Razze inferiori e rappresentazione

In Heliopolis Ernst Jünger rappresenta l’era delle macchine nell’aspetto di un’era ancora contrassegnata da una certa gentilezza verso i suoi abitanti.
Coerentemente, questo romanzo del 1949 richiama – leggendolo adesso – atmosfere di una scenografia steampunk.
Jünger parla di razze inferiori e di globale degenerazione, il tutto racchiuso in un “modello” esteticamente funzionante: la città di Heliopolis e la fluttuante e archetipica paleogeografia cui fa riferimento Heliopolis.
A partire da questo romanzo è possibile intravedere una dissociazione dello strumento: una letteratura (adesso dichiaratamente steampunk) che rappresenta un mondo in preda all’era delle macchine senza alcuna difficoltà a livello di “rappresentazione” (la cinematografia di tipo fantascientifico mostra appunto come tutto sia modulabile attraverso l’estrema spettacolarità); una letteratura che si blocca davanti alla possibilità di una rappresentazione – e che, in quanto possibilità letteraria, tende all’estinzione.
Jünger poteva ancora fare uso di un concetto di “totalità”. Le sue razze inferiori erano, appunto, ancora “razze”. Un film che mostra le azioni di una banda di meticci di periferia (siano essi Indios, negroidi o Italiani mafiosi) non dice niente sul meticcio di periferia in quanto razza inferiore; anzi, presenta il singolo meticcio come un caso umano individuale, verso cui è legittimo provare una – sia pur vaga – simpatia. Heliopolis ha l’aspetto di un romanzo filosofico dei tempi andati, e suona un po’ come una favola: la favola appunto della totalità perduta; il film sui meticci di periferia ha la realtà graffiante del servizio catturato in un telegiornale, dove nulla è perduto. Nemmeno il tempo. E ad esso, appunto, dando scacco alla totalità, si conforma e si conferma ora il romanzo.
Ma che cosa si può dedurre da questi due tipi di opere e operazioni possibili? Forse che la mancanza di opera è ciò che bussa alla porta della modernità?

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