio della cultura occidentale moderna non è ancora stato acquisito dalla narrativa occidentale moderna.
Eco tende infatti a rendere cosciente il suo lettore, cioè il lettore che si è ingegnato a creare attraverso la sua narrativa – e che a questo punto dovrebbe capire di quale imbroglio sia vittima, altrimenti peggio per lui.
C’è un punto rivelatore nelle Postille, questo: «[…] Marco Ferreri una volta mi ha detto che i miei dialoghi sono cinematografici perché durano il tempo giusto. Per forza, quando due dei miei personaggi parlavano andando dal refettorio al chiostro, io scrivevo con la pianta sott’occhio, e quando erano arrivati smettevano di parlare.» Non è un caso che l’osservazione provenga da un regista cinematografico, che ha a che fare con uno spazio fisso, un set, costruito in base alle sue esigenze, ma secondo le leggi della geometria cartesiana, Nel romanzo lo spazio è diverso perché è costruito secondo leggi di un’altra geometria. I movimenti dei personaggi sono torsioni topologiche. Perché Eco rinuncia a questa grande libertà offerta al romanzo dal suo stesso mezzo artistico a favore della rigidità di un costruzione fissa? Tutto sta nel comprendere quello che in cambio ci guadagna.
Ma dov’è la differenza? Nel fatto che i personaggi del romanzo, quando camminano, a volte camminano all’indietro.
Un romanziere non costruisce niente, né personaggio né spazio.
Diffidare dello scrittore che vuole illuminare il lettore. Il vero scrittore vuole scrivere in modo da far saltare il cervello al suo lettore. Ombra chiama ombra che disillumini; la solitudine chiede solo al tempo di diventare spazio, dopo essere stata vittima di tempo e di spazio.
Ma è certo che la cultura diventa valle d’eco dove tutte le voci risuonano, preannunciando Fusaro. Infatti la cultura moderna si determina come ciò che non ha voce, ma soltanto eco. A questo punto è chiaro perché la narrativa di Eco funzioni come dei gialli dove il colpevole è sempre il lettore, avendo giocato a calarlo nella storia, le cui manchevolezze gli possono venire rinfacciate.
Pynchon – Henry Miller
Guido Almansi, nella Prefazione a “V.” di Thomas Pynchon, inserisce Henry Miller fra i romanzieri enciclopedici. Il romanzo diventa, in queste opere, una enciclopedia del mondo.
È probabile che tutta la struttura dell’Arcobaleno della gravità, con i vari pezzi separati da uno spazio bianco, derivi dalla struttura di Tropico del Cancro e di Tropico del Capricorno: una struttura che (soprattutto nel Tropico del Cancro) comprende brevi capitoli, quasi appunti, separati da uno spazio bianco. I capitoli saltano da un argomento ad un altro, spesso ne riprendono uno già trattato, secondo un procedere che può ricordare onde musicali. In Tropico del Capricorno compare anche la divisione in parti, come sarà nell’Arcobaleno.
Nei Tropici niente inizia, niente finisce e niente si sviluppa – eppure nessun lettore, arrivato alla fine, può dubitare di avere letto un romanzo compiuto. Stessa impressione a proposito dell’Arcobaleno. L’alto livello di queste opere è indiscutibile.
È anche probabile che L’arcobaleno della gravità abbia recepito dai Tropici di Henry Miller l’insistenza sui dati pornografici. Un capitolo come il 14 di Tropico del Cancro può aver ispirato i capitoli più “allucinati” dell’Arcobaleno, come il viaggio di Slothrop lungo il tubo del gabinetto (prima parte, frammento 10); tutte cose che in Henry Miller ci sono benissimo.
I rapporti tra Henry Miller e Thomas Pynchon andrebbero studiati. Pynchon ha indubbiamente reso la forma più “romanzesca”. In Henry Miller il romanzo si incrina. Basta considerare la sua ammirazione per Whitman per comprendere come egli rifiutasse un’arte staccata da colui che la produce. Il suo libro era una fusione alchemico-strindbergiana di vita e arte. Pynchon recupera invece il romanzesco e compone romanzi.
Questo recupero del romanzesco da parte di Pynchon, se è giusto che tale recupero avvenga a seguito delle opere di Henry Miller, è ciò che si chiama romanzo “postmoderno”. Anche così Umberto Eco dimostra di non avere capito niente e di avere ingarbugliato tutto. Da Henry Miller si può anche far partire una corrente anarchica che percorre tutta la sua arte del romanzo, ma che in Pynchon sarà poco presente.
Nell’Arcobaleno (1973) si può sentire la penultima eco dello stile hard-boiled. Che forse si continuerà ad avvertire nel cyberpunk (anni Ottanta). Perché questo ripescaggio? Indubbiamente, quello che manca, è uno stile. Cioè uno stile autentico, originale. In letteratura, volendo dare una definizione essenziale al massimo, stile è soltanto questione di mettere insieme delle parole. Ma forse non serve nemmeno uno stile, quanto uno schema di contenimento, un abbozzo, una griglia che prenda il posto della storia.
Il romanzo postmoderno è appesantito dallo stile “hard boiled”. Il romanzo postmoderno presenta, nei suoi protagonisti, quello stile “duro”che si oppone ai più fragili ma intensi protagonisti del romanzo modernista, come Marcel, Leopold Bloom, H.C.E.
Sarà Umberto Eco, nella narrativa postmoderna, a porre fine alla corrente anarchica, ricreando il romanzetto educativo da compitare sui banchi di scuola. Nei romanzetti di Umberto Eco nessun lettore si smarrisce mai, come invece avviene nei lunghi testi di Pynchon. È possibile la presenza di una tendenza illuministica che parte, ad esempio, dai romanzi di Leonardo Sciascia per giungere ai romanzi di Umberto Eco?
Henry Miller è un esempio della giusta inutilità della costruzione del romanzo. Esattamente l’opposto di Umberto Eco, stando almeno a quanto da lui raccontato nelle Postille a “Il nome della rosa”. Henry Miller non costruisce un romanzo a poco a poco, non studia gli effetti, non stabilisce i percorsi dei suoi personaggi passo per passo da un punto all’altro di un tragitto. Controlla le intensità. Pynchon procederà nei suoi romanzi per allontanamento da un centro che rimane sempre delocalizzato.
Notare questi titoli: Tropico del Cancro, Tropico del Capricorno. Titoli del genere non indicano un evento particolare, come spesso avviene nel romanzo con impianto novellistico, e nemmeno un nome proprio, come avviene nel romanzo centrato sulla biografia del protagonista; indicano invece un fascia che comprende sottoinsiemi di elementi. Lo stesso con il titolo complessivo Crocifissione in rosa (e quindi con i singoli titoli: Sexus, Plexus, Nexus).
Henry Miller raggiunge l’effetto enciclopedico ricorrendo a un richiamo alle “fasce climatiche”. L’effetto enciclopedico è un qualcosa di ciò che Conrad otteneva ricorrendo a una narrazione basata su discorsi riportati da altri personaggi e sul montaggio di materiale eterogeneo (lettere, resoconti, diari). Uno di questi mezzi di Conrad è ottenuto tramite l’intervento del personaggio di Charles Marlow. In entrambi gli scrittori l’obiettivo è lo stesso: accedere a un tempo “mitico”. Per tempo mitico si intende qui la vicenda che porta oltre il tempo dell’evento singolo, quindi un tempo superiore a quello degli avvenimenti della quotidianità, che si possono raccontare in modo agevole con un filo unico di voce. Quello che Miller racconta è un insieme di insiemi di avvenimenti, delimitati da una fascia immaginaria. Per Conrad questo può avvenire tramite un racconto che può essere condotto fino a sfiorare il mito.
Jim di Lord Jim non è il punto in cui converge una narrazione per delineare un personaggio (appunto quello a cui è dedicato il titolo, “lord Jim”), ma è il punto di fuga da cui si apre una molteplicità di discorsi. Lord Jim, in quanto personaggio, rimane così nel suo stato di enigma lungo tutto il romanzo.
La forza di Marlow sta nella evocazione del «mistero di ere senza storia», presente in Cuore di tenebra e in Lord Jim. Raccontato da Marlow, quindi non raccontato nel momento in cui l’avvenimento sta accadendo, l’avvenimento acquista una dimensione diversa. Cioè una dimensione differita. Non vediamo lo svolgersi degli eventi, ma ne percepiamo il mistero che, dal momento in cui l’evento ha avuto luogo, si è creato nel suo intorno. Conrad mostra così la formazione dei miti e il movimento dei miti tra loro. La vicenda è sempre decisamente irrealistica. Marlow non parla, per quanto racconti con la sua voce – sono i miti a parlare tra loro grazie alla presenza di Marlow. Questo perché esistono i miti, che si parlano fra loro attraverso gli uomini, ma non esistono le mitologie, che sono creazioni artificiali di persone che non prendono la parola, come fa Marlow, in quanto narratori di quanto avvenuto.
Marlow ha un senso infallibile per il mito. Seleziona d’istinto i tipi che permettono il passaggio del mito, da qui la sua simpatia per Jim e il suo disgusto per tipi come Cornelius o Brown.
In Conrad è da affrontare il tema del colonialismo. Come affrontarlo?
Conrad lascia aperte due possibilità: il colonialismo non viene condannato. Il romanzo può riprendere il mito solo come ambiguità. Il mito non era ambiguo. Il romanzo che recupera il mito deve costituire un testo ambiguo.
Conrad era contrario al colonialismo, eppure qualcosa in ciò che ha scritto non condanna il colonialismo. L’ambiguità della grande letteratura consiste nei dettagli.
Pensare alle parole di Chinua Achebe contro Conrad, che accusava di una visione razzista ed eurocentrica. Conrad era contrario al colonialismo, eppure qualcosa in ciò che ha scritto non condanna il colonialismo. L’ambiguità della grande letteratura consiste in dettagli di questo genere. Umberto Eco era uno scrittore e un partigiano schierato da una parte precisa; a Chinua Achebe, probabilmente, i libri di Umberto Eco sarebbero piaciuti, anche se, come scrittore, Chinua Achebe era superiore a Umberto Eco (ma per questo non ci vuole molto, basta essere scrittori).
Le quattro lettere sull’Amleto di Shakespeare incluse in Max e i fagociti bianchi di Miller sembrano riassumere le questioni sin qui trattate. L’argomento Amleto di Shakespeare viene sfiorato – mai affrontato – nemmeno lontanamente. È un mondo nuovo di affrontare un argomento. È sulla linea dei Tropici e della Crocifissione. Il soggetto non rischiara, ma è allacciato all’oggetto che però mai domina, né mai vuole dominare. È ciò che viene determinato dalle serie. L’oggetto non viene chiarito ma il soggetto può fruire di una schiarente penombra. L’azione si basa su di un mettersi in gioco con l’intento di dimenticare sempre più le regole del gioco. È il vecchio progetto scientifico a farne le spese. Più che mai deve cadere il progetto di farsi comprendere dal pubblico. Non si tratta soltanto di accettare di non comprendere l’oggetto del proprio mettersi in gioco (Amleto), ma di accettare di non farsi comprendere del tutto. Che non è assolutamente un rischio. È nell’azione di questo progredire di ciò che non è da comprendere – in quanto proprio ciò che non vale la pena comprendere – che il progetto rivela la sua specificità e quindi la sua natura irriducibile, di carezza ad Amleto. Ma questo dovrebbe valere per ogni approccio critico. È allora chiaro che ogni gioco, così inteso, consiste nel mantenere integra la non chiarezza di ciò che si sarebbe dovuto chiarire, trasportandola in un luogo diverso, dove più che mai ha possibilità di avvolgersi nella sua oscurità. Ogni atto di scrivere, scrivere un romanzo o un saggio, pone la questione di che cosa sia l’oggetto di cui si scrive. Più si dà per scontata la risposta, più il progetto perde di interesse e si fa questione di routine.
Gigantismo
Il gigantismo è una tendenza della letteratura moderna. Le dimensioni risultano fuori controllo. Lo si nota in scrittori come John Barth e Thomas Pynchon. Diverse volte Heidegger ha indicato nel gigantismo un tratto insistente della modernità (vedere qualche conferenza degli anni Cinquanta, Quaderni neri, Contributi alla filosofia).
È possibile unire narrativa postmoderna e narrativa minimalista? In che cosa consisterebbe l’eventuale specificità? Nel fatto di non mettere a fuoco, evitando il gigantismo. Pensare al Coltivatore del Maryland: l’edizione italiana ha 1027 pagine, il progetto è quello di comporre un romanzo nello stile di un romanzo del Settecento. Non si poteva fermare il progetto in due o tre pagine appena? Per “fermare” intendo qualcosa come “fermare un’idea improvvisa” che passa per la mente, stendere un appunto veloce per una successiva elaborazione. Pensare per aforismi.
Il gigantismo è lo sgambetto che la vecchia letteratura fa all’autore moderno. Più pagine si scrivono, meno si finisce per dire. Più la dimensione è vasta, più il ritmo si rattrappisce.
Un minimalismo postmoderno dovrebbe evitare in modo frattale ogni grande dimensione, puntando invece a un ritmo come germe frattale che si ramifica all’infinito. Non una lunga storia eseguita “alla maniera di”, ma milioni di possibilità ciascuna dotata del proprio ritmo, che tutte insieme non portano da nessuna parte ma arrivano dappertutto. Una grande letteratura deve basarsi su pochi principi. Non tutto un libro, ma appena una frase.
C’è sempre qualcosa di affascinante nei quaderni di appunti, intuizioni geniali che escludono qualsiasi trattazione completa. È il nostro modo di pensare che le uccide. Pensiamo sempre troppo lentamente, compitiamo una logica di cui ogni tanto se ne intravede l’inutilità.
Mettendo un brogliaccio dedicato ad disparati al posto di un lungo romanzo focalizzato su un solo argomento avremmo soprattutto un’opera didattica. Qualcosa chiamato a inaugurare un nuovo tipo di opera didattica. Didattica come possibilità di svolgere quanto accennato nel testo base, quindi schema di combinatorie possibili.
Il romanzo non deve essere la realizzazione finita di una possibilità, ma l’apertura nei confronti di un insieme di possibilità. La possibilità di svolgere storie è il modo migliore per sfuggire alla storia singola. L’opera completa blocca sempre il nuovo pensiero. Un romanzo deve contenere milioni di trame diverse; tutte intraviste, nessuna svolta.