Che cosa si ricava, a maggio 2022, dalla lettura dei romanzi del meticcio russo Dostoevskij?
Si pensi se la stessa profondità di pensiero fosse stata realizzata da uno scrittore di razza bianca, anziché da un meticcio! Il meticciato è sempre qualcosa di disgustoso, nel quale, ad un certo punto, per un modo o per l’altro, lo si voglia o no, si finisce per andare ad inciampare. D’Annunzio ha dimostrato d’averlo imparato bene. È sufficiente dire che si inciampa sempre in ciò che non ci si aspettava di trovare percorrendo la strada che si pensava di definire come propria, vale a dire la strada di casa?
Che cosa circola, chissà da quanto tempo, lungo la strada di casa – che non è di casa?
Che il frutto del meticciato sia qualcosa che proviene da un meticcio russo, piuttosto che da un meticcio italiano, non fa differenza. È per questo che il meticciato andrebbe sempre rimosso, slavo o latino che esso sia.
Non bisogna vedere che cosa l’arte di Dostoevskij ha aperto, ma che cosa l’arte di Dostoevskij ha chiuso. Perché il meticciato ha sempre la funzione di chiudere, mai di aprire. Rendersi conto di questo, richiede un ragionamento che deve partire dal principio di sopprimere il rumore. Ora possiamo dire che la narrativa rumorosa di Dostoevskij somiglia in modo – più che inquietante – alla musica rumorosa di Šostakovič. Questione di sottigliezze, si potrebbe dire – di sottigliezze polifoniche, si potrebbe bisbigliare. Ma la questione è appunto il rumore che, da una parte, dà fastidio e che, dall’altra parte, avvalendosi di certe tecniche ormai più che acquisite, potrebbe essere rimosso. Questo perché comprendere l’arte, è difendere la razza!