1. La trilogia
La trilogia di Rachel Cusk (Resoconto, Transiti, Onori) si pone come la successione di:
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un romanzo basato sull’Ascolto, cioè un romanzo basato su un resoconto di ascolti;
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un romanzo basato su un transito di personaggi, cioè un romanzo basato su un passaggio di personaggi;
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un romanzo basato sulla presentazione di personaggi caratterizzati da un Eccesso, che li espone solo come personaggi straordinari, meritevoli pertanto di onori; vale a dire un romanzo basato su un insieme, che è {L’eccesso}, per cui l’ultimo romanzo apre a un insieme diverso, che le parentesi graffe suggeriscono richiamando ciò che è l’insieme;
cioè una successione che pone in risalto la posizione defilata della narratrice, che si basa solo in quanto colei che ascolta e che riferisce con garbo quanto ascoltato in certe circostanze, traendo poi delle conclusioni.
1. Resoconto
La trilogia dell’ascolto si precisa come una trilogia di ascolto di chiacchiere, che è quanto avviene ponendo la protagonista con il nome “Faye” (e poi bisognerà vedere i 3 modi in cui viene pronunciato il nome.) Il linguaggio non serve più per una finalità al di fuori di questo linguaggio, come nel caso di cambiare il mondo, ma per la produzione incessante di chiacchiere, che non hanno altro fine se non quello di essere scambiate in quanto quello che sono: chiacchiere che chiamano altre chiacchiere. Il nucleo di questa produzione di chiacchiere è qui evidenziata nell’industria letteraria. In una rete di chiacchiere i personaggi vivono la loro evanescente vita reale di “persone che vivono scrivendo”, cioè che si guadagnano la vita grazie all’industria letteraria, ma che poi hanno a che fare, con ciò che riguarda chiunque altro, che pure non vive scrivendo, cioè basando la propria vita sullo scrivere: matrimoni, divorzi, traslochi, figli – il tutto capitato sempre tra capo e collo all’improvviso.
Chiacchiera chiama chiacchiera; umani fatti di chiacchiera escono dalla chiacchiera per tornare nella chiacchiera. Il tipo antropologico che chiacchiera: benestante, che ama il confine tra ozio ed un lavoro sicuro, non si affanna più di tanto, non ha grandi ambizioni, mira solo a mantenere il proprio sistema di chiacchiere che gli garantisce quel sistema di vita. È sempre molto curata l’apparenza: al ristorante si è sempre attenti a cosa si consuma, anche in quanto a bevande (ricordare la preferenza di Ryan per le birre analcoliche, in 2, mentre è al bar con la scrittrice). La vita è solo esperienza di chiacchiera in un sistema di comparizioni.
Rachel Cusk si potrebbe definire una versione di Cioran senza la sgradevole patina pessimista, che era già stata del meticcio italiano Leopardi (ve lo ricordate, quel rompiballe in quel di Recanati?), per cui è più che giusto chiederci: che bisogno c’era del meticcio italiano Giacomo Leopardi, con i suoi graziosi mucchietti mormoranti di parole, tanto fastidiosi, tanto insistenti, visto che ci era già capitato la disavventura di avere quel garbato raccattapalle che era Emil Cioran?
2. Transiti
Il transito è l’incontro con le persone, che permette poi di riportare le chiacchiere e le storie che sono alla base di quelle persone o false persone – in realtà non c’è la rappresentazione di tipi umani. RC rappresenta la modernità, non scrive in base a un’ottica personale che impone di includere ma di escludere molte cose da ciò che costituisce la realtà (come ad esempio faceva Lovecraft secondo il saggio di Houellebecq). Il lavoro di chi scrive non consiste nello spiegare, cioè nel rendere più chiaro qualcosa, ma nel mostrare il collegamento di ogni parola con tutte le parole del mondo, cosa che si può fare solo sfuggendo alla possibilità di un tale collegamento – che è allora ciò che il testo composto presenta, per cui la letteratura è pubblico artificio, cioè fuoco d’artificio. La questione della letteratura non è trovare soluzioni, ma cercare l’enigma.
I romanzi di RC rappresentano l’inutilità della modernità, che tutto vuole fuorché l’incontro con l’enigma: nel momento in cui questi romanzi rappresentano il cambio di casa affrontato dai personaggi, ma non pensano ciò che comporta abitare la terra; rappresentano le difficoltà di allevare figli, ma non pensano ciò che è ciò che viene chiamato ad abitare la terra.
L’epifania finale che pone fine al testo, come nell’episodio al salone di bellezza, non è una epifania nel senso indicato da Joyce, ma un qualcosa per concludere in eleganza un momento qualunque di una persona là qualunque. Modernità in quanto non epoca che è senza storia, ma come momento senza capacità di inventare allora la storia. Storia e narrazione sono pietose menzogne per cui bisogna inventare una narrazione così come si inventa la storia, cioè senza pensare di basarsi su nozioni comuni. Funzione consolante dei romanzi di RC: abbiamo a che fare con le tante cose del mondo, pur non incontrando mai la Cosa. L’epoca moderna ha disgiunto il fare dal pensare la cosa da fare, per cui fa di tutto per avere a che fare con più cose, senza incontrare mai la Cosa. La narrazione di RC è una narrazione che traccia la modernità come epoca che può essere narrata a partire dal fatto che Dio è morto, ma mettendo in un canto l’epoca moderna come epoca che deve pensare se stessa a partire dal pensiero che “Dio è morto” – cioè a partire da ciò che non è stato ancora pensato, come, tra l’altro, dimostrano i suoi più che miseri brandelli di testi. Ciò che resta è la modernità come spoglia ipnotica. RC organizza un nominalismo ipnotico come base della modernità. Tra i personaggi non c’è nessuna interazione (considerare, a questo proposito, la Cena delle Lacrime che conclude Transiti). Faye ha sempre un aspetto ieratico e un tantino assente, ferma in una iconostasi che dovrebbe segnare l’ambito di due spazi, ma non segna niente, perché è un niente tra altre cose che sono puramente niente. La narrativa di RC è deprimente perché non vede un futuro diverso, ma si basa su quello che la realtà offre in quel momento, è una letteratura che tramanda quello che le madri hanno sempre sussurrato ai figli: “è sempre stato così, e non sperare di più”.
Notare i tre momenti in cui, in tutta la campata, viene precisato il nome della protagonista. Questo nome viene pronunciato tre volte in tutta la trilogia, sempre una volta sola a volume: la prima volta quando l’impiegata della banca la chiama per comunicarle che la banca non le concede il prestito richiesto (Faye stava tenendo una lezione di scrittura creativa); la seconda volta quando l’amico di un amico, con il quale è stata a cena, la prende per un braccio; la terza volta quando il figlio più giovane la chiama perché non si orizzonta nella città e teme di essersi perso andando a scuola (Faye stava tenendo un’altra lezione di scrittura creativa, e un partecipante si lamenta per il tempo perduto). Le tre chiamate suggeriscono un insieme che invece non c’è, se non in quanto {insieme che non c’è}, scadendo a livello di organizzazione di messaggio generalisticamente pubblicitario, per cui è curioso come certi atteggiamenti da post femminismo si ritrovino nella figura che, una volta, erano tipici solo della vecchia zitella acida.
3. Onori
Il terzo volume della trilogia presenta il ritorno dei personaggi e delle situazioni precedenti, come nella festa che chiude La signora Dalloway di Virginia Woolf. Ma qui il confronto si conferma nell’eccesso (Aarne-Thompson, motivo F601 sgg.) Tutti i personaggi coinvolti in questo romanzo hanno a che fare con un eccesso che costituisce il loro tratto di onore, cioè con ciò che li rende straordinari. Questa tecnica dell’eccesso, che in alcuni casi diventa dominio da parte di una monomania, come nel caso del giovane che fa da guida alla comitiva lungo la città, e che può ricordare un personaggio di Thomas Bernhard (soprattutto Perturbamento).
Scrivere un romanzo è adesso mettersi a fare quello che deve sfuggire al modo di fare dell’industria letteraria, cioè fare qualcosa in un modo del tutto nascosto, al fine di preservare quello che rischia di scomparire. L’industria letteraria vive sempre di più attraverso l’esibizione del proprio stato, che prevede l’esibizione di ciò che – in base al proprio genere – è chiamato a scrivere, ponendo incontri con il pubblico a superare proprio quello che è ciò che è l’opera. Così la questione è proprio l’opera, che è questione solo in quanto ciò che deve essere superato, perché il tema è l’inutilità della letteratura come professione.
Questa trilogia presenta un viaggio nel linguaggio come tuffo nella narrazione, dalla narrazione in cui Faye prende il volo per andare in Grecia, nel cui mare, color del vino, più volte si tuffa, al momento in cui lo stesso personaggio si ritrova a considerare la letteratura come qualcosa di morto proprio a causa della sua vivace vitalità: la letteratura muore come pratica di qualcosa di diverso, insediandosi come pratica qualunque per sbarcare il lunario tra divorzi e figli da parte di persone qualunque, cioè di persone che nulla hanno a che fare con ciò che pone di fronte la letteratura.
Perché la letteratura è qualcosa che rischia di scomparire? perché non accetta di trattare quello che invece è da affrontare, cioè la Cosa che, in quanto cosa del mondo dovrebbe proporsi come la cosa in grado di liquidare la modernità come giostra di cose che compaiono e scompaiono in un gioco. Qual è il tema che la letteratura deve affrontare e che non può essere affrontato pubblicamente, in interviste e dibattiti pubblici? La notte della letteratura porta all’antiumanesimo, che è ancora tutto da esplorare, prima che da praticare.
Differenza tra letteratura basata sulla riproduzione di dati della realtà (un ambiente, un tipo psicologico, in base al principio di realtà) e progetto letterario basato su un modello appena possibile (in base al senso della possibilità di Musil). Ogni romanzo ricrea la storia del romanzo – oppure si sforza di cancellare questa storia.
Nel caso di Ishmael e Faye bisogna avere chiaro che il personaggio che rintracciamo in alcuni testi letterari è solo il risultato di una nostra abitudine di leggere in un certo acquisito modo, mai posto in discussione, indipendentemente da ciò che il testo dice a proposito del personaggio.
2. La Nuova Composizione Letteraria
Byung-chul Han (La crisi della narrazione, Einaudi 2024) tratta di un diverso significato che la parola “narrazione” prenderebbe nell’epoca moderna rispetto a quanto era sempre avvenuto in passato: narrazione non sarebbe più ciò che lega ad un passato, bensì ciò che costituisce il riferimento puntuale ad una informazione nel presente, valevole solo in quanto ciò che ha valore di segno puntuale. Questo sarebbe ciò che porta verso il puro dato di informazione, che traccia l’informazione spoglia, che non può essere più narrata, ma soltanto indicata. L’epoca moderna sarebbe il momento di passaggio da una narrazione legata al passato ad una informazione puntuale. BcH si collega al saggio di Walter Benjamin Il narratore: ciò che collega al passato non è la narrazione, bensì la storia, che non ha nulla a che fare con la storiografia, che è la differenza che passa, in Essere e tempo, tra il vocabolo della lingua tedesca Geschichte, scelto da Heidegger per indicare la storia autentica, e il vocabolo della lingua tedesca Historie, scelto da Heidegger per indicare la storia non autentica, reso in italiano con la differenza tra storia e storiografia – per quanto tutto questo BcH non lo indichi.
La letteratura tratta, in questa fioca trilogia di Rachel Cusk, di tutto ciò che non è letteratura, facendo della persona che, lì, è chiamata a impersonare il ruolo di ciò che, in un tempo appena precedente, costituiva la parte di ciò che costituisce, ora, la letteratura, un nulla in rapporto alla letteratura, paragonabile a ciò che riguarda qualunque altra persona, abbia essa a che fare con un lavoro qualunque o no, che la espone a ciò che ha a che fare con gli elementi fondamentali che riguardavano tutte le persone che non hanno nulla a che fare con la letteratura, e che prima mai esse avrebbero voluto avere a che fare: divorzio, figli, lavoro, e il modo di legare tutto questo; ma aprendo però alla domanda fondamentale, che riguarda ciò che invece entra in contatto con la letteratura: “di che cosa deve, adesso, occuparsi la letteratura?”, questo ammettendo che la letteratura esista solo come accettazione di una domanda, e non come soddisfazione di un bisogno di genere, in quanto, cioè, letteratura di genere. Se, infatti, la trilogia fioca di RC dimostra che il lavoro di ciò che occupa il lavoro nel settore è ciò con cui ha a che fare qualunque persona, indipendentemente dal genere, indipendentemente dal lavoro che la impegna, tuttavia la trilogia di RC ha un esito diverso. La trilogia di RC richiama a questa sola domanda, presentando, nel suo incanto ipnotico di domanda che mai viene posta, ed eludendo in modo svagato ogni possibile risposta; vale a dire: che cosa è ciò che la letteratura deve cominciare a porre in quanto domanda fondamentale?
Letteratura non è avere a che fare con ciò che si conosce – in rispetto al principio di realtà, che quindi pone la letteratura in quanto resoconto di ciò che esiste in quanto ambiente e tipi conformi a quell’ambiente, ma ad essere aperti a ciò che non si conosce, in quanto di là a venire, che è ciò che apre al principio di possibilità in contrasto al principio di realtà – in contrasto a ciò che è solamente reale, impulso a scrivere è allora il richiamo verso tutte le parole del mondo che è ciò che prova solo chi è stato lasciato solo fra tutte le parole del mondo – che è ciò che chiama il nuovo nome nel campo dello scrivere.
Perché si pone così tanta attenzione a nascondere ciò che l’attività di persona addetta alla letteratura dovrebbe invece rivelare immediatamente (che è il compito affidato al personaggio di Faye)? O perché tale personaggio non ha nulla da dire, ed è quindi un bluff; o perché sa che quello che dovrebbe dire lo esporrebbe ad una messa all’indice immediato. L’alternativa richiama ciò che riguarda il principio di realtà e il principio di possibilità. Perché questa esibizione del bluff, non con l’intento di smascherare il bluff, bensì di fornire al bluff nuova vita?
La domanda sulla narrazione è ciò che adesso contrappone intrattenimento a domanda. Infatti autore non è chi crea, bensì chi – non creando – permette la nuova creazione, ponendo appunto la domanda sulla narrazione. La domanda riguarda la domanda stessa: “Siamo pronti alla domanda che si prepara, nella letteratura, che riguarderà allora ciò che sarà la nuova letteratura?”, che impone un passaggio di campo. La cellula tumorale vuole vivere nello stesso modo in cui vuole vivere la cellula non tumorale; a chi vede la differenza tra cellula tumorale e cellula non tumorale spetta la decisione su ciò che ha diritto di vivere e ciò che deve essere eliminato, questa frase capricciosa di Georges Canguilhem (Il caso e la necessità) mi è rimasta sempre in mente perché è ciò che determina colui che guarda.
Così l’unico modo in cui la questione genitori e figli può essere affrontata all’interno di una composizione letteraria è quella mostrata da Antonin Artaud, in quanto ciò che risiede nel simbolo, per cui, artaudianamente, la questione si pone come il porsi di ciò che è stato generato solo in quanto genitore di se stesso, che resta così sempre l’autore come ciò che si pone come increato perché mai nato – che è ciò che determina lo scrittore come ciò che è stato lasciato solo fra tutte le parole del mondo, che è quello che la Nuova Composizione Letteraria deve finalmente cominciare a mostrare e che mai la pseudo letteratura di RC potrà mai solo lontanamente avvertire. Lo sguardo sulla vita, che così esce, è uno sguardo ben diverso da ciò che si evince dai romanzi di RC, perché è lo sguardo che torna a chiamare il principio della selezione.
3. Via (Uno)
«Quando il ricco toglie un possesso al povero (per esempio un principe l’amata al plebeo), nel povero nasce un errore; egli crede che l’altro debba essere del tutto scellerato, per togliergli il poco che ha. Ma quello non sente affatto così profondamente il valore di un singolo possesso, perché è abituato ad averne molti: quindi non può mettersi nei panni del povero, e commette un’ingiustizia di gran lunga minore di quanto costui creda. Entrambi hanno dell’altro un’idea sbagliata. Il torto del potente, che massimamente indigna nella storia, è molto meno grande di quel che sembra. Già il sentimento ereditario di risultare un essere superiore con diritti superiori rende piuttosto freddi e lascia la coscienza tranquilla: noi tutti poi, quando la differenza fra noi e un altro essere è molto grande, non avvertiamo più nulla di ingiusto e uccidiamo un moscerino per esempio senza alcun rimorso.» (Friedrich Nietzsche Umano, troppo umano, I e Frammenti postumi (1876-1878), in Id., Opere complete IV/2, versione di Sossio Giametta, Adelphi, Milano 1977, aforisma 81, Errori di chi patisce e di chi fa, pp. 68-9.)
Questo è proprio ciò che la narrativa moderna non prende in considerazione come cosa degna di essere fatta oggetto della narrazione dell’epoca moderna in ciò che rimane come l’epoca moderna. Di che cosa parliamo, quando parliamo del meticcio italiano Dante Alighieri; del meticcio italiano Giovanni Boccaccio; del meticcio italiano Gabriele d’Annunzio?
4. Via (Due)
L’intervista di Adam Biles a RC (Rachel Cusk, “Onori”, in Adam Biles, Conversazioni letterarie, traduzione di Massimo Ortelio, Neri Pozza Editore, Vicenza 2024) ripropone, per quanto l’intervista sia datata 29 novembre 2018, ancora alcuni punti interessanti: 1) il silenzio, che costituisce il personaggio Faye; 2) le cose del mondo e la letteratura, che sfiorano il personaggio Faye; 3) l’inutilità della letteratura, che il personaggio Faye, indirettamente, grazie alla sua costituzione di personaggio attraverso i tre romanzi della trilogia, permette di mettere a punto.
Il silenzio di Faye è il silenzio che ha a che fare con il silenzio dello psicoanalista, secondo una prima intuizione di AB, che la stessa RC conferma in quanto tale, vale a dire in quanto silenzio che non fonda un nuovo dialogo, ma si pone come ciò che si insinua, in quanto silenzio, nel chiacchiericcio invadente della vita quotidiana che è solo silenzio, anziché rumore, in quanto non uso della lingua, cioè come ciò che serve solo a mettere a punto la descrizione di un caso clinico, secondo la più vecchia interpretazione della psicoanalisi – quella di scuola freudiana. Il modo migliore per verificare la forza di chi scrive è sempre porsi la domanda: “Qual è il rapporto tra chi scrive e la lingua usata nel testo che, adesso, abbiamo di fronte in quanto soltanto testo che possiamo leggere?”, questo perché non può esserci rapporto tra chi scrive e la lingua usata in quella occasione, per scrivere, se non c’è desiderio di violentare la lingua, indipendentemente dal fatto che quella lingua sia usata da uno scrittore oppure da una scrittrice.
I capolavori della letteratura, si tratti di Wilhelm Meister o di Benito Cereno, descrivono le cose del mondo in quanto parte di quella narrazione, cioè di quella cosa con cui i personaggi si trovano ad avere a che fare, per cui quei personaggi trovano il loro spessore solo tra quelle tante cose particolari che li hanno coinvolti a livello di finzione, e lì riportate, del mondo, in quel momento preciso, vale a dire nella tonalità scomoda stabilita dall’autore come la totalità della scomodità delle cose del mondo di stare insieme, intravista in un momento di nebbia. Rachel Cusk presenta le cose del mondo solo come informazioni con le quali i suoi personaggi hanno a che fare in quel momento illuminato dal raggio disperso della modernità, che disperde appunto il per-sé; che non hanno bisogno di alcuna tonalità narrativa, ma soltanto di una condivisione di informazioni, cioè di un modo “social” di essere nel mondo, che porta alla totale, trionfante, finale, desolante inutilità della letteratura, che riguarda solo la totalità di informazioni trasferite a un pubblico di “amici di una rete social” – il tutto in riferimento al personaggio Faye. Il raggio triste della modernità è ciò che si oppone ai raggi della notte, ma che impone il rapporto tra chi scrive e chi legge, che è il mondo fittizio in cui si muove il personaggio-truffa che è Faye.
Nella migliore delle ipotesi, la letteratura, nella forma desolante in cui essa, infine, adesso sembra giungere, sfinita davvero, fino a noi, – come la terra, anche la letteratura, è ciò che chiama il suo abitante, cioè il suo lettore, perché la letteratura, come la terra, è ciò che chiama ciò che è stato chiamato ad abitarla, in quanto abitante o lettore – è ciò parla delle tante cose del mondo, ma non parla mai della Cosa, che è ciò contro la quale ci si trova a sbattere quando non si hanno programmi stabiliti da svolgere, come nel caso dei molti trasferimenti di Faye, che è l’insieme delle diverse cose del mondo che chiama l’insieme {thing Ding þing}, che, solo in privilegiati momenti, lega le forme chiamate a stare tutte perfettamente quante insieme, sempre per la prima e unica volta, dando così vita all’incontro con le diverse cose del mondo, che sarà, allora, ciò che costituirà, nel mondo, l’Incontro con la Cosa, che è ciò che, in nessun caso, riguarda la vecchia Faye, che non ha nulla da dire, come si evince dalla trilogia che la riguarda, non avendo mai avuto a che fare con l’Incontro con la Cosa. Il richiamo non simbolico alle cose del mondo è la resa alla frivolezza che costituisce la modernità e quindi l’accettazione della letteratura come la cosa che può essere definita “inutilità della letteratura”, che pone la modernità in quanto accettazione della totalità delle cose del mondo con cui si ha a che fare, escludendo l’Incontro con la Cosa. È strano che RC chiuda l’intervista con questa frase, del tutto a sproposito, visto quanto riguarda i suoi libri, così avvolti nella modesta nebbia della tarda genitorialità, che sa di ultimo graffio di questa scrittrice, che appare sempre più come la versione saccente di Sophie Kinsella: «Ignorare il gruppo, rifiutarsi di compiacere il gruppo, ribadire che l’individuo è ciò che conta. Questo è ciò che fa un libro. È un individuo che parla con un altro individuo e questa è la sua forza. Ed esiste ancora. Questo tipo di romanzo mi pare vivo come sempre, anche se non è dove qualcuno pensa che sia. Ma è vivo come sempre. Solo che non vince premi letterari.» (p. 145). Scrivere romanzi non ha nulla a che fare con l’allestimento di storie, che è ciò che invece fa chi ha scelto il modo, come in questo caso, più comodo per sbarcare allora il lunario e sempre in questo caso più confacente: allestire storie, riconfezionare vecchie storie che altri, già vecchi compilatori, avevano preparato (come il caso, a livello infinitamente inferiore, di Chiara Valerio con Il grande Bob di Simenon, storia puntualmente riallestita nel romanzo nuovo dal titolo Chi dice, chi tace), mentre chi è portato a scrivere non sa con che cosa ha a che fare – e appunto questo stabilisce il suo ruolo nei confronti di tutte le parole del mondo, mentre il richiamo alla pura informazione è ciò che esclude ciò che ancora attende di essere affrontato a livello di ciò che costituisce la letteratura – che è appunto la Cosa che ci attende, in quanto cosa del dire, cioè della saga, che è la storia, per cui il guaio si ha quando chi scrive sa con che cosa ha a che fare.
Rachel Cusk, Resoconto, traduzione di Anna Nadotti, Einaudi 2018
Rachel Cusk, Transiti, traduzione di Anna Nadotti, Einaudi 2019
Rachel Cusk, Onori, traduzione di Anna Nadotti, Einaudi 2020