I gialli non si rileggono mai. È impossibile rileggere Dieci piccoli indiani, che pure, durante la lettura, incatena sino alla fine. La delusione dello scioglimento smonta poi tutto il piacere del meccanismo. L’enigma di Flatey è invece un romanzo giallo che può essere riletto, nonostante il suo scioglimento possa ricordare una delusione.
L’enigma di Flatey (2002; trad. it. Iperborea 2012) di Viktor Arnar Ingólfsson è un romanzo giallo che si svolge principalmente su una piccola isola dell’Islanda, Flatey appunto, con un numero molto ristretto di abitanti. I fatti raccontati risalgono agli anni Sessanta del Ventesimo secolo. Fino a un certo punto, questo è lo stesso principio di Dieci piccoli indiani di Agatha Christie. Chi mai, in una comunità tanto limitata e appartata ha interesse e possibilità per commettere delitti? Mentre nel romanzo di Agatha Christie il meccanismo è l’elemento fondamentale, e il lettore segue soltanto il meccanismo, in Flatey la messa a punto del congegno è accompagnata da una grande attenzione per la resa dell’ambiente e dei personaggi ad essa collegati. In Dieci piccoli indiani le persone lì presenti costituiscono un raggruppamento artificiale, allo scopo di poter avviare la serie dei delitti punitivi, e non costituiscono una comunità preesistente, a differenza di quanto avviene in Flatey.
Il tentativo di scoprire l’autore dei crimini porta così in Flatey al ricorso della Storia. È infatti nella Storia che si cerca la spiegazione del fatto aberrante accaduto. Ma nella modernità la Storia non può spiegare niente. Ciò che alla fine viene fuori è che non c’è mai stata una reale volontà di assassinare le persone trovate morte per un qualche motivo. Solo una falla della mente ha prodotto, senza intenzione, un fatto irrimediabile, così come poi una botola fallata ha prodotto, sempre casualmente, la seconda morte.
Quindi il ricorso alla Storia è, nella modernità, del tutto inutile. Risolve la vicenda ma in modo non conforme, vanificando ciò che ne aveva richiesto l’intervento e in nessuno dei due casi è mai avvenuto un vero omicidio intenzionale. Analogamente, la risoluzione dell’enigma di Flatey 2, gli indovinelli, a differenza di quanto riguarda l’enigma 1, le due morti, non verrà resa nota, per non legarla alla memoria di quei fatti tanto miserevoli. Un’altra occasione permetterà senz’altro in futuro la risoluzione degli indovinelli, e questa volta i fatti ad essa legata saranno gioiosi. È il tema del ritorno del mito, e la Storia viene di nuovo legata al mito, cosicché anche la Storia può avere il suo ritorno.
La narrazione di Flatey si svolge su due piani: un piano orizzontale, che procede dal ritrovamento casuale della prima vittima sull’isolotto deserto fino allo scioglimento della vicenda; un piano verticale che invece scende in profondità, a partire dal Libro di Flatey. Che è visto come la chiave indiretta del mistero.
Come nazione gli Islandesi si identificano nel corpo delle saghe, che costituisce la Storia. L’Islanda non ha monumenti o città di grande rilievo risalenti da un qualche passato. Ciò che del passato è rimasto è l’insieme degli scritti storici. Ma questo è ciò che costituisce la vera natura della civiltà indoeuropea, cioè la possibilità della sua Storia, che nella “grande città” non ha mai avuto la propria vera natura. La “grande città”, con i suoi monumenti, la sua vita, i suoi flussi di passaggi periodici, è tipica di una civiltà straniera. La Storia è quindi ciò che deve essere recuperata dalla modernità.
L’alternanza dei due piani è il dialogo tra Jóhanna e Kjartan nella piccola biblioteca del villaggio, che si intreccia continuamente col piano orizzontale del resoconto delle vicende. Quando finisce uno, finisce anche l’altro. Tuttavia il dialogo tra Jóhanna e Kjartan inizia prima che esso inizi a svolgersi realmente (gli interventi compaiono a partire dalla fine del primo capitolo, mentre secondo la sequenza dei fatti riportati dalla narrazione, il dialogo comincia a svolgersi a partire dal quinto capitolo). L’individuo è sempre oltrepassato dalla Storia di cui fa parte, almeno nel caso in cui individuo e Storia siano realmente parte di un insieme. Alla fine del libro, Þormóður consiglia Kjartan di frequentare Jóhanna, puntando all’idea di arrivare a sposarla; saltando così l’intreccio, è possibile sfociare nella continuazione degli individui attraverso la Storia. Þormóður a Kjartan: «“Lei sarà una persona felice, amico mio”, disse infine Þormóður il Corvo. “La vita è stata difficile per lei, ma adesso è tutto alle sue spalle. Stanotte ho sognato che mi avvicinavo a un nido con delle belle uova, e questo ha sempre significato il matrimonio di qualcuno che mi è vicino. Lei deve prendere con sé la mia Jóhanna, le porterà buona sorte, amico mio.”» (p. 192). I sogni sono sempre stati la passione di Þormóður e costituiranno anche la sua rovina. Ma è infatti l’intrecciarsi dei due piani che porta avanti la Storia conciliando l’uomo con i miti della sua razza, come in loro ha compreso Þormóður, dotato di “seconda vista”.
Alla narrazione orizzontale della vicenda si diparte poi, con regolarità, una traiettoria in senso antiorario in direzione sud, che dal Breiðafjörður, dove si trova Flatey, porta a Reykjavík, per seguire le vicende del sonnacchioso detective Dagbjartur, chiamato a indagare sul soggiorno nella capitale della persona trovata morta nell’isolotto vicino a Flatey. Ma è un movimento ben diverso da quello rappresentato dalla linea verticale dei dialoghi tra Jóhanna e Kjartan. È appunto un movimento “sonnacchioso” che precisa dei dati, contribuisce a mischiarli fra loro (comportando poi l’erronea formulazione dell’accusa di omicidio verso Kjartan e Jóhanna). È un movimento che determina una storiografia.
Diversi personaggi di Flatey, in certi momenti in cui sono chiamati a narrare qualcosa, o per l’indagine in corso o semplicemente per soddisfare qualche curiosità, fanno una distinzione tra “storia lunga” e “storia breve”. La storia lunga è la saga, la storia breve è il þáttr. Il sostantivo islandese saga, “storia”, è collegato al verbo islandese segja, “dire”. La Storia è quindi una narrazione di fatti che vengono “detti”. Il þáttr è il singolo filo di una corda, il ramo che si diparte dal tronco principale di una narrazione, dando vita a una “storia breve”. Sögur e þættir costituiscono l’insieme del dire intorno al proprio essere nel procedere come gruppo omogeneo lungo la Storia. Cioè nel dire ciò che costituisce la particolarità del proprio essere. Interrogarsi sull’enigma di Flatey, nel momento in cui esso sembra avere a che fare con il ritrovamento del cadavere a Ketilsey, è compiere così il viaggio lungo la propria Storia; ma che poi conduce, inaspettatamente, al nulla. Il nulla della storia è ciò che compare con la sconcertante risoluzione dell’enigma e del caso. Questo perché ciò che è Storia è, nella modernità, qualcosa che si va spogliando della propria peculiarità, ma al contempo qualcosa che può aprire al ritorno della Storia – che diventa così ritorno del mito in lontananza.
Come già detto, i personaggi sono pochi, semplici abitanti, ma alcuni di loro si trovano lì per la prima volta (come Kjartan, il rappresentante del prefetto che deve indagare sul ritrovamento del cadavere, e poi il giornalista Bryngeir, mandato lì da Reykjavík dopo che il caso sembra prendere una certa risonanza). Eppure tra di loro ci sono dei rapporti e tensioni che a poco a poco si svelano. È infatti questo piccolo gruppo a rappresentare una “difformità” all’interno del corso regolare della Storia. Quindi anche quelle persone, come in Dieci piccoli indiani, sembrano essere stati raggruppati lì per uno scopo preciso, salvo che ciò che qui provoca la convocazione sembra essere proprio la Storia in quanto superamento di una deviazione e ritorno graduale al proprio alveo.
La “deviazione” dal ritmo della Storia è rappresentata dalla parodia che alcuni personaggi fanno della Storia. L’associazione goliardica degli “Amici (o Compagnia) dei Vichinghi di Jómsborg” ne è un esempio. Jóhanna spiega al poliziotto Þórólfur che la sta interrogando: «“Era una specie di ridicola società segreta per giovani snob. I nuovi membri venivano presentati al circolo con uno stupido rituale.” […] “L’iniziazione consisteva nell’inscenare l’esecuzione dei Vichinghi di Jómsborg dopo la battaglia contro Hákon di Lade. I ragazzi ripetevano i dialoghi tra i vichinghi catturati e i soldati dello jarl, come in una recita. Il novizio doveva poi chinarsi sotto una spada che veniva calata, ma avrebbe ritratto la testa all’ultimo momento, proprio come Sveinn Búason nella saga. Era una messinscena del tutto innocente, anche se la spada era affilata e pesante.”» (p. 158). Un giorno succede un incidente e un giovane candidato muore colpito dalla spada. I giovani erano tutti un po’ ubriachi, ma l’incidente era in realtà stato pianificato da uno di loro per uno scopo preciso e malvagio. Il giovane morto era Einar, che amava Jóhanna e di cui Jóhanna era innamorata; a reggere la spada era Kjartan; e a ordire il tranello, in modo da far morire Einar sotto la spada, era stato Bryngeir, il futuro giornalista, allora innamorato di Jóhanna, al fine di togliere di mezzo il rivale fortunato. Kjartan, Jóhanna e Bryngeir si ritrovano adesso a Flatey, a rifare i conti con quella vicenda, come i convenuti sull’isola nei Dieci piccoli indiani. In Dieci piccoli indiani a convocare sull’isola è il giudice. In Flatey è la Storia, o il meccanismo della vicenda; il meccanismo della storia narrata, cioè il congegno su cui il romanzo è costruito. Questo introduce il sospetto di una certa macchinosità nella vicenda, che si avverte a mano a mano che si procede nella lettura, ma che tuttavia rende in pieno il vuoto che lo scioglimento alla fine svela.
Così ci si potrebbe chiedere: è accettabile che un noto studioso di letteratura medievale islandese scriva il nome “Egill” con una sola “l”, come avviene a Gaston Lund nel momento della registrazione all’hotel Borg di Reykjavík? In realtà lo stratagemma serve per dare la possibilità al receptionist dell’albergo di ricordarsi di lui. Gaston Lund parlava l’islandese moderno in modo approssimativo. La forma “Egil” (con una sola “l”) esiste in Scandinavia, ma può essere usata impunemente da chi ha bene in mente Egill Skallagrímsson? Dall’altro lato il receptionist, una volta appurata la scarsa padronanza dell’islandese moderno da parte dell’ospite, non avrebbe dovuto stupirsi più di tanto della grafia. O semplicemente Gaston Lund si era sbagliato anticipando così, attraverso il ricorso dell’accusativo, il proprio diventare oggetto, tanto in una frase del tipo “Gaston Lund [la “G” maiuscola e la “a” minuscola vengono infatti scritti sul registro e poi cancellati con un tratto di penna] fa entrare Egill”, quanto il ritrovamento del proprio corpo nella posizione, ormai, di puro oggetto privo di vita?
Il nome Gaston Lund rimanda a qualcosa come “ospite del boschetto (sacro)”. La radice gast rimanda all’antico islandese gestr, ospite; Lund all’antico islandese lundr, boschetto. Il boschetto è in questo caso l’Islanda, vero e proprio tesoro per lo studioso di filologia germanica. Ma questo rimanda al comportamento dell’ospite in quello spazio tanto sacro quanto ristretto; poiché, lì, Gaston Lund è appunto l’ospite. E solo il comportamento dell’ospite comporta il ripristino, o meno, della sacralità del luogo, che è ciò che chiama l’Ospite nel momento in cui gli abitanti hanno smarrito la strada verso casa, cioè la strada verso la terra del sacro. E in questo caso il comportamento di Gaston Lund in quanto ospite non è stato del tutto ineccepibile, avendo egli portato scompiglio. Nello stesso tempo Gaston Lund si oppone al ritorno dei manoscritti medioevali in Islanda, sostenendo la tesi che a Copenaghen, dove tali manoscritti erano attualmente collocati e custoditi, dopo essere stati sottratti dal luogo che ne aveva giustificato la nascita, godevano di una cura più appropriata: egli è così il sostenitore di una teoria artificiosa e accademica, che si oppone al concetto di cultura come bene inalienabile di un popolo che legittimamente abita quella terra. In Flatey diversi ospiti fanno riferimento allo stesso luogo. Ciò che la storia propone è quindi una selezione tra i personaggi che la storia collega a quel luogo. Questo è ciò che si oppone a ciò che avviene nella Nigger Island, dove tutti gli “ospiti” sono regolarmente accettati, per essere poi, altrettanto regolarmente, eliminati. Ciò che fa la differenza tra i due testi, Flatey e Dieci piccoli indiani, è la presenza o assenza di una selezione.
Così, una certa macchinosità è anche nel fatto che Bryngeir sia il figlio di Gaston Lund avuto con una donna islandese, e da lui mai riconosciuto.
La risoluzione dei due delitti avvenuti a Flatey comporta l’immersione nella Storia, perché solo la Storia sembra contenere la chiave di tutti quegli enigmi. Ma come si è detto, ciò che la risoluzione dell’enigma comporta è invece qualcosa che vanifica il percorso lungo la Storia.
Ma questo chiama ciò che di estraneo abita adesso la casa, rendendo estranea la familiarità della casa stessa. Così la demenza senile abita Jón Ferdinand, rendendo non familiari i suoi movimenti in quell’ambito di terra familiare, che è ciò che risulta fatale a colui che, pur non essendo di casa, condivide la casa in quanto storia dell’appartenenza al dire della razza (cioè l’ospite, nella forma dell’illustre professore danese Gaston Lund), a cui Jón Ferdinand aveva dato un passaggio sulla sua barca, passaggio rivelatosi poi fatale. Grímur a Kjartan: «“Allora mi sembra piuttosto chiaro. Il professor Lund si è trattenuto troppo a lungo in casa della dottoressa e ha perso di vista l’orario. Credeva di avere il tempo di tornare in biblioteca, ma quando poi è sceso al molo, la nave postale era già salpata. Probabilmente l’ha vista che era già al largo. Ora, lui aveva una gran fretta di arrivare a Stykkishólmur, e da lì a Reykjavík, per poter prendere l’aereo per Copenaghen. Al molo c’erano il vecchio Jón Ferdinand e il ragazzino, con la barca, e Lund è riuscito a fargli capire che gli serviva un passaggio fino a Stykkishólmur. Deve aver insistito parecchio, perché il vecchio ha finito per accontentarlo. Io credo però che fossero passati molti anni dall’ultima volta che Jón Ferdinand era andato in barca fino a Stykkishólmur, che avesse dimenticato la rotta e che si sia invece diretto a Ketilsey, seguendo il tragitto che era più abituato a percorrere. Lund non ha notato niente di strano, perché Ketilsey si trova a sudest, e uno straniero potrebbe facilmente scambiarla per la giusta rotta per Stykkishólmur. In prossimità di Ketilsey sono rimasti a secco di carburante, così sono arrivati a riva remando. Lund sarà sceso a terra a cercare delle abitazioni e chiedere aiuto, mentre Jón Ferdinand lo aspettava alla barca. Ma dopo un po’ Jón Ferdinand si è completamente dimenticato di avere con sé un passeggero. Sapeva solo che era rimasto senza carburante a Ketilsey, e che doveva tornare a casa. Poi si è alzato il vento da sud e non c’era tempo da perdere: quello era il momento propizio. Ha dispiegato la vela ed è ripartito alla volta di Flatey. E così Lund è rimasto sull’isola, e sappiamo com’è andata a finire.” Kjartan annuì senza parlare. Anche lui si era immaginato che fosse andata così» (p. 187). E la stessa cosa stava per ripetersi nei confronti del figlio Valdi. «Poi [Grímur] proseguì verso Ketilsey a mezza forza. Videro Valdi ben prima di raggiungere l’isola. Stava sul punto più alto e sventolava il maglione. Poi scese di corsa all’approdo. Piangeva dalla rabbia. “Che diamine fai, papà? Mi abbandoni qui?” gridò non appena furono a portata d’orecchio. “Valdi caro, calmati. Tuo padre non sa risponderti”, disse Grímur lasciando scivolare la barca verso l’approdo.» (pp. 187-8).
Poco prima, Grímur aveva infatti ricevuto da Þormóður la risoluzione del secondo omicidio: Þormóður trova Bryngeir annegato nel suo pozzo, dopo che questi aveva accidentalmente sfondato la botola del pozzo. «“All’inizio ho pensato di chiamarti, Grímur caro, ma poi mi sono ricordato di quello che mi aveva detto lui: ‘Se mai dovesse uccidere un uomo o imbattersi in uno che è già morto, lo porti su al cimitero, lo depositi su una tomba e gli intagli un’aquila di sangue sulla schiena.’ Era il suo ultimo desiderio, e non potevo tirarmi indietro. L’aveva detto in tutta serietà, e non ho osato disobbedire. Poteva saltargli in testa di tornare dall’aldilà e infestare la stalla, e poi c’era di mezzo il Libro di Flatey. Sono andato a prendere il mio coltello da macellaio e ho trascinato l’uomo fino al cimitero con il carretto. L’ho deposto su una tomba, secondo le istruzioni, e gli ho squartato la schiena. Poi ho infilato le mani dentro e ho tirato fuori i polmoni. È uscita una fiumana di sangue. L’ho lasciato là e sono andato a casa a dormire. Non mi aveva detto quanto tempo doveva restare là perché la profezia si avverasse.”» (p. 179).
I due casi avvengono così per motivi del tutto estranei alla Storia, anzi ne suonano come una presa in giro: demenza senile e ignoranza. A risolverli non è nemmeno Kjartan, la persona che per ruolo avrebbe dovuto farlo, essendo stato inviato lì in quanto rappresentante del prefetto del Patreksfjörður, ma Grímur, cioè un abitante dell’isola. I poliziotti sbagliano incolpando Kjartan e Jóhanna dei due delitti e preparandosi ad accusarli formalmente. Prendono il classico granchio scegliendo la via più semplice e svolgendo la funzione di “scemo del villaggio” ricordata da Umberto Eco a proposito del romanzi gialli, dove il detective, di professione o improvvisato tale, batte sempre in acume il poliziotto ufficiale. Ma qui Kjartan non ha un ruolo del genere, poiché il suo ruolo fondamentale è quello svolto nel dialogo con Jóhanna, che riallaccia la Storia. Il fatto che Kjartan convalidi la risoluzione del caso esposta da Grímur («Sì, anch’io avevo pensato fosse andata così») rafforza la non importanza del detective. Il fatto si spiega da sé, senza l’intervento dall’esterno. Il dire come saga non può mai essere la scoperta di un individuo, bensì il dire della Storia che mette in fila i diversi individui, rivelando quindi, attraverso di loro, i diversi nodi del suo passaggio. È quindi sintomatico il motivo per cui viene qui attenuata la figura del detective. Il fatto che Umberto Eco si rifaccia all’espressione “scemo del villaggio” per caratterizzare il modo d’essere del poliziotto di professione nel momento in cui il poliziotto viene sonoramente sbertucciato dal detective, richiama uno stare insieme come presa in giro istituzionalizzata all’interno di una comunità (meglio ancora: pseudo-comunità), che mette in gioco lo sberleffo di una parte di individui di questa pseudo-comunità ai danni di un’altra parte di individui della pseudo-comunità, essendo gli Italiani, a differenza degli Islandesi, un popolo che non si fonda sul dire della razza, che è il dire in quanto dire della Storia.
Nigger Island è il nome dell’isoletta dove si svolge la vicenda raccontata in Dieci piccoli indiani. Il nome è dovuto alla forma, che ricordava il profilo di una testa negroide. Su Nigger Island non può esserci Storia. Nella sua artificiosità, Nigger Island può essere solo la piattaforma di un congegno, abile quanto si vuole, ma che non porta a nessuna riflessione; contrariamente a L’enigma di Flatey, che invece mostra lo svolgimento di una possibilità nel recupero della propria Storia in quanto Storia della razza.
NOTA 1 Il romanzo giallo vive tutto su di un paradosso, quello di svelare il mistero che ne costituisce la natura. Di qui la sua inconsistenza congenita, cioè il suo essere puro congegno. Vale a dire: impoverimento della letteratura. La letteratura non è qualcosa chiamata a svelare qualcosa, bensì qualcosa che deve formarsi a partire dalla identificazione di un qualcosa che ha le caratteristiche fondanti nel mistero – e quindi qualcosa che deve impostare la propria natura come trasferimento e preservazione di quel mistero, al fine di alimentarne gli ulteriori possibili approfondimenti; che però non avranno mai, come risultato, il suo finale disvelamento.
L’enigma di Flatey si presenta come il differimento di un mistero e non come il suo definitivo svelamento. Lo svelamento è soltanto apparente, poiché la soluzione mette da parte ciò che nel romanzo è invece fondamentale.
NOTA 2 Che cosa è che viene estratto dal corpo, tramite l’estrazione dei polmoni? È innegabile che i polmoni appartengano al corpo, ma l’estrazione dei polmoni permette di rendere percepibile una nuova immagine del corpo, che ormai costituisce tutt’uno con quel corpo dilaniato. Nuova immagine che, per la tarda civiltà nordica, era “l’aquila di sangue” – perché tale civiltà aveva istituito un legame con l’aquila, come si evince dal nome proprio Örn, ma che, per i bambini dell’Islanda anni Sessanta, era un “angelo” – che nulla ha a che vedere con la civiltà nordica. Ciò che la delirante replicazione della vecchia (e non troppo fondata) pratica mette in luce, è ciò che non appartiene alla integrità di un insieme che fino ad allora compariva omogeneo.
Riferimento Umberto Eco: L’agnizione: appunti per una tipologia del riconoscimento, in id. Il superuomo di massa, Bompiani, Milano 2005, p. 24. «La figura perfetta dello scemo del villaggio, criticamente assunta dall’autore, la si ha nel romanzo poliziesco ed è costituita dal poliziotto ufficiale in quanto opposto al detective (la cui conoscenza procede di pari passo con quella del lettore).»