Giorgio De Maria, Le venti giornate di Torino

Costruzione

Come affrontare Le venti giornate di Torino di Giorgio De Maria? Il romanzo è organizzato in undici capitoli: cinque capitoli che sembrano presentare i misteri in questione, un capitolo centrale – il sesto – con funzione di Intermezzo, cinque capitoli che coinvolgono direttamente il protagonista, senza risolvere i misteri, che la prima parte spandeva, ma che chiudono la materia del romanzo. A prescindere dal capitolo 6, che ha funzione di spartiacque, vediamo che i dieci capitoli restanti presentano simmetrie precise:

Il capitolo 1 e il capitolo 11 presentano la prima vittima e l’uccisione in massa dei passeggeri del volo falsamente diretto a Venezia. La prima vittima è una vittima casuale, le ultime vittime sono vittime selezionate attraverso un sistema che è stato in azione lungo tutto questo romanzo, e che attraverso la prenotazione del volo prevede il principio della selezione, anche se è solo uno dei diversi sistemi di selezione possibile.

Il capitolo 2 e il capitolo 10 sono dedicati al personaggio dell’avvocato Andrea Segre: nel capitolo 2 l’avvocato, contattato dal protagonista per il libro che ha intenzione di scrivere in merito ai fatti accaduti nelle “venti giornate” di dieci anni prima, fatti per i quali l’avvocato ha reso testimonianza alla polizia, parla ora di nuovo delle grida che ha udito dal suo appartamento, in presenza di una persona che sembra più propenso ad ascoltarlo; nel capitolo 10 l’avvocato parla invece esplicitamente di un complotto dal quale loro due devono fuggire.

Il capitolo 3 e il capitolo 9 sono incentrati sulla Biblioteca, istituzione centrale, secondo il protagonista, in rapporto ai fatti relativi le “Venti giornate” e la sua ricostituzione diffusa in ogni punto della città. Nel capitolo 3 il narratore cerca di fare il punto su quello che si sa della Biblioteca, accedendo ai manoscritti sopravvissuti (tutti i manoscritti custoditi nella Biblioteca sono stati bruciati); mentre nel capitolo 9 egli si accorge che tutta la città è diventata una Biblioteca, cioè invasa dal progetto della Biblioteca, con persone che sanno dove lasciare e dove prelevare manoscritti.

Capitolo 4 e 8: la notizia riguardante la seconda vittima e notizie varie. In 4 c’è la testimonianza di una coppia di turisti tedeschi riportata dal giornale tedesco «Der Spiegel»; in 8 c’è la notizia dell’arresto di una persona sospettata di essere l’autore dei delitti, tale Antonio Mangiaferri, lombrosianamente aderente ai tratti di quell’uomo delinquente, che non era l’uomo delinquente perché qui non si parla di ciò che è umano, e che poi si scopre essere del tutto invece innocente. La coppia di turisti non sembra soggiacere al fattore ipnotico che invece sembra colpire la gente del posto, tanto è vero che riesce a uscire indenne dall’albergo in piena notte; riesce poi a vedere lo strano personaggio, che, con andatura marziale, aggredisce una persona qualunque che si trova di colpo davanti e a descrivere tutto quanto accaduto al giornalista di «Der Spiegel», a differenza di quanto accaduto invece alle altre persone, i torinesi imbambolati dall’insonnia presenti, che non sembrano avere notato niente.

Capitolo 5 e 7: qui si ha la contrapposizione tra le manifestazioni dei millenaristi e le voci registrate fatte ascoltare da Segre al narratore. Nel capitolo 5 il protagonista assiste a una manifestazione dei Millenaristi, essendo lì capitato per caso; nel capitolo 7 il protagonista ascolta le registrazioni che da semplici rumori passano a frasi complesse con un senso compiuto e poi a primitive grida di battaglia, dopo che l’avvocato Segre lo aveva indirizzato verso di lui.

Il capitolo 6 ha il titolo Intermezzo: Tutta la costruzione del capitolo è finalizzata al “passaggio”: passaggio a Torino dell’amico di Venezia Eugenio Ballarin e passaggio solitario del protagonista nelle zone di Torino che hanno costituito le “venti giornate” di quella città, concluse dall’incontro con suor Clotilde, che lo ha atteso sul portone di casa per impostare il messaggio della battaglia in corso – richiamato dalla componente finale “-hildr” del suo odioso nome in italiano. È da notare che il meccanismo logico è lo stesso rispetto al romanzo I Trasgressionisti, imperniato sul Grande Salto come punto centrale (anche se I Trasgressionisti rappresentano il movimento opposto delle Venti giornate: ciò che precede il Grande Salto coinvolge il protagonista in una serie di trasgressioni; ciò che lo segue lo riconcilia invece con la vita di sempre, alla quale egli sembra di riadattarsi perfettamente, ma con la consapevolezza di avere effettuato il Salto): la dannunziana città d’acqua, d’arte e spettri accoglie in un blando bolso belenso notturno il baritono della Fenice parcamente di suo già tutto deambulante, tutt’altro che con la marmorea testa, bensì con reiterati e rumorosi peti, che gli costano, da allora (dico al baritono), l’interpretazione di don Giovanni nello spartito in cui, contraddicendo appieno il libretto di Musil, secondo cui i monumenti non si sentono mai, mentre don Giovanni nota la statua immediatamente già presente a sera, quando il commendatore era appena stato ucciso da lui la mattina di quella stessa giornata. La simmetria fra le due sezioni del capitolo, la prima che può essere identificata con la prima parte del romanzo, la seconda che può essere collegata alla seconda parte del romanzo, è interrotta dal capitolo centrale, che ha in tutto funzione di “intermezzo” e che è diviso in due parti: una parte elimina la questione dei monumenti con la boccaccesca storia del baritono a Venezia – Boccaccio a Venezia, in questo caso, come Boccaccio a Napoli, in un altro caso – un’altra parte che ha il culmine con l’avvertimento di suor Clotilde nel suo recinto di battaglia nel quale il protagonista viene attratto.

Pensiero

Dice Musil, nel suo libretto in questione (Pagine postume pubblicate in vita) in rapporto ai monumenti: «Non si può dire che noi non li vediamo, sarebbe più esatto affermare che essi non si fanno osservare, che si sottraggono ai nostri sensi: è una loro prerogativa del tutto concreta, incline quasi alle vie di fatto!» e questa frase potrebbe avere ispirato a Giorgio De Maria il tema pulsante delle Venti giornate di Torino.

L’opera non è ciò che il suo creatore programma in anticipo sulla carta, ma ciò che dalla sua propria materia sconosciuta salta addosso all’autore, imponendo la forma precisa – come l’incubo d’ombra di parola della mara nelle lingue germaniche.

Il libro di Musil, nietzscheano postumo di destra, è una raccolta di pensieri nel tempo in cui gli scrittori sembra abbiano recepito dai filosofi l’avvertimento che non bisogna più pensare i pensieri, perché bisogna invece viverli, per cui sembra abbiano concluso che gli scrittori non devono più pensare.

La questione è ciò che, partendo dai monumenti in quanto ciò che viene messo da parte, porta a ciò che sembra riguardare ciò che deve essere considerato – per cui c’è da chiedersi: che cosa è che è stato messo da parte e che potrebbe voler essere considerato? e quindi: che cosa è la cosa che, adesso, deve essere portata via, cioè lasciata cadere, vale a dire uccisa?

Il monumento scende di livello e considera quello che è subito al di sotto di lui, che è quello che i torinesi non notano, mentre i turisti tedeschi notan di colpo. Da qui il livello del meticciato, che è ciò che deve essere considerato, cioè eliminato.

Ciò che viene fatto cadere

Come presentare il nuovo delitto, che deve essere il richiamo al racconto di un “delitto e castigo” senza più ombra alcuna di castigo alcuno? Esseri che non si sono mai considerati parte della città – i monumenti – si animano, e afferrano persone qualunque per sbatterle come clave contro ciò che essi si trovano di colpo ad avere davanti, una volta giù dai loro piedistalli, in forma di ostacolo, si tratti di arredamento urbano, come alberi o statue, oppure di nemici venuti al mondo come conigli. C’è l’idea di un salto oltre una linea, linea franca. Noi non sappiamo cosa possa aver animato i monumenti, ma sappiamo cosa ormai possa costituire l’idea di un altro essere in tutto simile a noi e cosa invece possa ancora ostacolarlo – per cui dovremmo sapere che cosa è giusto sopprimere in quanto vita indegna di vivere, anche se non siamo più disposti ancora a parlare di “vita indegna di vivere”. Più che “romanzo maledetto”, come Giovanni Arduino lo ha definito, questo è un romanzo infernale, trattando esso un tema ritenuto infernale: cioè il tema della necessità di uccidere sempre più nel tempo in cui uccidere è cosa che esula da ciò che è necessario, perché questo tempo si profila come il tempo che non è più il tempo degli assassini, ma il tempo che pone la domanda: “Che cosa è la cosa a cui deve essere tolta la vita?” – da qui la tendenza postmoderna, possiamo noi ora dire di non risolvere, a proposito di questa narrativa.

Il titolo del romanzo di Giorgio De Maria, Le venti giornate di Torino, ricorda il titolo di un altro noto romanzo maledetto, il cui titolo stenta e suona: Le 120 giornate di Sodoma; infatti, se da “120 giornate” si fa cadere il numero “1”, si ottiene “Venti giornate”, per cui vale la pena chiedersi: “come si manifesta, ‘Sodoma’, nelle Venti giornate, in quanto ‘1’ che viene fatto cadere?” si manifesta tramite i rumorosi peti che nell’Intermezzo vengono rilasciati dal monumento in quanto capitolo centrale del romanzo, e tramite gli escrementi umani di cui informano le lettere misteriosamente consegnate nell’abitazione del protagonista (cap. 9) dal mittente anonimo, indipendentemente dal sistema delle Poste Italiane, che è ciò che rimanda in blocco al romanzo di Thomas Pynchon L’incanto del lotto 49, squillante trombetta che sona tutta strinata stonata dal meticcio italiano Dante Alighieri (la iena che fa versacci di tromba tra le tombe); ed eccolo là, quel bastardo di italiano quando ora si va veloci, su mostro strano che l’uomo domina con il pensiero e con la mano senza più fermate, neanche per pisciare – è chiaro che abbiamo a che fare con un uso non accademico dell’Orifizio, così come abbiamo a che fare con un uso tutt’altro che accademico del Romanzo – per cui c’è da chiedersi: come si manifesta – l’omicidio – in queste Venti giornate? nella tecnica usata per compiere le uccisioni. Che funzione ha l’Uno, che viene là fatto cadere, lanciato sopra i continenti, per ottenere parte del titolo piccolo di questo romanzo? – ma facitore di parole è insieme lo scrittore, che è ciò che lo blocca in quanto piccolo picco d’umano. L’essere un facitore di parole e avere accesso alla lingua è ciò che comporta l’estraneità dello scrittore nel mondo tutto, che è allora la terra redenta, cioè la terra alleviata, perché l’arte di scrivere è solo l’arte di sbirciare da altra parte oltre la sporta pellucida, che noi ancora non possiamo porre mente a tutto foco. L’arte di uccidere dei monumenti nel romanzo di GDM ha qualcosa dell’arte di uccidere dello scimmione di Poe nel suo racconto, arte trovata incastrata per via di ragionamento da Dupin, nella cappa di un camino, nei Delitti della rue Morgue. Così la musica di Šostakovič è musica stalinista, nel senso in cui Šostakovič era spazzacamino stalinista, nonostante Šostakovič fosse ritenuto da Stalin un personale pericolo, e Šostakovič fosse tutt’altro che stalinista, perché un nemico della razza non è un nemico per quello che fa, ma per quello che è – e che cosa era Šostakovič se non un meticcio slavo, nient’altro, che equivale a dire che il meticcio russo Šostakovič, così come un meticcio italiano è nient’altro che un nemico di razza, e quindi non è che Šostakovič fosse proprio quello scimmione sganciato dal guinzaglio tenuto in mano dal suo padrone?

I rumorosi peti emessi dal monumento che prendon di petto in orizzontale il baritono deambulante e gli escrementi umani lanciati dall’alto in basso tanto da rialzare la soglia su fino ai piani alti nell’edificio dove abita il mittente sconosciuto che passa le lettere sotto la porta del protagonista, sono i due elementi, di una parte e dell’altra, che possono funzionare allora pure insieme.

Perché usare passanti tanto incauti quanto occasionali, tutti storditi dall’insonnia, come stecchi di ami e armi usati con calma come da curvi pescatori sorpresi nel Baltico? gli omicidi qui presentati portano a segnalare la necessità di una selezione comunque non più presente nel romanzo. La selezione è il principio che porta alla chiusura di Silling, che porta alla distruzione finale di risorse umane lì recluse – sia chiaro che il finocchietto italiano Pier Paolo Pasolini (giungo adesso a parlare di quel bastardo di italiano), voglio precisare, non aveva capito niente del principio de la selezione: per cui selezione, per quel bastardo italiano (tengo a precisare) appunto era solo il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini, voleva solo dire fare inquadrare uccelloni/uccellacci di mesta lombrosa longa periferia, dove tratto in dado minchia, venendo dalla giungla, la minchia è solo una prolunga, al suo dipendente direttore de la fotografia – ma qui non si parla del finocchietto e meticcio italiano comunista Pier Paolo Pasolini (quel bastardo di italiano, P.S. ribadisco io; che era solo un bastardo di italiano; P.S. e nient’altro che un bastardo di italiano, venuto e sparito al mondo come sparuto coniglio: per cui mi trovo di nuovo a domandare: “che cosa vuole, questo bastardo di italiano, questo bastardo di italiano che era proprio, guarda caso, il bastardo italiano comunista e finocchietto Pier Paolo Pasolini; vale a dire: che cosa vuole questo bastardo di italiano in Europa?”) – È invece importante la risposta: perché bisogna pensare a tornare ad uccidere. Dare forma al mondo è vedere di colpo la vita indegna di vivere come cosa che zampilla di vita letale sempre minacciosa a noi dinnanzi – ma cosa a cui deve essere tolta sempre la vita: la vita indegna di vivere è ciò che deve essere uccisa.

Triste sentire dire ancora che gli italiani avrebbero impestato il mondo con mafia e spaghetti, come ancora si sente dire talvolta all’estero soprattutto, la verità è che gli italiani hanno impestato il mondo con Dante, Boccaccio, d’Annunzio, cioè con l’arte degenerata; se non vi rendete conto di questo non ci posso fare niente, perché non riconoscete la malattia come la cosa con la quale non si deve discutere, ma solo eliminare ad ogni costo; mafia e spaghetti sono cose che non hanno conseguenza né soluzione: Dante, Boccaccio, d’Annunzio sono l’arte degenerata che chiama la razza degenerata, che vede allora il progetto della soppressione della razza degenerata come unica soluzione – e la terra alleviata come unica via d’uscita. È probabile che la razza sia una questione di stile, più che di scienza – ahi, che disgrazia le questioni di stile.

Come si organizza, allora, la faccenda delle Venti giornate di Torino, che è l’inchiesta di fine secolo? Statue, da sempre ignorate nel grigio contesto urbano, come si evince da lo smilzo testo di sor Carlo, sor Musil, che improvvisamente saltan giù dai loro piedistalli, quando ci sta la notte crucca e assassina, e si affrontano usando i passanti sì come semplici comode scomode comiche ruvide lacrime e clave. Segre: «“Il futuro è molto buio… divinità meschine e infami sono emerse dal cuore della roccia… ed esseri in carne e ossa come noi si stanno felicitando per questo mostruoso evento… Mi promette di lasciare la città?”» quello che dice Segre nel penultimo capitolo delle Venti giornate, presenta il quadro tipico degli ultimi racconti di Lovecraft: un qualcosa di non umano che si è risvegliato dalla profondità della terra, e il meticciato lì presente sulla terra che si sente trasportato a fare in modo che esso ritorni a dominare la terra, battendo su tamburi d’Africa, camminando su strade di una città in preda all’insonnia, non vedendo gli omicidi commessi a pochi passi di distanza, manifestando come millenaristi, cosa che comporta l’integrale dissipatio h.g. – anche se GDM non ha la stessa grande visione razziale tipica del solitario grande maestro di Providence; il Maestro della setta dei Trasgressionisti: «“Li guardi sui palchi di legno durante gli anniversari della Liberazione, inetti a riconoscere il nemico se non quando indossa la camicia nera, così come l’hanno incontrato e ‘amato’ per la prima volta!”»; il maestro di Providence: bisogna eliminare il meticciato italo-mongolo-semita deportandolo in luoghi deserti, mentre solo poco tempo dopo lo stesso solitario maestro ha precisato: non basta più deportare il meticciato italo-mongolo-semita in luoghi deserti, bisogna sterminarlo con il gas, come se GDM avesse unito, in un tempo e luogo lungo tutto solo suo, i due passi delle lettere riportate da Houellebecq nel suo saggio sul maestro di Providence – ma il guaio è che, noi moderni, non crediamo più nei mostri, perché non crediamo più alle cose che devono essere sterminate – perché non crediamo più alla Cosa, che è l’unica cosa che può essere incontrata in un colpo d’ala geniale di turbine in un luogo interamente tutto che è sempre stato suo, cioè nella terra come ciò che è sacro, quando la terra è diventata la Terra del Sacro, mentre il romanzo di GDM invita ad un pensiero diverso che ha raggiunto vittime e carnefici, costituendo, in un contesto modo & mondo geometrico, – questo sì – le due parti strette e ristrette – che non ha a che fare con l’altro, mentre per il resto, in serbo stretto attiene a tutti quanti noi: tempi duri, cazzi acidi.

Giorgio De Maria, Le venti giornate di Torino. Inchiesta di fine secolo, postfazione di Giovanni Arduino, Frassinelli, Milano 2017 (poi Neri Pozza, Vicenza 2024)

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