Il dialogo filosofico contiene il principio attivo di ciò che Bachtin, affrontando i romanzi di Dostoevskij, ha concentrato nella ricetta della “polifonia”. Si ha un senso unico, che traghetta i dialoghi di Platone, con Socrate come protagonista, verso i dialoghi di Heidegger, passando per l’arte del romanzo. L’arte del romanzo cosa può fare? Nietzsche riconosceva nella dialettica di Socrate il principio plebeo che si sostituisce a quello aristocratico: “il plebeo cerca di convincere richiamandosi alla ragione; l’aristocratico comanda!”
Ma dialogo filosofico e romanzo sono un rimedio galenico che non contribuiscono a farla finita con la replicazione golemica.
Eppure nel dialogo filosofico c’è qualcosa di vero, o anche solo una piccola verità. Cosa è che il dialogo filosofico, riconoscendolo, sembra mettere da parte (oppure viceversa)? L’alternativa tra convincere e comandare. Questi testi sembrano voler convincere intorno a qualcosa, e in realtà sono essi stessi assediati da ciò che è ad essi estraneo, cioè dall’arte del comando.
Quando l’arte del comando non suona come un’arte, allora stride come un richiamo.
In questo consiste l’insistenza della polifonia. Ciò che viene richiamato è appunto la resa dei conti di ciò che non ha voce per giungere a chiamare. Quindi: che cosa è che chiama nei dialoghi filosofici? Chiama appunto ciò che non ha canto; cioè ciò che non ha terra dove potersi porre in un canto.
Nel dialogo è appunto ciò che non ha canto che fa da contrappunto.
Nietzsche aveva capito perfettamente l’opposizione: plebeo/aristocratico, tentativo di convinzione/comando. Ma anche la domanda è chiara: che cos’è che assedia il dialogo filosofico, plebeo e democratico, e che si replica nel romanzo? Che cosa parla infatti tutto attorno ai bordi della costruzione del dialogo, sia esso dialogo filosofico o romanzo, per richiamare infine a che cosa?