In un capitolo dell’Uomo senza qualità (parte II, 39) Musil ragiona sul rapporto che esiste tra uomo e azione non autentica e osserva che l’azione non autentica è ciò che il mondo ormai esige dall’uomo. Dal punto di vista dell’arte del romanzo, questa constatazione è una delle componenti all’origine del taglio saggistico dell’Uomo senza qualità. I personaggi diventano così delle incognite da affrontare – o con cui confrontarsi. Il romanzo evita quindi la grande trama e le grandi azioni. A diventare segno di pensiero è il rapporto stesso del personaggio col mondo, tanto che il romanzo finisce per mettere sotto accusa il mondo moderno. È quel minimalismo che si trova in Musil quanto in Proust – e anche in Joyce. Il romanzo postmoderno, in tutte le sue variazioni, non si chiede più il perché di questa situazione e ritorna all’azione nitida e grandiosa. Il personaggio non è più il perno di una domanda decentrata verso la parte dell’autore, di un inciampo da affrontare lungo la via dell’arte di comporre un romanzo, ma l’ingranaggio per far muovere quello che torna a essere un componente della trama (fuorviante ricorrere al termine riassuntivo “funzione”). La modernità non viene più messa sotto accusa o guardata con diffidenza, perché viene accettata e ringraziata della sua presenza. Quindi non ci si domanda mai se l’azione lì utilizzata sia autentica o no. Pura ricaduta in un rozzo rispecchiamento della realtà che riproduce una azione inautentica rendendola ciò che non è: autentica. La forma a brevi capitoli usata da Musil, il tono saggistico, è quasi una mirata riproposta della discontinuità aforistica di Nietzsche. Tracce disperse cancellate dal postmoderno con una alzata di spalle.
Eppure, tra tutte le arti, anche l’arte del romanzo è qualcosa di più di quanto si manifesta adesso nel postmoderno e prima del postmoderno nel più semplice realismo. «Insistiamo sull’arte del romanzo perché è all’origine di un malinteso: molti pensano che si possa fare un romanzo con le proprie percezioni e affezioni, con i propri ricordi o archivi, i propri viaggi e fantasmi, i propri figli e genitori, i personaggi interessanti incontrati e soprattutto il personaggio interessante che è sicuramente ciascuno di noi (chi non lo è?); da ultimo le proprie opinioni, a saldare il tutto. Ci si ispira, all’occorrenza, ai grandi autori che non avrebbero fatto altro che raccontare la loro vita, Thomas Wolfe o Miller. Si ottengono generalmente opere composite, dove ci si agita molto alla ricerca di un padre che si trova sempre dentro di sé: è il romanzo del giornalista.» (Deleuze e Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 1996, pp. 174-5).
Il romanzo del giornalista ha il suo culmine nel romanzo che mima il film.
Città della pianura (ed. or. 1998) di Cormac McCarthy può esserne un esempio. I suoi capitoli sembrano scene di un film. Tutto il libro ha molto del film: è una lettura piacevole quanto rilassante, ma sa troppo della visione di un film, che è la cosa più “piacevole e rilassante” possa capitare oggigiorno nel campo dell’arte. Solo immagini, niente simboli.
E proprio i dialoghi sono da considerare. Nel romanzo «Ciò che conta non sono le opinioni dei personaggi secondo i loro tipi sociali e il loro carattere, come nei cattivi romanzi, ma i rapporti di contrappunto in cui esse entrano e i composti di sensazioni che gli stessi personaggi provano o fanno provare nei loro divenire e nelle loro visioni. Il contrappunto non serve a riportare conversazioni reali o fittizie, ma a far emergere la follia di ogni conversazione, di ogni dialogo, anche interiore. Il romanziere deve estrarre tutto questo dalle percezioni, affezioni e opinioni dei suoi “modelli” psicosociali, che passano interamente nei percetti e negli affetti ai quali il personaggio deve essere elevato per vivere solo di questo.» (Deleuze e Guattari, cit., p. 195). In questa direzione va l’analisi della polifonia intravista da Bachtin.
Niente di tutto ciò in McCarthy, dove i dialoghi hanno una struttura cinematografica e andrebbero benissimo in un film. Il fatto che funzionino così bene in un romanzo è la cosa grave. Il personaggio è costruito come quello di un film: non ha spessore; è qualcosa di piatto. È un’immagine proiettata su uno schermo piatto – e niente di più. Quella che ci viene presentata è in fondo una letteratura pragmatica. Il dialogo non precisa il personaggio, ma lo fa vedere. Nessuno di quei dialoghi potrebbe essere riassunto, mancando di un nucleo; ma la scena che si vede è in sé perfetta.
Quello che salva Musil da quella sporcizia che sarà caratteristica del romanzo postmoderno è quel senso della distanza che Nietzsche intravedeva nel senso di razza in quanto mantenersi a distanza dalla sporcizia: «Da parte svizzera sono stato indotto a pensare che i numerosi, quasi sistematici fallimenti delle colonie tedesche o svizzere negli stati attorno a La Plata abbiano origine nel mescolamento delle nazionalità, vale a dire nella vita promiscua di elementi tedeschi e latini. Non si riesce ad avere un sentimento patrio, la sensazione di una casa, se si ha nelle immediate vicinanze la sporcizia italiana ecc.» (F. Nietzsche, Epistolario. Volume V, Adelphi, Milano 2011, lettera 656 del 2/1/1886, p. 136).
Come tutto ciò che è umbratile, il postmoderno cresce sempre all’ombra del set della democrazia e dell’anti-apartheid.
Una concezione pragmatica della letteratura è una letteratura che descrive veri uomini nel loro vero modo di agire, senza nessun contrasto di luce e di ombra. Non solo tutto è chiaro, ma tutto può essere catturato dalla letteratura ed espresso con semplicità. Si ha un reportage, e l’oggettività, in quanto adeguamento al tema, è il modo migliore per giudicarne l’efficacia.
L’Epilogo è la convalida del passaggio dall’arte del romanzo all’arte della visione. Città della pianura è la parte conclusiva di una trilogia che potrebbe ancora essere classificata nella categoria del romanzo di formazione. Ma quello che alla fine si manifesta è piuttosto una contro-formazione. Proprio perché si sforma qualcosa, anziché condurlo a formazione – cioè informarlo di un cambiamento.
Tutto sommato, Cormac McCarthy può essere indicato come qualcosa di poco più di uno scrittore dozzinale. Il risultato di un modo di guardare la vista – e una svista nella scelta. Così il modo di scrivere di McCarthy può essere spiegato attraverso l’inciampo con Musil. Infatti scrivere è un atteggiamento verso il mondo, che impone una divisione. È quello che salva l’arte dagli scrittori. Vale a dire ciò che sfonda l’arte inconsistente dello scrivere. Che è quello che rimane dell’arte degli scaldi. Questo perché ciò che è grande viene dal Nord. Ma quello che è importante adesso è la stessa costruzione iperrealista del cinema applicata al romanzo. Il romanzo inclina al cinema, il lettore sprofonda nello spettatore: vede le immagini e ascolta i dialoghi. Probabilmente qui c’è una tendenza presente in tutta la narrativa moderna. Il romanzo simula il film e il lettore, da arte sua, senza accorgersene, simula lo spettatore.