La festa

Antropologi e persone comuni sono d’accordo sul fatto che le feste stiano perdendo importanza nelle società moderne. Siamo persone così tristi da avere reso tristi tutte le feste? Le feste hanno sempre più qualcosa di forzato, che non trascina più la gente. Ma perché? Le cose che si sparpagliano nel tempo hanno spesso inizio da un qualcosa di infinitamente semplice. Talmente semplice che non viene più riconosciuto come punto d’origine. Questo ci porta a cercare di rintracciare un tipo semplicissimo di festa d’origine. Qual è il tipo di festa all’origine di tutte le altre feste? Dove riconoscere la festa dietro la quale vengono tutte le altre feste? E se tutto fosse partito da una prima festa, a un certo punto non più avvertita come festa dalla comunità e quindi rinnegata come festa dalla comunità? Se tutto questo avesse poi travolto tutte le altre feste? Se anche noi ci ostinassimo a non riconoscere più questa festa d’origine come festa degna di essere celebrata con la partecipazione gioiosa della comunità? Rimane la questione di stabilire quale possa essere stata questa festa d’origine. Una festa d’origine è una festa che, non solo celebra, ma crea anche quell’avvenimento che le feste posteriori tenderanno a mantenere vivo in un clima di grande gioia.
Ormai noi crediamo solo nella società multirazziale e cerchiamo quindi di pensare solo feste adatte a questo tipo di società, cioè adatte alla società multirazziale. Dal punto di vista antropologico, le feste servono a mantenere la coesione di un gruppo. Ma la coesione di un gruppo è mantenuta non solo dalla coesione del gruppo, ma anche dalla espulsione di ciò che non appartiene al gruppo, ma che tuttavia era riuscito a entrare nel gruppo. Ed è appunto in questo momento che si crea la festa. La coesione del gruppo è un momento che chiama la festa in prospettiva, ma che, di per sé, non è di festa. Dove rintracciare la festa originaria? Se noi fossimo creature talmente tristi da…
Che cosa è che nelle nostre società non riusciamo più a vedere come occasione di festa? Se la festa più antica fosse proprio ciò che noi oggi non riconosciamo più come possibile occasione di festa? e quindi come una cosa che tutto è, fuorché festa?
Nietzsche e de Maistre hanno scritto pagine straordinarie sulla esecuzione del criminale e sul boia come arma di Dio e sua manifestazione in terra. Se la festa più antica consistesse proprio nella esecuzione capitale del delinquente, del nemico della comunità? e se noi, nelle nostre società moderne, fossimo ora diventati persone talmente tristi da rendere cosa triste persino la condanna a morte del delinquente? È un fatto che noi non proviamo più gioia di fronte alla esecuzione capitale di un delinquente. Ed è un fatto desolante. Le grandiose pagine iniziali della Genealogia della morale, con il popolo in festa che assiste alla esecuzione pubblica del delinquente, e di de Maistre, che esalta la figura del boia come la più grande e terribile arma di Dio presente in terra, sono lontane mille fiumi d’inchiostro da noi e noi non possiamo più capire l’esaltazione che ha portato a scrivere quelle folgoranti pagine di sangue e d’inchiostro. La condanna a morte è una cosa di cui noi ci vergogniamo, di cui parliamo sottovoce e che, anche negli spazi là dove essa ancora vige, teniamo accuratamente nascosta agli sguardi. Non c’è dubbio: ecco la nostra festa mancata; ecco la nostra inconsapevole decisione di essere tristi in un mondo al quale, tristemente, ci riconosciamo di appartenere e rinunciamo tristemente una volta di più nel nome dell’accoglienza. Noi non possiamo più creare vere feste per espellere, perché dobbiamo invece creare tante nuove false feste per accogliere ma, appunto queste feste fatte per accogliere sono feste che non funzionano e che rendono triste il popolo che si assoggetta a crearle e che si determina poi come il popolo che non ha più feste.
Anche i dibattiti sulla pena di morte hanno qualcosa di questa triste e sconcertante timidezza. I fautori ne parlano come di un deterrente, principio ampiamente smentito dalle statistiche dei paesi dove la pena di morte è in vigore. Nessuno ha mai pensato a movimentare questo vecchio dibattito chiamando in causa il principio più paradossale e più festosamente antico: la pena di morte è fonte di gioia, è la festa più autentica di tutto un popolo perché festa d’origine, è occasione per rinsaldare i vincoli di una comunità che un nemico – riconosciuto, fermato e condannato – aveva cercato di spezzare e mettere in pericolo. Basta un niente, fare a pezzi un criminale straniero, e la magia della festa torna a cantare in un popolo.

Ma non finisce qui. Giacché si parla di festa e si è cercato di riconoscere una prima lontana idea possibile di festa, si potrebbe andare oltre e, in base a quanto ipotizzato, pensare ad una pena di morte selettivamente applicata ai vari criminali in base alla razza d’appartenenza. Pensare ad una pena di morte selettivamente destinata, in forma di presunzione di colpevolezza, a quei tristi popoli la cui triste storia li inchioda come tristemente ed eternamente propensi al crimine, a un crimine di volta in volta classificabile come efferato, spensierato, abitudinario, ideologico, economicamente inevitabile: Negri, Arabi, Indios, Zingari, Italiani. Fare i nomi di questi popoli è cosa triste; immaginarne la futura soppressione è una gioia.

Libri di festa:
F. Nietzsche, Genealogia della morale, in Opere complete di Friedrich Nietzsche, vol. VI, tomo II, Adelphi, Milano 1976.
J. de Maistre, Le serate di Pietroburgo, Rusconi, Milano 1986.

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