Non ho mai nascosto la mia scarsa simpatia nei confronti della narrativa di Murakami Haruki.
Una caratteristica di quella narrativa è l’abilità con cui tipi diversi di musiche vengono allacciati all’interno di testi diversi. La Sinfonietta di Janáček, il Don Giovanni di Mozart, il Cavaliere della rosa di Richard Strauss sono fra le prime cose che possono venire in mente, ma ci sono anche le canzoni dei Beatles e il jazz.
Pur non avendo mai avuto simpatia per l’arte narrativa di MH, posso notare che un compositore, che, io sappia, non è mai comparso, nei vari testi che compongono la narrativa di MH, per quanto potrebbe avere molto da dire, a mio modo di vedere, in quell’arte narrativa così tanto discutibile. Di chi parlo? di Dmitrij Šostakovič. In base a questo aspetto, posso solo dire che il modo in cui l’arte narrativa di MH usa la musica è solo l’adeguamento ad un aspetto dell’utilizzabilità di tutte le cose del mondo. Allora l’arte narrativa di MH sarebbe pura arte del bluff, basata sul farsi vedere ogni tanto sempre ben vestito e parlare in modo formale? (Tutte cose, queste, che possono facilmente essere messe in ridicolo, ma allora perché l’arte di MH non è mai stata smascherata? L’arte narrativa di MH ha il suo segreto nella creazione di un lettore particolare?)
“Bitte, Herr Murakami, un libro all’anno…” (ma MH non è Ernst Jünger).
Che cosa è la musica, nell’arte narrativa di MH? È ciò che, per sua natura si sottrae al pensiero, ma che, proprio per questa sua caratteristica, da MH riconosciuta, permette l’aggancio ad un testo narrativo. Questo perché MH non presenta mai la sua narrativa come ciò che richiama ad un pensiero. Tutt’altro.
Allora Šostakovič avrebbe le carte in regola per entrare in quella narrativa come effetto di anamorfosi. E infatti quella narrativa è per gran parte effetto di segmenti di anamorfosi.
Prima persona singolare è un curioso racconto contenuto nella raccolta omonima (Einaudi 2021). Tratta di un uomo che ogni tanto viene preso da una curiosa particolarità: vestirsi di tutto punto – completo elegante, giacca, cravatta, scarpe di cuoio – e uscire per fare delle cose (o andare semplicemente in alcuni luoghi) che non richiedono affatto un abbigliamento di quel genere. Vestito in quel modo egli non fa nessuna cosa particolare. A volte, per modo di dire, egli è costretto a vestirsi “di tutto punto”, perché l’occasione alla quale deve prendere parte, a causa della sua professione, richiede un abbigliamento di quel tipo, cioè l’abbigliamento importante del tutto diverso dall’abbigliamento che egli solitamente predilige; altre volte, invece, non è per niente così e il suo stile di abbigliamento, che egli definisce casual, potrebbe andare benissimo; eppure – non sempre, ma ogni tanto sì – egli avverte l’esigenza di vestirsi di tutto punto e andare in un luogo dove non è richiesto un abbigliamento di quel tipo, stare un po’ lì, come l’estraneo che effettivamente è, farsi i fatti suoi, come leggere un libretto in un punto appartato, e poi alzare i tacchi. Come non ci fosse mai stato.
(Questo la dice lunga sul modo dell’arte narrativa di MH, che si biforca in due direzioni: 1) l’anamorfosi; 2) lo smascheramento dell’anamorfosi. La narrativa di MH è ciò che fa uso dell’anamorfosi; e in questa postrema manifestazione di un’arte abbiamo la parvenza dello smascheramento dell’anamorfosi.)
Il periodo dell’anno in cui il racconto prende avvio è la primavera: una bella sera di primavera in cui il narratore si veste di tutto punto, esce di casa ed entra in un bar per leggere un libro, soltanto un libretto, un testo di paraletteratura come può essere un romanzo giallo, seduto defilato a un angolo del bancone.
Noi sappiamo però che l’utilizzabilità delle cose mondo, alla quale siamo sempre stati accompagnati dall’arte narrativa di MH, è cosa che impegna – e che può suonare davvero brutti scherzi.
Volutamente il Narratore ha evitato di entrare in un bar dove è conosciuto, perché il barista gli avrebbe subito chiesto: “Come mai vestito così di tutto punto?” ed egli – piccato su quel punto – non avrebbe avuto alcun picco su cui inalberare risposta, non sapendo, semplicemente, come rispondere picche. Quel bar, invece, defilato appena dalla sua abitazione, in cui nessuno lo conosce, si dimostra perfetto al caso suo. Rientra nella categoria della perfetta utilizzabilità delle cose del mondo, ed in tale corrispondenza a quella categoria egli utilizza quello spazio che si trova a disposizione.
A un certo punto una donna gli si avvicina e gli fa notare tre cose: 1) l’inopportunità dell’abbigliamento; 2) l’inopportunità della disinvoltura in quel caso da lui esibita; 3) la sua scarsa padronanza di quel tipo di abbigliamento, infatti la cravatta volgarmente italiana, acquistata di fretta nel duty-free di un aeroporto (come il N ha precisato quando si accingeva ad indossarla), non si adatta all’insieme di quell’abito inglese.
MH ha uno stile che tiene incollato il lettore al libro da lui scritto. È una facilità di lettura difficile a trovarsi. Possiamo dire sia un pregio? Possiamo dire sia qualcosa come una cravatta volgarmente italiana acquistata nel duty-free di un aeroporto e indossata quando ci si vuole abbigliare di tutto punto per fare qualcosa che non richiede quel tipo di abbigliamento? Un caso più rilevante del suo, vale a dire di una scorrevolezza ancora più evidente, posso dire di averlo trovato solo nel ciclo di Harry Potter di J.K. Rowling. In tutti e due i casi, accanto ad una incomparabile scorrevolezza di lettura, c’è un senso assoluto di non leggere niente, o di aver già sentito da qualche altra parte quelle cose che pure si leggono per la prima volta. È un po’ come succede quando si ascolta la musica di Šostakovič.
Il personaggio si dimostra allora del tutto fuori luogo, perdendo la padronanza della situazione, cioè la padronanza fittizia che fino a quel punto sentiva di poter esercitare 1) con la caratteristica di vestirsi di tutto punto, 2) con la scelta di un luogo appropriato, e che poco tempo prima gli era stata assicurata dalla sua immagine allo specchio, 3) ma nel quale egli era entrato come luogo in cui non lasciare traccia, dove nessuno avrebbe potuto riconoscerlo, e, azzardando che, forse, “non ha il piacere di conoscerla”, cercando di alzare i sonori tacchi delle sue scarpe di cuoio per l’occasione indossate (a differenza delle scarpe casual che di solito indossa per muoversi nei luoghi dove è conosciuto), cerca di filarsela. La donna, invece, perfettamente padrona della situazione, rimarca l’espressione che egli ha usato nei suoi confronti, al fine di togliersela elegantemente di torno, (“avere il piacere di conoscerla”, cioè la fa suonare come espressione, ma gliele suona di tutto punto non toccandolo), ridicolizzandola, e invitandolo a ricordare ciò che è avvenuto sulla spiaggia qualche anno prima insieme ad una sua amica (cioè ad una amica della donna che lo sta accusando), occasione di cui egli dovrebbe vergognarsi. La donna ha qui funzione di “ombra”, ma di ombra staccata, che solo in momenti favorevoli può trovare il suo corpo, ombra che ha seguito il N per ricordargli che egli, su una spiaggia, tempo prima, ha fatto qualcosa ad una sua amica, di cui dovrebbe tornare a vergognarsi (anziché tornare a farsi vedere vestito di tutto punto in occasioni che non lo richiedono e poi in luoghi dove meno che mai è conosciuto). Se il N ha compiuto qualcosa nei confronti di una donna, certo deve riguardare qualcosa compiuto non tanto sulla donna in sé, quanto all’ombra della donna, che però ha colpito (pesantemente o no) quella donna. Vale a dire qualcosa compiuto non tanto all’ombra della donna ma sull’ombra della donna. Vale a dire qualcosa che ha portato il N a sottrarre l’ombra, o parte dell’ombra, alla sua amica seguendo un modo che egli solo sa come mettere in pratica. E di cui noi, lettori, meno che mai sappiamo qualcosa. È appunto di questa attività segreta, di cui egli dovrebbe finalmente vergognarsi.
Il racconto ha qualcosa di misterioso; non è un racconto del mistero, cioè un racconto basato su di un mistero, ma un racconto in cui tutto l’insieme ha qualcosa di misterioso – o, se non proprio, come detto, “qualcosa di misterioso”, qualcosa di enigmatico. Azzardo qualcosa come la rappresentazione di un sogno, come diceva Strindberg, e aveva capito Artaud, nel progetto di messa in scena del testo che ha titolo Ett drömspel.
Che la musica sia pensiero ad una diversa velocità è ciò che non tocca mai la narrativa di MH, che utilizza la musica come sostanza che garantisce una inerzia, cioè come cosa che non è da pensare in quella cosa che è la letteratura, che meno che mai è cosa su cui deve esercitarsi il pensiero. Infatti MH utilizza la musica (nei suoi testi narrativi) in quanto opzione che non permette mai di pensare la musica. Così come, però, non pensa in generale in nessun’altra occasione (come per esempio nel caso delle anamorfosi), nel momento in cui il pensiero potrebbe sfiorare la letteratura. Il successo dell’arte narrativa di MH sta proprio nel fatto che è una narrativa che non pensa e meno che mai richiama a pensare durante la lettura.
È questa la constatazione che ha a che fare con quanto la donna del bar vuole fare presente al N? Perché no? Ma in questa letteratura basata sulla disinvoltura dell’utilizzabilità delle cose del mondo, non si può parlare di una cattiva coscienza da parte dello scrittore? Insomma: cose fatte in serie, che si distinguono da ciò che viene fatto in base ad una serie di partenza?
Allora che tipo di narrativa è questa narrativa che si presenta sempre un tantino zoppa? Il funzionamento di un romanzo di MH ha qualcosa che ci ricorda una vecchia partita a flipper, di quelle che si facevano nei bar al tempo in cui è cominciata la carriera letteraria di MH. Non è soprattutto il ruolo del protagonista a farlo notare? Se non sbaglio Hegel diceva che nel romanzo tutto si collega a tutto. L’arte di MH non mostra il collegamento fra le cose del mondo, ma mostra come varie cose del mondo possano essere sfiorate, scontrate, poste in movimento, siano sempre disponibili nella loro posizione in quanto cose sensibili, pronte a fornire risposta, squillare, fare punti, rilanciare, luccicare, fare accendere lampadine poste ad esse corona. Se la narrativa di MH non pensa, la costruzione di un romanzo di MH è basata su di una ideale partita a flipper. E quello che la lettura determina alla fine della partita è qualcosa come il punteggio di una partita a flipper. Questo è appunto il risultato di una scommessa, cioè di una decisione. Come la semplice decisione di essere in grado di scrivere un romanzo e quindi di diventare scrittore appena in un oplà (niente più).
Una caratteristica della narrativa di MH è l’abilità con cui vengono intrecciati tipi diversi di musica all’interno di un testo. Ma ci si può chiedere: a che livello compare, nella narrativa di MH, la musica?
Mi chiedo: se la musica, nell’arte narrativa di MH, avesse la funzione di distrarre? Ho appena detto che l’arte narrativa di MH è costruita in gran parte grazie ad un effetto di anamorfosi. Ma l’anamorfosi non è tanto ciò che deve distrarre, quanto ciò che non deve dare a pensare, cioè ciò su cui lo sguardo deve scivolare come qualcosa che non è da considerare, come vediamo nell’analisi del quadro Gli ambasciatori di Hans Holbein il Giovane compiuta da Baltrušaitis.
Allora quale potrebbe essere l’effetto di anamorfosi presente nella narrativa di MH?
Il procedimento di anamorfosi è caratteristico della narrativa di MH e si collega a un particolare essenziale di quella narrativa: l’usabilità delle cose del mondo. In questa narrativa non c’è mai una situazione di blocco per un personaggio, o se c’è, essa viene facilmente superata. Il protagonista è sempre colui che ha a disposizione una certa usabilità (spazio cittadino, territorio del Giappone, treni in perfetto orario, centri commerciali, donne sempre a disposizione, tutte cose che costituiscono la piena utilizzabilità delle cose del mondo).
L’oggetto in anamorfosi è quindi il trampolino di lancio per riconnettersi pienamente alla piena utilizzabilità delle cose del mondo. Per questo gli spazi di MH hanno sempre qualcosa del flipper, mentre il protagonista è la biglia che si muove scontrando i vari bersagli che incrementano il punteggio. In un racconto si è persino arrivati ad immaginare il cimitero dei flipper (mi riferisco a Flipper, cap. 22).
L’anamorfosi deve in questo caso restare sempre con le aberrazioni non corrette. Ma cosa succederebbe, mi chiedo, se queste aberrazioni venissero corrette e l’oggetto acquistasse le sue proporzioni originarie a fianco degli altri oggetti che costituiscono la normale narrativa di MH? È questa la domanda che la donna pone al N in 8, richiamandogli alla mente quanto accaduto fra lui e un’amica di lei, su una spiaggia, qualche tempo prima.
La donna gli pone una domanda precisa: “Non si vergogna?” Uscito dal bar, in una certa agitazione, il N si chiede di che cosa dovrebbe vergognarsi. Egli sa, però, che qualcosa di cui dovrebbe vergognarsi, c’è. Ma non ricorda dove; infatti la questione non si basa su “che cosa”, ma su “dove”, cioè sul dove che può essere rintracciato nella letteratura.
In quella raccolta c’è un racconto (il quinto di otto, mentre PPS è il numero otto, cioè l’ultimo) che ripercorre quanto è stato detto nella prefazione di Vento & Flipper, cioè della riedizione dei primi due romanzi di MH. Però in quella prefazione c’è un particolare di cui nel nuovo racconto non si fa parola: la decisione di diventare scrittore. Azzardo: non sarà che proprio di quella decisione il protagonista sia infine richiamato a vergognarsi (e quindi lo abbia escluso, salvo poi creare il personaggio, per eccesso di disinvoltura, della donna che si avvicina al N di 8, ecc?). Sono convinto che l’arte narrativa di MH possa essere considerata in base alla disinvoltura. Tutta l’arte narrativa di MH si è svolta all’insegna della disinvoltura; giunta alla fine, quest’arte ama, per un vezzo, confrontarsi con ciò che ne segna la fine: l’eccesso di disinvoltura.
Il procedimento sembra questo: un racconto di PPS, Antologia poetica per gli Yakult Swallows, richiama un procedimento tipico della narrativa di MH, la tecnica anamorfica. Collegando il racconto alla versione non deformata, cioè originaria, si vede che l’elemento, che è là importante, è quello che qui viene lasciato cadere: cioè la decisione di diventare scrittore. La donna del racconto 8, intitolato, come la raccolta, Prima persona singolare, parla di un qualcosa avvenuto su una spiaggia, di cui il N dovrebbe vergognarsi. La Prefazione non parla di nessuna spiaggia, ma di una parte dello stadio dove si svolge una partita di baseball. Il N è sdraiato poco fuori il campo da gioco vero e proprio: «A quei tempi, al Jingū [nome dello stadio] non c’erano gli spalti per gli spettatori, solo un pendio erboso.» (p. 10), «Ricordo ancora perfettamente la sensazione che provai in quel momento: avevo afferrato qualcosa che era sceso volteggiando dal cielo. Non sapevo perché fosse venuto ad atterrare proprio sul palmo delle mie mani. Non lo capivo allora, e non lo capisco oggi. Ma era successo, qualunque fosse la ragione. Era stata una sorta di rivelazione. O forse sarebbe meglio definirla un’epifania.» (p. 11). La striscia erbosa prende il posto della spiaggia, così come il cielo prende il posto dell’acqua. In quella spiaggia/spazio erboso, apparentemente senza nessuna ragione, qualcuno prende la decisione di diventare scrittore.
Ma qual è allora la funzione dell’anamorfosi? Essa offre la possibilità di giocare con le parole del mondo. Offre un metodo gratuito di selezione, che pure, a rigore di logica, non è una selezione. Senza il principio dell’anamorfosi, si sarebbe in balia del caos, così come il principio dell’anamorfosi permette di scantonare la possibilità di scegliere le parole del mondo; permette di scantonare a ragion veduta la selezione.
L’inizio e la fine di un romanzo di MH non sembrano contenere mai molto di importante. Questa narrativa è destinata a non cominciare e a non finire. Lo svolgimento è invece affidato a forme riconoscibili solo grazie all’anamorfosi, cioè grazie a quel principio che permette di scantonare il principio di selezione delle parole del mondo. Ogni romanzo di MH è un’avventura in una montagna incantata, e La montagna incantata come anamorfosi è uno strumento fondamentale in Norwegian Wood. Sono sempre più convinto, perché ho sempre più paura che l’arte narrativa di MH debba coincidere con l’arte di un atteggiamento, con l’arte di un bluff.
Il fatto è che MH ha fondato la sua narrativa sul niente. L’anamorfosi è la tecnica che gli permette di sfuggire al niente che egli, con la sua gratuita/estemporanea decisione di diventare scrittore, si è trovato a fare i conti. Il niente che egli ha chiamato non è la mancanza di tutto ciò che costituisce l’opposto del tutto, ma la presenza del tutto come impossibilità a cui applicare una selezione, vale a dire come possibilità di scegliere quel mondo di parole che servono a dare vita a un testo narrativo dalla prima parola all’ultima.
Ciò con cui egli ha a che fare è un totale che non dice niente, ma di cui la narrativa di MH deve rendere conto.
La butto lì: è possibile dividere gli otto racconti di PPS in questo modo: 1-2, 3-4 /5/ 6-7 /8/?
A regolare la divisione sarebbe allora la presenza o l’assenza di una donna.
Quasi ogni racconto presenta infatti una donna, oppure la sua assenza assoluta.
Con la donna di 1 si ha il massimo avvicinamento (rapporto sessuale), anche se poi la donna sparisce irrimediabilmente.
La donna di 2 è una donna esistente ma assente e l’invito che ella ha inviato al N si rivela un enigma, qualcosa su cui pensare senza arrivare ad una soluzione, come un cerchio con molti centri ma nessuna circonferenza.
In 3 la donna è assente.
In 4 la donna è presente e rivela la sua forza come fidanzatina in seguito suicida.
In 5 la donna è assente.
In 6 la donna è presente con la sua grande bruttezza e sarà assente a seguito del suo arresto per truffa.
In 7 la donna è presente in quanto indeterminatezza (le varie donne parzialmente senza ombra create dalla scimmia).
In 8 la donna è presente solo come accusatrice (accusa che riguarda un’altra donna del tutto assente). Nell’ultimo racconto si ha quindi il massimo allontanamento, così come nel primo si aveva il massimo avvicinamento.
5 è un punto di svolta, non c’è una donna, ma c’è la raccolta di poesie che MH ha composto in onore degli Yakult Swallows. Si tratta di un libro autoprodotto che ricorda il libro autoprodotto dalla ragazza di 1.
La donna di 7 è una donna alla quale è stato sottratto il nome. La scimmia di 7 confessa di avere sottratto il nome a 7 donne. La donna di 7 potrebbe essere allora l’ottavo caso che allaccia queste sette donne. Quindi è dalla donna di 8 che bisogna partire per comprendere le altre donne che l’hanno preceduta nella raccolta.
La donna di 6 (nel racconto Carnaval, denominata nella finzione come F***) è una donna presentata dal N come di grande bruttezza. Il N può incontrarsi tranquillamente con lei senza suscitare la gelosia della moglie. La moglie definisce F*** “la tua girl-friend”, cioè “la tua fidanzatina, la tua ragazza”. “La mia ragazza” è l’espressione che il N di 4 (With the Beatles) usa per Sayoko. Sapremo questo nome quando per caso verrà usato dal fratello di lei, mentre il fratello sarà definito, nel racconto, come “il fratello della mia ragazza”, però ad un certo punto, il personaggio presentato come “il fratello della mia ragazza” userà il nome Sayoko per definire il personaggio che prima di allora era sempre stato presentato dal N come “la mia ragazza”. “F***” è la formula (non proprio semplice) che il N usa per raccontare la storia che la riguarda. In entrambi i casi (racconto 4 e racconto 6), a queste due donne è stato, in un modo o nell’altro, sottratto il nome: nascosto del tutto dal N nel caso di 6, usato con reticenza da un personaggio nel caso di 4. Il personaggio “Sayoko” e il personaggio “F***” sono apertamente lo stesso personaggio, sospinte in scena in due momenti diversi della stessa composizione in otto movimenti. Sono lo stesso personaggio con due allacciamenti diversi con tutte le cose del mondo, che li fa quindi comparire come due personaggi diversi perché trovati in due segmenti di tempo diversi (racconto 4 e racconto 6). Per una nostra abitudine a identificare il personaggio di una narrazione con la nostra abitudine a identificare una persona con qualcosa che può essere spiegata tramite una psicologia.
Quasi me ne dimenticavo: nel romanzo La fine del mondo e il paese delle meraviglie di MH si parla di un personaggio che accetta di cedere la propria ombra, ombra che verrà da quel momento ad avere un propria vita indipendente da colui che prima la possedeva.
PPS si basa su qualcosa che è stato fatto ad una donna, e di cui il responsabile dell’azione dovrebbe a questo punto vergognarsi. A fianco di questa situazione abbiamo due episodi: il furto del nome (e dell’ombra) fatto ad alcune donne; l’identificazione di un uomo, apparentemente innocuo, come il responsabile dell’azione compiuta contro la donna qualche tempo prima su di una spiaggia e che egli non sembra minimamente ricordare. Consideriamo gli otto racconti come otto segmenti relativi al “fattaccio”. La mancanza di poter ricordare il fatto realmente compiuto è ciò che determina l’isolamento delle otto situazioni. Quindi ciò che determina la stesura del testo attraverso otto racconti autonomi anziché attraverso un unico racconto lungo o un solo romanzo breve.
La donna di 8 permette di comprendere le altre donne che compaiono nella raccolta. Ciò che abbiamo compreso della donna di 8 permette di comprendere meglio le altre. Fra questi elementi c’è un rapporto di entanglement. Quando, con la comprensione, modifichiamo l’immagine della donna di 8, anche le altre immagini di donne si modificano.
Gombrowicz è il signore dell’arte di allacciare le parole del mondo in grado di far parte di un romanzo. Lo dimostra il finale perfetto di Cosmo: «E per cena, pollo lesso.» Ma MH non è Gombrowicz. Karen Blixen diceva che solo quando si tolgono le maschere si è in grado di vedere la verità… della maschera. Ma MH non è Karen Blixen. Può solo indicare un gioco di maschera e volto. Niente più.
Alla fine si dovrebbe avere l’immagine di una donna che sarà la somma di tutte le donne presenti in questi racconti, così come l’immagine di tutti i N che agiscono in questi racconti, e di MH chiamato col suo nome vero in 5, forniranno l’immagine di un unico N. A quel punto si avrà l’immagine dell’azione che è scaturita dall’incontro del N con la donna. Ma questo potrebbe comportare qualcosa come il tentativo di suicidio quantistico dell’arte narrativa di MH. Non vi sembra?
Nonostante l’apertura della narrativa di MH al fantastico, tale narrativa dice sostanzialmente che nel mondo non c’è alcun mistero, perché questa letteratura dice che, nel mondo della totale disponibilità di tutte le cose del mondo, non c’è più il mistero del mondo. E infatti questa letteratura, secondo me abilissima nell’arte di propinare l’arte del bluff, dice che non c’è mai il mistero del mondo; anche quando ricorre apertamente all’elemento misterioso, come nel caso di 1Q84 o de L’assassinio del commendatore, questa letteratura dice che questo mistero è qualcosa che si potrebbe indicare come la presenza di un mistero. Ma così facendo, quest’arte narrativa svaluta il mistero del mondo, che pure sembra sempre chiamato ad esserci, anche nelle pieghe più sconcertanti che questa letteratura presenta. Una tale svalutazione viene rivelata probabilmente alla fine di PPS, quando il protagonista si trova a camminare in una strada diversa, con un clima improvvisamente diventato di pieno inverno (mentre l’avvio del racconto era avvenuto in una bella sera di primavera), tra serpenti che scendono dagli alberi e persone che avanzano col fiato giallo. E questo è il momento più gretto di questa letteratura, perché è il momento in cui questa letteratura perde la disinvoltura che le aveva permesso di scorrere i vari passaggi fino ad arrivare al punto finale: vestirsi di tutto punto, uscire di casa, entrare nel bar, rispondere alla donna che lo aveva affrontato, uscire dal bar.
Invito a ricordare i due mondi paralleli del ciclo di Harry Potter, quello della magia e quello della non magia, con isolati e nascosti punti di passaggio in alcuni punti della città. (È “fantastico”, questo?) MH dimostra qualcosa del genere in 1Q84, nel tunnel per passare inavvertitamente nel mondo delle due lune e poi per tornare nel mondo con una sola luna. (È “fantastico”, questo?)
Il mistero di MH esibisce l’orgoglio tecnologico dell’effetto speciale in un film, ma dove tecnologia e leggerezza sono alleate, non cercando mai di sorprendere, come avviene in un film. A differenza del film con effetti speciali, la narrativa di MH accompagna senza mai stupire. Questo perché qualsiasi utilizzo di una cosa del mondo si risolve in un punteggio. Sfiorare qualche cosa del mondo è infatti guadagnare un certo punteggio: è per questo che (io dico) la narrativa postmoderna di MH ha flipperizzato il mondo. Tanto più che la narrativa di MH richiama il vecchio flipper, meno che mai il romanzo postmoderno (figuriamoci i videogiochi).
Nel mondo c’è un mistero. Può essere il mistero della musica o il mistero dell’amore. L’arte narrativa di MH non ha mai pensato la presenza di questo mistero come insieme di cose su cui pensare con lo strumento della sua arte (capitatogli un po’ dall’alto e un po’ grazie ad una decisione presa dal basso), anzi, proprio grazie allo strumento della sua arte lo ha ignorato, inglobandolo come possibilità di scorrere tra tanti punti sensibili fra cui scorrere e sbattere per segnare punti, cioè presentandolo come un piano di gioco inclinato su cui totalizzare un punteggio finale; vale a dire ha pensato il romanzo come il piano inclinato bene illuminato di un flipper, per cui quello che la sua arte narrativa poteva dire del mistero del mondo è che nel mondo c’è un mistero (cosa che, paragonato al ciclo di Harry Potter, può dirsi comunque un passo avanti).
Bene. Questo è quello che io chiamo la “flipperizzazione” che l’arte della narrativa di MH ha introdotto nell’arte della narrativa. Posso anche dire, richiamando Sterne, che questa volta sono stato proprio bravo.
Noi sappiamo come usare le cose del mondo e sappiamo che quello che si può fare con una cosa (ad es. con la cosa musica) non si può fare con altre cose (ad es. con la cosa “letteratura” o con la cosa “filosofia”). La musica è pensiero a una diversa velocità. È difficile pensare la musica in questi termini. MH inserisce la musica nei suoi romanzi come punto sensibile che la biglia-personaggio fa scattare nel suo andare e venire lungo lo spazio-gioco che gli è destinato.
In questa raccolta sorniona, la moglie del Narratore ha la stessa funzione della moglie del tenente Colombo. Compare due volte: in 5, quando autorizza – secondo le parole del N – gli incontri del marito con la donna denominata, nel racconto, dal N F***, e in 8, quando, ancora più implicitamente, essendo ella andata con un’amica in un ristorante di cucina cinese, cucina che il marito non sopporta, permette l’uscita del marito vestito di tutto punto. In tutte e due le occasioni, questa donna compare sempre indirettamente “nascosta”. Nascosta dalle parole del N. Il N, dovendola nominare, dice sempre di lei “mia moglie”, così come, nella stessa occasione, dice sempre il tenente Colombo.
Questo particolare la dice lunga sull’arte narrativa di MH. È un’arte dello scambio, dell’utilizzabilità, dello scambio della moglie: qualcosa come lo scambio di coppie presente in alcuni punti di 1Q84.
Ma l’oggetto dello scambio di questa narrativa è qualcosa di ben diverso dal puro scambio di donne. Si potrebbe dire che la moglie di 5 non è la stessa moglie di 8, ma si potrebbe obiettare che i due personaggi si comportano, nei due racconti diversi, come fossero lo stesso personaggio in due momenti diversi di una stessa narrazione, colti in base a un sistema di segnalazioni che per noi determinano il racconto breve o la narrazione lunga, non riuscendo, noi, a comprendere la continuità. Quindi quando misuriamo qualcosa come racconto o romanzo, ritrovandoci d’accordo in quelle definizioni. Quindi facendo noi riferimento a un puro sistema di relazioni.
Per quale motivo il protagonista di 8 dovrebbe vergognarsi? La donna esordisce chiedendogli se gli sembra giusto comparire lì in quel modo. Se l’abbigliamento di quel tipo è una metafora per la tecnica di anamorfosi tipica di MH, allora quello che la donna chiama in causa è l’arte narrativa stessa di MH. Ma il difetto rintracciato in questa tecnica non consiste nella mancanza di qualcosa, quanto nel fatto della sua presenza (cioè nella sostanza di quella tecnica, vale a dire l’anamorfosi, che ora è soltanto essere vestito di tutto punto); allora ciò di cui il protagonista dovrebbe vergognarsi non riguarda ciò che ha fatto, ma ciò che non ha fatto. Quindi: che cos’è che non ha fatto? Se 5, paragonato alla Prefazione, rivelava la mancanza della decisione di diventare scrittore, 8 stabilisce che la decisione non ha portato a un bel niente. Quando infatti l’uomo, nella sua solitudine dell’essere vestito di tutto punto, pensa a quanto accaduto, non gli viene in mente un bel nulla.
L’accusa riguarda la questione di ciò che fa ed è lo scrittore. Cioè la questione di che cosa voglia dire decidere di diventare scrittore in modo da vivere facendo solo quello; eppure è proprio la cosa che quel poveraccio, che vediamo colto ogni tanto dalla curiosa mania di vestirsi di tutto punto, meno che mai può avere qualcosa da dire; senonché proprio quel poveraccio è la perfetta rappresentazione della questione.
Faccio una pausa: ci vorrebbe una specie di antropologia dello scrittore, un modo per analizzare il rapporto dello scrittore con l’impulso a scrivere, prima ancora che con la facoltà di creare opere. Ricordare quello che Frisé notava a proposito dei Diari di Musil: «scrivere è più importante dell’opera, scrivere è l’opera.» Opera che però si stabilisce non più come una rete di parole allacciate tra un inizio e una fine. Il nostro personaggio è infatti il perfetto ectoplasma di questa raccolta, così tanto fantasmatica che ci giunge tra le mani come lanciata dal cielo (la possibilità, cioè, che lo scrittore non abbia nulla a che vedere con il progetto di diventare scrittore) e allora qual è l’autorità della donna di 8 che le permette di affrontare quell’uomo così problematico?
Si potrebbe dire che anche decidere di fare lo scrittore per distruggere ciò che è lo scrittore… ma, forse, questo è pretendere troppo da MH.
Bisogna invece capire perché quest’accusa, estremamente vaga, abbia colpito così tanto il N, cioè il narratore MH, tanto da presentarsi come personaggio dell’ultimo racconto della raccolta. (Anche se viene celato il suo nome, ecc. – a differenza di quanto accade nel racconto 5, dove il nome completo della scrittore e parte della sua storia-carriera sono presentati.)
È una questione che riguarda il pieno e il vuoto. La curiosa, estemporanea piccola mania del N contribuisce a dargli senso: vestito di tutto punto, in quel bar dove nessuno lo conosce, contribuisce a farlo sentire a suo agio, a sentirsi pieno di senso. L’accusa lo sgonfia. Anche la scena d’incubo che lo attende poco dopo contribuisce al rapporto pieno/vuoto. Ma è soprattutto nel meccanismo dell’arte narrativa di MH che bisogna guardare a fondo. MH non ha giocato sulla letteratura come menzogna, ne ha semmai accettato la verità, ma in qualche modo l’ha svuotata, rendendola una cosa di sola superficie.
Mi è appena venuto in mente: Franz Joseph Haydn ha ricevuto una struttura per quanto riguarda la sinfonia e il quartetto per archi, ma ha lasciato un insieme di sinfonie e di quartetti per archi in cui la forma originaria della struttura da lui ricevuta veniva fortemente modificata, a differenza di quanto accade con i vari concerti da lui composti, dove, a livello di struttura, tanto ha ricevuto, tanto ha lasciato. L’approfondimento creativo di ristrutturazione della forma non c’è stato. Mi sembra che MH parli molto poco della musica di Haydn, che non è probabilmente tra i suoi autori preferiti (non è qui il caso di chiedersi perché).
Il grande artista rivoluziona la struttura che gli capita tra le mani, il suo genio stravolge la forma nel momento in cui la utilizza. MH non ha cambiato niente della forma-romanzo. Ha semplicemente utilizzato una forma che gli è arrivata di colpo come preesistente, la forma del romanzo postmoderno, “flipperizzandola”, cioè adattandola alla sua visione del mondo (che fa capo all’utilizzabilità delle cose del mondo) e al suo risiedere in un luogo (il Giappone moderno) che ha a che fare con l’utilizzabilità di tutte le cose del mondo.
Se la narrativa di MH non parla della musica di Haydn, c’è un particolare che viene in mente quando si pensa alla musica di Haydn: il buonumore. La narrativa di MH non ha mai a che fare col buonumore, come ad esempio l’arte narrativa di Dickens; per questo che, forse, MH non si sofferma sulla musica di Franz Joseph Haydn, ma è ispirata invece (la narrativa di MH) alla certezza della scorrevolezza, che implica la percorribilità dei vari segmenti in cui sono divise le varie città postmoderne. Ma possiamo dire che la musica, nell’arte narrativa di MH, sia qualcosa collegata al pensiero, cioè da pensare? Io direi proprio di no. Semmai qualcosa da collocare. L’arte di MH sostituisce la scorrevolezza all’arte del buonumore (che è di Haydn nella musica e di Dickens nella letteratura) con qualcosa che è la pura scorrevolezza di un testo.
Però possiamo dire che la formula “Haydn per finire” si oppone alla formula “Šostakovič per cominciare”.
La donna non è solo l’unico elemento per tenere insieme gli otto racconti della raccolta. Ripercorriamo gli 8 racconti in base alla possibilità di “allacciare” la cintura che ingloba le parole selezionandole in base alle parole che possono entrare a far parte del testo e solo di quello (che sia racconto o romanzo), tenendo fuori tutte le altre parole del mondo. Vale a dire ciò che viene regolato in base a un criterio di “inizio” e a un criterio di “fine”.
Gombrowicz è il signore dell’arte di allacciare le parole del mondo in grado di far parte di un romanzo. Lo dimostra il finale perfetto di Cosmo: «E per cena, pollo lesso.» Ma MH non è Gombrowicz.
Ogni racconto di PPS si caratterizza in base a una difficoltà di usare le parole del mondo, senza che il problema di una adeguata selezione rispetto a ciò che deve restare fuori, venga mai avanzata. Che tipo di racconti vediamo in questa raccolta che allaccia otto racconti così tanto diversi? Racconti che si determinano in base all’impossibilità di scegliere tra le parole del mondo, di creare l’allacciamento delle parole tra un inizio e una fine dell’opera. Che cosa dice, allora, un romanzo di MH, spesso così attratto dal fantastico?
Consideriamo il racconto 2 (La crema della vita). Il protagonista viene invitato ad un concerto da una ragazza che non vede da un certo periodo di tempo. Quando si reca nel punto dove dovrebbe esserci il concerto, scopre che non c’è nessun concerto. Perché è stato invitato, allora? Senza volerlo, si mette a parlare con un signore anziano seduto su una panchina. Questi non ha nulla a che vedere con quanto accaduto, ma invita a fissare il pensiero su ciò che è quasi impossibile da pensare (come la forma di un cerchio con molti centri ma nessuna circonferenza) perché proprio in questa sfida, egli sostiene, starebbe il bello della vita, la sua essenza, la sua crema. Anche altri racconti di PPS (1, 3, 4, 6, 7) sembrano avere la stessa struttura in due movimenti: una parte prevalentemente narrativa, una seconda parte riflessiva. La parte narrativa è minimalista, i personaggi non sono per niente trattati in modo artificioso; la parte riflessiva ragiona su quanto accaduto. Il ragionamento può prendere l’aspetto di una sfida, come in 2, ma non segna mai il confine di un pericolo da affrontare. Infatti, fare della scorrevolezza il punto di forza della propria arte vuole dire eliminare la possibilità del pericolo come incontro con ciò che è nuovo.
Qual è la posizione della scimmia (racconto limite della struttura in due movimenti)? Determinarla è senz’altro di grande importanza. Sappiamo che, per un certo periodo di tempo, la scimmia ha avuto l’abitudine di rubare il nome delle donne per le quali provava una certa attrazione sessuale – pur essendo una scimmia. Rubare il nome alle donne equivaleva a rubare qualcosa del loro nome, infatti la scimmia, per effettuare il furto, agisce sul nome. La scimmia sottraeva qualcosa che può essere indicata in forma scritta come “un ombra”. Scrivere “un ombra” senza apostrofo è delimitare ciò che la scimmia rubava: la scimmia si appropriava (e stando al racconto forse ancora si appropria) di quella parte di ombra che l’apostrofo lancia sulla parola “ombra”. È tuttavia anche possibile che qualche altra scimmia abbia scoperto quel segreto, e lo stia usando ai danni di diverse donne.
È certo che è di questo che il N di 8 deve vergognarsi. Su una spiaggia, che era un campo erboso al margine di uno stadio di baseball, un ragazzo tifoso di un squadra scalcinata di baseball ha deciso di diventare di colpo scrittore, facendo qualcosa che ha sottratto qualcosa a chissà cosa di altro. Questa decisione si basa sulla traiettoria di una palla, su un arcobaleno di gravità… trasformato in epifania di una palla.
Però non gli è andata male (tutt’altro). Ma questo non stabilisce niente. Da qui il richiamo al doversi vergognare.
La scimmia, come immagine anamorfica dell’uomo, ci porta alla deformazione anamorfica come immagine curiosa che si proietta spesso nei testi di MH (letteratura che richiama letteratura, e che sa di una via d’uscita – per ciò che letteratura sa di non poter essere). Non vi sembra?
La butto lì: giunto all’apice della sua carriera, il vecchio (falso) mago MH immagina una tempesta e riunisce delle cose della sua arte, non su di un’isola, ma in un semplice bar isolato dove nessuno ha il piacere di conoscerlo. È appunto l’ultima fregola di un maghetto alla Harry Potter a cui è sempre stato concesso di prosperare magnificamente. Grazie, non dimentichiamolo, alla sua bacchetta magica di scrittura. Così egli fa suonare tutto bene prima di buttare via la bacchetta. Gli spettri non li manda via, ma li fa sfrecciare insieme al suo personaggio appena lo ha fatto uscire dal bar. Spettri invecchiati, deformati… mostri. C’è qualcosa che non va. Questo è quel qualcosa di cui ci si deve vergognare. Se questa raccolta fosse però la piena confessione di uno qualunque che ha deciso di diventare scrittore, per cui il peggio deve venire?
Allora ci si dovrebbe chiedere: “Che cosa è dello scrittore nella nostra epoca?”
Quello che fa, o faceva, la scimmia, cioè rubare il nome ad alcune donne, è collegato alla misteriosa azione per la quale il N di 8, stando a quanto dice la donna, dovrebbe vergognarsi.
Se noi consideriamo la scimmia come anamorfosi dell’immagine umana, la funzione dell’anamorfosi che compare nell’arte narrativa di MH è una funzione di comodo, che permette quella attività di scrittore, di cui però il suo autore non dovrebbe assolutamente inorgoglirsi, anzi dovrebbe vergognarsi, in quanto attività che si è sempre sostenuta su di un inganno, sulla sottrazione di qualcosa ad una parte che doveva restare intera.
È difficile immaginarsi il N di 8, che vediamo come un tranquillo tipo qualunque, con la curiosa abitudine di vestirsi di tutto punto per fare delle cose in un certo ambiente, che non richiedono quel tipo accurato di abbigliamento, fare qualcosa, di cui dovrebbe vergognarsi, ad una donna. Ricordare che il fratello di Sayoko, dopo aver parlato al N del suicidio della ragazza, gli dice che, secondo lui, egli è stato l’unico vero amore della ragazza: «“Senti, permettimi di parlarti con sincerità, anche se… se quello che ti dirò potrebbe pesarti sulla coscienza. Sayoko ti ha amato più di chiunque altro.”» (p. 61).
In realtà è la scimmia che ha fatto la cosa per cui ci si dovrebbe vergognare (cioè il furto di un qualche cosa, grazie all’anamorfosi): ma chi si nasconde dietro la scimmia? La scimmia è il risultato di una umanizzazione che nasconde il fenomeno dell’anamorfosi che è fondamentale nell’arte narrativa di MH.
La questione è: che cosa è letteratura? Il richiamo a nozioni fatte vestendosi di tutto punto, o la possibilità di aprire un campo di minacce? (tanto che l’altra persona possa sentirsi poi chiamata a scostarsi e a chiedere: “È una minaccia?” poiché avverte un pericolo – più che non richiamare a un dovere di vergogna nell’arco di un arcobaleno di una gravità.)
Descrivere il mondo è pornografia. Istituire un rapporto tra un soggetto ed alcuni oggetti del mondo è produrre una sottile pornografia. È quello che ha rappresentato Gombrowicz con il personaggio che porta il suo stesso nome. Di qualcosa attinente alla pornografia viene indirettamente accusato il N di 8, ma l’accusa reale riguarda l’uso della pornografia, cioè della descrizione del mondo (che è pornografia) da parte di una letteratura che evita proprio di mettere in scena quel rapporto basato su di un principio pornografico.
Cosa mette in scena l’incontro del racconto 8? Uno sdoppiamento, che per il N non esiste, mentre per la donna è evidente. Lo sdoppiamento riguarda la capacità di autoironia, la possibilità di dire delle cose lasciando intendere di dire la cosa opposta (cioè la possibilità del bluff che è alla base del N che, ogni tanto, viene preso dalla necessità di vestirsi di tutto punto per fare delle cose che non richiedono assolutamente un abbigliamento di quel tipo); la donna annulla invece qualsiasi possibilità di sdoppiamento e dice che, presentarsi in quel luogo vestito di tutto punto è solamente una cosa di cui ci si deve vergognare. Lo sdoppiamento messo in atto dal N richiama il bluff, mentre la donna smaschera il bluff.
La biglia (palla del gioco) è ciò che deve essere rilanciata indietro con uno scatto effettuato al momento giusto al fine di segnare nuovi punti sul vecchio percorso. Questo è ciò che la decisione di diventare scrittore ha comportato nel momento in cui si è visto atterrare la palla in gioco.
Ma perché, da parte di questo maestro del romanzo lungo, giunto all’apice della sua arte, creare otto racconti brevi – cioè puntare sul segmento anziché sul continuo? Forse potrei dire che queste sottigliezze dell’arte narrativa di MH sono proprio quelle cose che a me non interessano, avendo io, come ho detto in apertura, non molta simpatia per l’arte narrativa di MH, ma posso invitare a considerare un’opera riconosciuta come enigmatica, l’ultima sinfonia di Šostakovič, compositore ignorato nell’arte narrativa di MH.