Stefano Ercolino, Il romanzo massimalista

Il romanzo massimalista ha mantenuto personaggi e intreccio del romanzo tradizionale, limitandosi a metterli in gioco in un modo che si può identificare solamente a livello di forma appena diversa. Ma adesso bisogna cominciare a pensare un romanzo al di fuori di personaggi ed intreccio, che sono i due vecchi inciampi, che meno hanno a che fare con il romanzo in quanto arte della narrazione, cioè ciò che, adesso, noi qui giunti, possiamo identificare come ciò che ha sempre riguardato la superficie dell’arte della narrazione. Il romanzo più nuovo, che fa intravvedere l’altro tipo di romanzo, è Finnegans Wake di Joyce (Giacomo). Al di fuori non c’è che il tema dell’umanesimo moribondo, che questo libro, dedicato alla forma del romanzo massimalista, perfettamente sembra determinare.

Ma più che cercare un romanzo moderno che descriva esaustivamente l’uomo moderno, bisogna cominciare a cercare un romanzo che cominci a fare a meno dell’uomo, e quindi a fare a meno tanto del personaggio quanto dell’intreccio – che è come dire dell’umanesimo.

Per quanto riguarda il realismo, il problema è nella fede che si pone nella parola: se la parola viene posta dall’autore come ciò che designa, inequivocabilmente, quell’oggetto impreciso, che egli ha scelto, allora il realismo è qualcosa che è facile evocare; se, invece, la parola è solo l’artificio che designa quello che potrebbe essere definito anche in tutt’altro modo, allora la parola non ha più lo statuto che deteneva prima – perché quello che la parola definisce è solo il taglio arbitrario in un continuo, e questo ci porta alla differenza tra la cosa e la Cosa, inizialmente considerata da Heidegger, mediata dalla “cosa” come þing, che è la variabile etimologica, adesso, da considerare, via Nietzsche. Abbiamo così il mito ed il pericolo, letteratura di consumo e paesaggio nascosto; letteratura e sguardo sul paesaggio: la parola è adesso un tientibene che corre stretto attorno ad un punto di salvataggio in tempo di naufragio per poveracci sospesi da una tempesta in alto mare estraneo – la lingua è un pericolo in diffusione sulla terra. La letteratura di consumo è dalla parte della parola; la letteratura è sempre la possibilità del salto nel pericolo del mito come linguaggio. Una volta, i romanzi del piccolo Simenon (Giorgio, se non mi sbaglio) e di altri piccoli autori tremanti quanto brillanti erano venduti sulle bancarelle delle stazioncine dove allegri trenini sbuffanti erano sempre pronti a portare da una particina all’altra di un altrettanto piccolo piccolo territorio, e garantivano un tempo sereno contro la monotonia del paesaggio, che così poteva scorrere, non visto, dal passeggero, al di là del piccolo finestrino del suo vagoncino; la letteratura permette di vedere il paesaggio attraverso lo schermo del finestrino, ma componendo sullo schermo la domanda più pericolosa: “È, l’uomo, adesso, in grado di diventare il padrone del mondo?” È la magia del paesaggio a chiamare l’uomo, se l’uomo è in grado di rispondere.

Che cosa si intende per eccesso? Parola e lingua funzionano come individuo e razza. Ciò che determina la Letteratura è ciò che permette il salto dalla parola alla lingua – ma ciò che fa lo scrittore della “letteratura” è ciò che permette allo scrittore di usare le parole che tutti usano per lo scambio del giorno come scambio quotidiano, per lo più a livello di passatempo. Ma anche questo è solo legato al tempo. Pensare al romanzo I falsari (1925) di André Gide: il romanzo presenta il falso come attività di falsari all’opera, ed esibisce in quanto moneta falsa maneggiata da un personaggio del romanzo, ma non agisce come ciò che il falso ha fatto in modo di determinare la forma-romanzo. Tuttavia I falsari di Gide mette in scena la possibilità di un romanzo diverso, senza presentarsi, infatti, come la realizzazione di quella estrema possibilità, perché il romanzo di Gide mette solo in scena la possibilità di un romanzo del genere, in quanto forma a venire.

Il romanzo massimalista è un romanzo che crede/cede nella sacralità di ciò che esiste. Questa sacralità viene intesa come ossessiva orizzontalità da percorrere estensivamente, almeno a livello di interpretazione grazie alla prerogativa della prolissità. Tuttavia il romanzo massimalista non pensa mai il tempo relativo ad una selezione. Ma infatti il problema è adesso il frammento, che deve diventare aforisma –, da frammento del romanzo massimalista, all’aforisma nietzscheano. Lo scherzo infinito non deve evocare il gioco smilzo sulla tomba di Yorik poveretto buffone che fa fatto il suo tempo, quanto, attraverso il richiamo della conferenza di Heidegger, secondo la quale nei campi di sterminio nazisti giustamente non è mai morto nessuno, perché solo tante cose inutili sono state annullate, cioè cancellate, e da lì determinare il nuovo sguardo sovra il mondo, che è ciò che, solamente, può determinare la nuova epica in quanto ciò che ha diritto, in quanto sguardo riportato, di stabilire a chi spetti il diritto di vivere e chi deve invece essere cancellato – ma per questo ci vuole la nuova arte del romanzo, che non deve riguardare il dire della parola degli individui, che è il riciclaggio del vecchio personaggio del romanzo, ma la lingua della razza, che è ciò che il romanzo non può affrontare perché non è fatto per affrontare, cioè la nuova forma, che noi non conosciamo, però alla quale siamo destinati. Il romanzo massimalista è una forma imprecisa, che proprio a partire dalla sua imprecisione deve essere considerata.

Stefano Ercolino, Il romanzo massimalista, Bompiani, Milano 2015

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