Nel saggio Dall’oralità alla scrittura. Riflessioni antropologiche sul narrare, Jack Goody presenta il poema epico come una unità narrativa necessaria, quasi indispensabile per l’etnologo, ma non per le società nelle quali i diversi tronchi del futuro poema epico funzionano (o almeno così egli pensa). È insomma l’etnologo a “spingere”, a mettere sulla “strada buona” affinché i suoi informatori raccontino quello che egli potrà in seguito utilizzare per i suoi scopi.
Nel saggio si contesta anche la credenza secondo la quale raccontare storie sia un tratto comune a tutte le società umane.
La narrazione sarebbe così un elemento a fianco di altri (gnomica, formula magica, ecc.), ma l’etnologo farebbe di tutto per isolarla in modo da averla tra le mani allo stato puro, perché per lui la narrazione deve essere un insieme organizzato solo in una certa maniera.
È probabile allora che la separazione tra mito e rito non sia, in definitiva, così distinta. Mito e rito potrebbero saltare l’uno nell’altro secondo determinati, imperscrutabili, fatali intervalli.
Il racconto così come noi lo intendiamo servirebbe più che altro a convalidare una certezza; il suo ritrovamento servirebbe a calmare un’ansia specifica del ricercatore.
Nel canone buddhista più antico, il Tipitaka, i Jātaka, racconti delle vite anteriori del Buddha, hanno una struttura fissa. Ogni jātaka si presenta in una forma tripartita:
1) Il «racconto del presente» (paccuppannavatthu). Ha funzione di cornice. È l’occasione che permetterà al Buddha di narrare per esteso ai suoi discepoli l’episodio di una sua vita anteriore.
2) Il «racconto del passato» (atītavatthu). Costituisce il jātaka vero e proprio, il racconto dell’episodio della vita anteriore del Buddha. In esso sono inseriti dei versi (gāthā) che contengono l’essenza del racconto. Segue un commento grammaticale e lessicale (veyyākarana) ai versi (probabilmente un’aggiunta posteriore).
3) La «connessione» (samodhāna), cioè la ripresa e la conclusione del racconto cornice, nella quale il Buddha identifica i protagonisti del racconto con i personaggi menzionati in apertura. È la chiusura della cornice.
Per quanto risalente al 1992, una traduzione italiana dei Jātaka, apparsa nella prestigiosa collana UTET Classici delle Religioni, si limita solo alla parte centrale.
Questa scelta fa perdere la struttura nella quale il racconto funziona, ma risolve una vecchia questione: “Eccolo, alla fine, il racconto!”
Sullo sfondo, in entrambi i casi, c’è la cocciutaggine con la quale noi vogliamo che i racconti funzionino secondo il nostro modo di pensare; questo perché vogliamo, in qualsiasi racconto, ritrovare sempre e solo la nostra arte di raccontare. E quindi vogliamo a tutti i costi, costi quel che costi, in ogni luogo e in ogni tempo, i nostri romanzieri.
Jack Goody, Dall’oralità alla scrittura. Riflessioni antropologiche sul narrare, in AA.VV. Il romanzo, a cura di Franco Moretti, 5 voll., Einaudi, Torino 2001-3. I vol., pp. 19-46.
Vite anteriori del Buddha (Jātaka), a cura di M. D’Onza Chiodo, UTET, Torino 1992, soprattutto pp. 12-3.